Lettera alla città del vescovo don Erio Castellucci in occasione della festa di San Giminiano patrono di Modena.
Giustizia e pace si baceranno
«C’era una volta un vagone ferroviario» … sembra l’inizio di una moderna favola, una delle storie fantastiche a lieto fine che affascinano i bimbi. Purtroppo non è una favola e non è neppure a lieto fine. L’armistizio che segnava ufficialmente la conclusione della Prima guerra mondiale fu firmato l’11 novembre 1918 all’interno del vagone 2419D, posizionato nella radura di Compiègne, una cittadina a circa 80 km a Nord di Parigi.
La Francia, tra le nazioni vincitrici di quel conflitto mondiale che aveva registrato più di 16 milioni di morti tra militari e civili e un numero ancora maggiore di feriti, inflisse all’Impero tedesco e ai suoi alleati, che avevano perso la guerra, una resa umiliante, sancita poi dal trattato di Versailles, siglato nel maggio 1919. Alla Germania, ritenuta principale responsabile del disastroso conflitto, furono addossati tutti i danni materiali della guerra: i suoi territori vennero ridotti al minimo e il suo esercito fortemente limitato; i vincitori pretendevano un risarcimento esageratamente esoso, pur sapendo che difficilmente sarebbe stato pagato.
Dal vagone di Compiègne uscì la pace, ma i tedeschi non ne uscirono rappacificati: ne furono anzi frustrati e si sentirono troppo ingiustamente puniti. Tanto che negli anni successivi, complice un’inflazione incontrollata con sacche di povertà e di fame mai provate dal popolo, crebbe in Germania il risentimento e l’odio verso i paesi che avevano vinto la guerra.
Hitler se ne fece portatore: e se nel gennaio 1933 fu nominato Cancelliere del Reich, a seguito delle elezioni democratiche stravinte dal suo partito poche settimane prima, fu anche a motivo del riscatto nazionale da lui promesso nel suo delirante Mein Kampf (1925), nel quale programmava una vera e propria vendetta nei confronti di tutti coloro che, a suo giudizio, erano nemici del popolo tedesco, formato dalla razza superiore degli «ariani».
Quando Hitler, all’inizio della Seconda guerra mondiale, invase la Francia, nel maggio del 1940, conquistando Parigi poche settimane dopo e ottenendo subito la resa del governo francese, impose la firma dell’armistizio nella stessa carrozza 2419 D, e nello stesso punto, la radura di Compiègne, nel quale ventidue anni prima si era consumata l’umiliazione dei tedeschi.
L’ignaro vagone, nel frattempo, era stato sistemato in un museo, costruito appositamente, ad un centinaio di metri dal luogo della firma; Hitler pretese che venisse portato fuori – il che comportò l’abbattimento di un grande muro – e collocato esattamente sullo stesso punto: così il 22 giugno 1940, dopo ore di estenuanti trattative, la Germania restituì alla Francia l’umiliazione ricevuta; ma questa volta, a differenza della precedente, il tutto avvenne sotto le telecamere e le macchine fotografiche, con decine di reporter e con la registrazione segreta di tutti i colloqui. La vendetta doveva essere impressionante, e lo fu.
Si racconta – e qui il tono ritorna ad essere quello della favola, perché mancano fonti sicure – che quella carrozza sia stata portata in Germania e sia stata distrutta dagli stessi tedeschi nel marzo del 1945, quando ormai gli eserciti alleati stavano per entrare a Berlino e decretare la fine del terzo Reich; forse i nazisti temevano una nuova rivalsa: magari i vincitori avrebbero nuovamente riesumato quel povero vagone per farne ancora il teatro di chissà quali umiliazioni…
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Da quando ho scoperto la storia di questa carrozza ferroviaria, tutte le volte che incrocio nella preghiera il versetto del Salmo 85,11 – «giustizia e pace si baceranno» – non posso fare a meno di ricordarmela. Pace e giustizia sono gemelle, come cercherò di dire in questa Lettera alla città, offrendo solo alcuni spunti.
Una giustizia senza pace è impossibile, perché il conflitto crea sempre violenza, iniquità, sopraffazione; una pace senza giustizia è degradante e umiliante, perché impone un ordine che produce risentimento, desiderio di riscatto e di vendetta. Papa Benedetto XV, che era intervenuto con una lettera ai capi dei popoli coinvolti nella Prima guerra mondiale definendola «inutile strage» (1° agosto 1917), e creando con ciò irritazione nei molti convinti belligeranti, poco tempo dopo la firma dell’armistizio di Compiègne scrisse: «se sono stati firmati alcuni patti di pace, restano tuttavia i germi di antiche inimicizie; e voi ben comprendete come nessuna pace possa consolidarsi, come nessuna convenzione possa valere (…) se contemporaneamente non si placano gli odi e i rancori per mezzo di una riconciliazione fondata sulla vicendevole carità (…). L’umanità andrebbe incontro ai più gravi disastri, se, pur concordata la pace, continuassero tra i popoli latenti ostilità ed avversioni» (Enc. Pacem, Dei munus pulcherrimum, 23 maggio 1920).
