Le poche battute con cui papa Francesco ha risposto ad alcune domande nel maggio del 2019, rimbalzate all’interno di un recente documentario, non hanno spalle sufficientemente larghe per reggere un «cambio di paradigma». Tuttavia, senza esagerare, possono essere considerate un indizio assai autorevole di un «passaggio» che non è esagerato definire «epocale». Possono farlo se raffrontate al permanere, lungo gli ultimi due secoli, di un approccio molto diverso alle questioni riguardanti l’esercizio della sessualità, le forme della convivenza e della vita familiare, le separazioni e i divorzi, pensate spesso come «alterazioni» della dottrina matrimoniale.
Fin dal principio, infatti, si deve riconoscere che la «materia» intorno a cui si esercita la discussione – ossia identità sessuale, famiglia, matrimonio – non si può comprendere in modo «scisso». L’astrazione di una «competenza ecclesiale» e di una «competenza civile» è – di fatto – solo la astrazione che abbiamo inventato (e subìto) a partire dal Codice di Diritto canonico del 1917. Un’invenzione del Novecento non è né di diritto divino, né una prova della esistenza di Dio. È piuttosto il tentativo antimodernistico (ma prodotto con strumenti rigorosamente moderni) per venire a capo di un «conflitto di competenze» sulla vita dei soggetti. Chi decide della unione? Chi decide della generazione? Dio o l’uomo? A questa domanda troppo drastica – e troppo sbagliata – abbiamo dato risposte inevitabilmente esagerate, sia sul versante ecclesiale, sia sul versante civile.
Ne è nato l’immaginario diffuso – e non troppo sottotraccia – di una sorta di «rivincita» contro la «breccia di Porta Pia», che ha illuso la Chiesa di poter definire un ambito di autorità – matrimonio e famiglia – su cui dichiararsi l’unica competente. Quasi una resistenza di una piccola fetta di «potere temporale». Così è stato dalla fine dell’Ottocento, attraverso il Codice, fino agli anni Venti. Poi, già in quel decennio, con il Concordato, si dovette rinunciare all’esclusiva e venire a patti col diavolo… che poi non era così diabolico, anche se, nel caso, era proprio uno stato «non liberale». E la scommessa di unire due «antiliberalismi» – uno antimoderno e l’altro ipermoderno – non durò neppure 20 anni.
Nonostante la seconda guerra mondiale, il Concilio Vaticano II e l’inizio di riforma della Chiesa, l’impostazione sulla dottrina matrimoniale restò assai arroccata, e si rafforzò con gli scontri su due leggi civili, prima sul divorzio e poi sulla interruzione di gravidanza. Due leggi che furono vissute come «traumi». Questa lettura unilateralmente pedagogica della legge civile ha corso lungo il secolo, fino a Familiaris consortio, nel 1981 e giù giù, fino ai due Sinodi del 2014 e 2015. Ma con Amoris laetitia le cose sono cambiate. Non tanto sul piano dell’immediata operatività di nuove discipline, ma proprio nel cuore di una dottrina identificata con la «legge oggettiva». La speranza di poter «giuridicizzare» ogni questione, per farne un esercizio di autorità formale, e la conseguente confusione tra prerogative civili e prerogative ecclesiali, si arresta scontrandosi con le parole limpide con cui Amoris laetitia ridefinisce, allo stesso tempo, il ruolo del magistero, il fenomeno familiare e la relazione con la legge.
a) il magistero non deve definire tutto, ma sa ascoltare;
b) la famiglia è anzitutto un fatto da riconoscere, forme plurali viventi di comunione;
c) La conformità alla legge oggettiva non implica necessariamente la conformità alla volontà di Dio
A questo sviluppo va aggiunto, più di recente, con l’enciclica Fratelli tutti, la capacità di parlare, da parte del magistero ecclesiale, sullo stesso registro di Gaudium et spes, in una lode della fraternità umana e della amicizia sociale, che non deve necessariamente muovere dalla distruzione della libertà e della eguaglianza. La scena cambia perché il campo non viene più diviso in due parti contrapposte, tra verità e libertà, tra dovere e diritto, ma si cerca, piuttosto, di illustrare i limiti delle conquiste di libertà e di uguaglianza – che non sono da respingere come tali – perché debbono essere riletti in chiave fraterna, dialogica, filiale e paterna. Questa «lode della fraternità» diventa nuovo paradigma ecclesiale, nuova disciplina culturale e anche nuova interpretazione della relazione, personale e sessuale.
Non sarebbe azzardato pensare che, sulla base di questi due fari magisteriali, la riconsiderazione delle questioni riguardanti le «unioni civili» possa essere orientata da un modo più articolato – e più fine – di considerare proprio il ruolo della legge civile. Sia chiaro: l’idea di una «resistenza ecclesiale» alla legge civile – cosa del tutto comprensibile ed anche augurabile in molte circostanze – se viene esteso a «giudizio generale» su tutto ciò che riguarda l’ampliamento della tutela dei diritti dei soggetti, rischia di basarsi su un concetto solo «pedagogico» di legge. Ma la legge può essere concepita esclusivamente in modo pedagogico solo quando non si ammette la libertà di coscienza dei soggetti umani. Ora, non vi è dubbio che solo un’equilibrata lettura dell’umano permetta di contemperare libertà originaria e libertà come compito. Guai se ci dimenticassimo della pedagogia. Ma la acquisizione di una «rilevanza inaggirabile» del soggetto e della sua libertà costituisce uno dei segni decisivi del nostro tempo. La fraternità implica il radicale rispetto dell’altro in quanto diverso, prezioso proprio nella sua alterità. Questa prospettiva trasforma il mondo e anche l’intimità: non perché la renda «politica» e ne smentisca la profondità, ma perché la pone in una prossimità con l’identità che non può più essere aggirata. E anche di questo, dopo tante travagliate angosce e tante lotte esasperate, «gaudet mater ecclesia»!
Le ricadute di questo approccio diverso sono numerose e sorprendenti, sia nei rapporti extraecclesiali, sia in quelli intraecclesiali. Sarebbe facile diplomazia provare a dimostrare che, quanto affermato da papa Francesco sulla «tutela delle unioni civili» non tocca minimamente la dottrina cattolica su matrimonio e sessualità. Ma sarebbe un grave errore sottovalutare il fatto che il matrimonio, proprio come sacramento ecclesiale, è sintesi di natura, cultura e fede e non può disinteressarsi di nessuno di questi tre livelli, di cui è costituito. Una Chiesa che accetta davvero di riconoscere il «bene possibile» di una unione civile – etero o omosessuale, con le dovute differenze – deve essere pronta a pensare più a fondo quel «mistero di amore tra Cristo e la sua Chiesa» che si manifesta, sorprendentemente, dove un uomo o una donna può iniziare a vivere non più per se stesso, ma per l’altro. La fraternità e la gioia con cui sappiamo accogliere in questo fenomeno naturale, culturale ed ecclesiale, una buona notizia può anche farci riconoscere che molte delle nostre categorie tradizionali, con tutta la loro storia ragguardevole, assomigliano ormai soltanto a maestosi mucchi di paglia.
- Pubblicato il 23 ottobre 2020 nel blog Come se non