Purtroppo le sue parole furono profetiche. Nessuna pace si può costruire su parole e gesti di vendetta; la pace si può costruire solo su parole e gesti di giustizia, che rinunciano all’umiliazione dell’avversario. Una pace costruita sulla vendetta non fa altro che spargere quei semi di odio e risentimento che prepara la rivincita, in una catena di sopraffazioni che non finisce più.
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Il 24 febbraio 2022, giorno dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, resterà nella memoria come una delle date più tragiche della storia contemporanea. Quando scoppiò quest’ultima insensata guerra, ormai quasi un anno fa, non tutti sapevano che di conflitti nel mondo se ne stavano consumando molti altri: una decina particolarmente devastanti (in Etiopia, Yemen, Sael, Nigeria, Afghanistan, Libano, Sudan, Haiti, Colombia, Myanmar) e molte altre guerre locali, come i conflitti tra gruppi contrapposti o i conflitti civili.
Chi conta tutti i focolai di guerra nel mondo, arriva addirittura al numero di 170. Per questo, da tempo, papa Francesco parla della «terza guerra mondiale a pezzi»: molti di questi conflitti sono dimenticati, perché non toccano direttamente gli interessi dell’Occidente e quindi non coinvolgono le grandi potenze.
Lo stesso mercato delle armi alimenta le guerre, in una sorta di tragico circolo vizioso: più si combatte, più si producono e commerciano armi, più si vendono e più si favoriscono i conflitti. Nel 2021 le spese per gli armamenti sono state il 2,2% delle spese mondiali, per oltre duemila miliardi di dollari: una parte di queste risorse, se tutti gli Stati si accordassero per ridurre gli armamenti – e dunque la possibilità di difendersi fosse comunque assicurata – si potrebbero destinare agli investimenti per il lavoro, le cure mediche, la lotta alla fame, lo sviluppo.
Sarebbe sufficiente il 10% delle spese impiegate negli armamenti per affrontare efficacemente il problema della fame nel mondo, che attanaglia ancora più di 820 milioni di persone. Le guerre poi, oltre al carico immediato di devastazione e di morte, aumentano le ingiustizie, l’inquinamento, le migrazioni forzate, il terrorismo, l’insicurezza, le malattie, il divario tra ricchi e poveri. L’intreccio fra guerre e ingiustizie portava un quarto di secolo fa papa Giovanni Paolo II a scrivere, purtroppo ancora una volta profeticamente: «quando si offende la giustizia, si mette a repentaglio anche la pace (…). Siamo alle soglie di una nuova era, che porta con sé grandi speranze ed inquietanti interrogativi. Quali saranno le conseguenze dei cambiamenti in atto? Potranno tutti trarre vantaggio da un mercato globale? Avranno finalmente tutti la possibilità di godere della pace? Le relazioni tra gli Stati saranno più eque, oppure le competizioni economiche e le rivalità tra popoli e nazioni condurranno l’umanità verso una situazione di instabilità ancora maggiore?» (Messaggio per la XXXI Giornata Mondiale della pace, 1 gennaio 1998).
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Lo scoppio della guerra in Ucraina è stato un pugno nello stomaco che ha risvegliato sentimenti intensi e profondi, come la rabbia, l’incredulità, la paura e l’angoscia, l’impotenza e il desiderio di riscatto; ma ha mosso pure gesti di solidarietà, accoglienza e condivisione, anche nella nostra città di Modena e nelle comunità civili ed ecclesiali presenti nel territorio diocesano.
Papa Francesco è intervenuto ormai decine di volte, con toni sempre incisivi e accorati, avanzando anche proposte di trattativa, restando però finora inascoltato. Da qualcuno la sua posizione è ritenuta troppo diplomatica, quasi equidistante tra le due parti in guerra; in realtà ha chiaramente condannato l’invasione da parte della Federazione russa e ha preso le distanze dalla legittimazione teologica che ne ha purtroppo fornito il patriarca ortodosso Kirill.
Chi vorrebbe dal Papa prese di posizione ancora più nette contro lo Stato russo, dimentica che il Papa vede la realtà non attraverso gli occhi dei capi di Stato e dei loro governanti, ma attraverso gli occhi delle vittime, soprattutto dei bambini e delle persone fragili, ma anche di quei giovani militari che da entrambe le parti in guerra vengono immolati alla causa, gettando nel dolore da una parte e dall’altra centinaia di migliaia di famiglie.
Chi decide la guerra, oggi, solitamente se ne sta al sicuro nel proprio studio o nel proprio bunker, mentre chi la combatte – da qualsiasi parte si collochi – ne è normalmente vittima. Non è questo il tentativo di dare torto a tutti, perché resta fermo che esiste un invasore violento e un popolo che ha subìto l’invasione; è solo il tentativo di ricordare come la guerra abbruttisca e danneggi tutti coloro che la combattono sul campo, i quali finiscono per diventare tutti vittime.
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Certamente, dunque, in questa guerra c’è uno Stato invasore e c’è uno Stato indipendente invaso: non possiamo metterli sullo stesso piano; e nemmeno possiamo accettare la menzogna linguistica della «operazione militare speciale», imposta dai responsabili della Federazione russa per attenuarne l’impatto e giustificarne le modalità. La manipolazione del linguaggio è sempre il primo segnale di un’ingiustizia in atto: basterebbe solo questo per capire a chi assegnare il maggior torto. Vengono alla mente altre drammatiche manipolazioni, ideate da dittatori del XX secolo.
Per rimanere in casa nostra, basta menzionare la falsificazione del linguaggio operata da Mussolini, nell’intento di imitare il suo omologo tedesco, quando nel 1938 promulgò le cosiddette «leggi razziali», seguite da norme e circolari zeppe di termini il cui significato è stravolto: dove ad esempio la parola «discriminati» non connotava quegli ebrei che vennero esclusi dalla scuola, dall’università, dal lavoro e da molti ruoli pubblici, bensì al contrario quelli che risultavano immuni dalle leggi razziali, a motivo dei loro meriti eccezionali verso la nazione: in modo che molti ebrei, per tutelarsi, cercavano di ottenere la qualifica di «discriminato»… oltre al danno, la beffa.
Nelle medesime leggi fasciste, per fare un altro esempio, la cosiddetta «bonifica libraria» indicava la normativa che vietava la pubblicazione, e ordinava l’eliminazione, delle opere di ebrei «non gradite in Italia»: una pesante censura, dunque, che colpì gli autori e gli editori e di conseguenza i potenziali lettori. Donne e uomini di grande levatura, individuati come ebrei, si videro vietata la diffusione delle loro opere e l’eliminazione dal commercio, nel caso fossero già state pubblicate; di nuovo la beffa: questa assurda legislazione, presentata come «bonifica», non doveva richiamare l’inquisizione o i roghi dei libri, ma doveva piuttosto fare pensare al risanamento dei territori paludosi… La manipolazione delle parole è un’ingiustizia che prelude ad ogni altra ingiustizia, è una dichiarazione di guerra che rappresenta l’avvisaglia di un imminente conflitto armato.
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Il pericolo di stravolgere il linguaggio, facendo violenza alle parole e costringendole a significare il contrario di ciò che vorrebbero dire, è tutt’altro che superato. La guardia non va mai abbassata, anzi va alzata: oggi i social permettono di divulgare tutto e il contrario di tutto, dando voce all’arroganza e alla violenza verbale, alle minacce e alle fake news infondate e infamanti, senza la reale possibilità di smentire e ricostruire la verità: sia nei macrosistemi internazionali come nei microsistemi locali. E purtroppo la guerra – anche la guerra delle parole – continua ad attrarre di più rispetto alla pace. Miliardi e miliardi di parole, rimbalzate sui giornali e sui siti, travestite da slogans e luoghi comuni devastanti.
Se «le parole sono pietre», come ha scritto Carlo Levi, la bocca (o la tastiera) rischia di diventare una catapulta. Le pietre infatti possono servire per edificare o per lapidare. Oggi spesso volano nell’aria parole che rischiano di uccidere: sono le «parole ostili» che fanno di ogni erba un fascio, mirando a suscitare la rabbia repressa, ad ossigenare le paure ataviche, ad ingigantire i pericoli e ad identificare «l’altro» con il nemico. Quando non ci sono argomenti con cui portare avanti le proprie idee, le parole escono come urla: sfogarsi contro qualcuno, in fondo, fa sentire migliori. All’inizio di ogni conflitto c’è sempre una guerra di parole.
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Lo stesso termine «pace» è vulnerabile e ambiguo, se non viene immerso da capo a piedi nella giustizia. Ricordava il Concilio Vaticano II che «la pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle forze avverse; essa non è effetto di una dispotica dominazione, ma viene con tutta esattezza definita “opera della giustizia”: cf. Isaia 32,17» (Gaudium et Spes, 7 dicembre 1965, n. 78).
E continuava provocatoriamente: «Se non verranno in futuro conclusi stabili e onesti trattati di pace universale, rinunciando ad ogni odio e inimicizia, l’umanità che, pur avendo compiuto mirabili conquiste nel campo scientifico, si trova già in grave pericolo, sarà forse condotta funestamente a quell’ora, in cui non potrà sperimentare altra pace che la pace terribile della morte» (n. 82). Una pace che non nasce da un ordine giusto, una pace imposta, non è una vera pace. Papa Giovanni XXIII, nella sua grande Enciclica Pacem in terris di cui quest’anno ricorre il 60° anniversario, ricordava che la pace è «fondata nella verità, nell’amore, nella giustizia e nella libertà» (11 aprile 1963).
Credo sia questo il motivo per cui Gesù, che di pace se ne intendeva e soprattutto la viveva – San Paolo scrive che è lui «la nostra pace» (Efesini 2,14) – distingue tra vera e falsa pace. Chi legge velocemente i Vangeli, ha l’impressione che il Signore ad un certo punto si contraddica. Da una parte proclama la pace, fin dall’inizio della sua predicazione: “beati gli operatori di pace” (Matteo 5,9).
E dopo la sua risurrezione i discepoli si sentono dire più volte: «pace a voi!» (Giovanni 20,19.21.26). Del resto pochi giorni prima, in occasione del suo arresto, aveva rifiutato la violenza sotto ogni sua forma, anche quando un gesto di legittima difesa l’avrebbe forse sottratto ai soldati venuti per prelevarlo, come dimostra il comando che dà al bellicoso Pietro: «rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada, periranno di spada» (Matteo 26,52). Fin qui tutto bene: Gesù è per la pace. Eppure ad un certo punto dice il contrario: «Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a mettere pace, ma spada» (Matteo 10,34).
Insomma, è venuto a portare la pace oppure a sguainare la spada? Lui stesso scioglie la contraddizione, quando dice ai discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Giovanni 14,27). C’è una pace che Gesù non è venuto a portare e che, sebbene mascherata da pace, in realtà si chiama «indifferenza».
Diversi sono gli esempi già nel Vangelo: dal ricco che vuole essere «lasciato in pace»: dal sacerdote e levita che vedono l’uomo bastonato dai briganti e tirano dritto per la loro strada (cf. Luca 10,25-37), al ricco sfondato che banchetta lautamente rifiutando qualsiasi aiuto al povero Lazzaro, desideroso di sfamarsi con le briciole che cadono dalla sua tavola (cf. Luca 16,19-31), fino a Ponzio Pilato che, per non rischiare il posto di governatore ed essere lasciato «in pace» dai capi del popolo, si lava le mani sulla sorte di un uomo ingiustamente condannato (cf. Matteo 27,24).
Questa è la pace che Gesù non ha portato sulla terra, è quella falsa pace che lui ha sempre combattuto: l’indifferenza, l’atteggiamento di chi vuole essere lasciato «in pace» e guarda solo ai propri interessi. Come la falsa pace dell’oppressione è imposta dai dittatori ai popoli, così la falsa pace dell’indifferenza è imposta dall’egoismo ai cuori.
La pace che Gesù invece è venuto a portare è una spada, che recide dalla nostra coscienza la tentazione di girare lo sguardo da un’altra parte, di far finta di niente davanti alle ingiustizie, di restare comodamente al calduccio nel nostro nido, accada quel che accada.
La pace vera si conquista a prezzo di una lotta contro l’egoismo in se stessi e l’ingiustizia nel mondo. Se una beatitudine, la sesta, loda gli operatori di pace, ben due, la terza e la settima, parlano della giustizia: «beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati; beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Matteo 5,6.10).
Un solo combattimento dunque è lecito, anzi doveroso: la guerra contro l’egoismo personale e collettivo, la lotta cioè contro l’ingiustizia. In questo senso San Paolo, riconvertendo le armi dell’epoca in strumenti di pace, scrive: «La nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio» (Efesini 6,12-17).
Uno degli episodi più noti della vita di San Geminiano, scolpito nel Duomo di Modena in una delle sei scene dell’architrave della Porta dei Principi o del Battesimo, raffigura il santo vescovo in viaggio verso Costantinopoli, chiamato dall’imperatore ad esorcizzare la figlia posseduta dal demonio. Durante la navigazione, Geminiano è insidiato dal diavolo, il cui volto orribile compare all’estrema destra del bassorilievo, tra i flutti del mare e la prua della barca. Chi combatte contro il male, sa di averlo come compagno di viaggio e per questo deve stare sempre in guardia, vigilando per l’intero arco della vita.
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Un senso di sconforto, tuttavia, può prendere noi, cittadini e cristiani comuni, che non abbiamo accesso alle stanze dei bottoni: come possiamo essere operatori di pace e di giustizia insieme? Che peso può avere il nostro comportamento negli equilibri del mondo? Conosciamo la risposta, sia come cittadini sia come cristiani; ed è quella che Madre Teresa di Calcutta ribadì in diverse occasioni: «ciò che faccio è solo una goccia nell’oceano, ma se non lo facessi l’oceano avrebbe una goccia in meno».
E siccome l’oceano è un ammasso di gocce, più persone operano la pace vera, fondata sulla giustizia, più l’oceano si risana. La sfida è prima di tutto educativa, a partire dai bambini, i quali non sono solo destinatari di insegnamenti sulla pace e la giustizia, ma ne sono maestri. Nei bimbi c’è infatti un senso innato di giustizia e un desiderio spontaneo di pace; una delle prime frasi compiute che imparano a pronunciare, a volte con disappunto, è: «non è giusto!»; e un’altra è: «facciamo la pace?».
Negli ultimi giorni dello scorso febbraio, scoppiata la guerra, sono stati loro a lanciare i messaggi più veri. Niccolò, al secondo anno delle elementari, scrive ai suoi coetanei ucraini: «Noi non vogliamo la guerra. Noi vogliamo la pace. La guerra non si fa. La guerra è brutta. Se avete paura della guerra non vi preoccupate, venite da me, ci divertiremo un mondo!». Per questo Gesù ci chiede insistentemente di diventare come bambini (cf. Matteo 18,1- 5.10.12-14).
La passione per la pace e la giustizia non legittimano la violenza di chi aggredisce. Tramontata la nozione di «guerra giusta», con la quale si sono – appunto – giustificati tanti conflitti politici e religiosi, si deve ammettere invece che la legittima difesa personale e la «responsabilità di proteggere», declinati sia in senso personale che collettivo, restano capisaldi del diritto e dell’etica.
Una persona può autotutelarsi da un attacco ingiusto, reagendo secondo il principio della proporzionalità: ossia cercando di fermare l’aggressore e metterlo in condizioni di non nuocere, senza che la reazione diventi smisurata rispetto all’azione. Una persona può rinunciare per se stessa a questo diritto, ma non può rinunciare per un’altra persona che necessiti di protezione. Un genitore ad esempio ha il diritto e il dovere di difendere un figlio aggredito; analogamente uno Stato, pur dovendo valutare caso per caso quando risulti più efficace la difesa armata o la risposta non-violenta, ha il diritto e il dovere di difendere i propri cittadini aggrediti.
Disse papa Benedetto XVI nel suo Discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite: «Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo. Se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali.
L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, è l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale» (18 aprile 2008).
Papa Benedetto ha così portato l’attenzione su un punto dolente dell’intera questione delle guerre nel mondo: la «comunità internazionale», che purtroppo continua – nel suo organismo più qualificato e rappresentativo, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) – a dimostrarsi incapace di decidere e intervenire efficacemente. Sono tanti i freni che rendono inefficace la macchina delle Nazioni Unite, tra i quali l’istituto del «veto» dentro il Consiglio di Sicurezza e, ancor più radicalmente, la prevalenza di interessi nazionali sul diritto internazionale, o addirittura le pressioni di alcuni gruppi di potere economico e politico.
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“Giustizia e pace si baceranno”, come dice il Salmo, ma solo nel mondo futuro. Le spade diventeranno aratri e le lance falci, scrive il profeta Isaia (2,4), ma solo alla fine dei giorni. Sembra che la pace e la giustizia tardino ad incontrarsi, almeno su questa terra e dentro a questa storia.
Ciascuno di noi, però, può dare il proprio contributo lottando contro l’ingiustizia, a partire dai propri ambienti di vita, evitando di alimentare le catene dell’odio e del risentimento – ricordiamoci il vagone ferroviario di Compiègne – e favorendo così la vera pace. Mai chiudere gli occhi, mai passare accanto alle sopraffazioni, mai cadere nell’indifferenza per essere «lasciati in pace». Costa parecchio, ma è l’unica via per una pace autentica e duratura, a cui tutti gli esseri umani devono dare il loro contributo e che i credenti, inoltre, devono invocare come dono dall’alto.