Intervista a Martina Pignatti, direttrice dei programmi dell’associazione Un Ponte Per. Martina ha attivamente partecipato alla manifestazione per la pace – promossa dall’ampio cartello Europe for peace – che ha avuto luogo sabato 5 novembre scorso a Roma. Dirige progetti di pace anche in Ucraina, da cui è rientrata recentemente.
- Gentile Martina, come è andata la manifestazione di sabato scorso dal suo punto di vista?
Io sono felice dell’esito della manifestazione, a partire dalla grande e pacifica partecipazione di una folla molto eterogenea.
- Gli organizzatori parlano di 100.000 persone e più. La Questura di Roma ha scritto 40.000. Quante persone, dunque, c’erano in Piazza San Giovanni?
Secondo me, eravamo almeno in 100.000: un numero enorme. Posso testimoniare di aver fatto tutto il percorso della manifestazione con i nostri attivisti, dietro il nostro striscione, per non perdere nulla del senso della partecipazione – semplice – della base. Quale referente della mia organizzazione avevo il pass per il palco ma sono giunta con più di un’ora di ritardo rispetto all’inizio della serie degli interventi.
Quando sono arrivata a Piazza San Giovanni, c’era ancora gente che stava partendo o che era appena partita da piazza della Repubblica. Dal palco poi ho visto una piazza satura di gente. Il numero di 100.000 di cui ha parlato il quotidiano “Avvenire” domenica è assolutamente verosimile.
La guerra in Ucraina
- Come ha trattato la stampa nazionale, secondo lei, un evento di tale rilevanza numerica?
Molta stampa continua a sostenere che si è trattato di una manifestazione così ampia da risultare ambigua. Io dico invece che la manifestazione ha chiaramente mostrato quali fossero e quali siano le istanze unanimi dei partecipanti: ossia, cessate il fuoco immediatamente e negoziate la pace!
La “piazza” lo ha detto, senza ambiguità, rivolgendosi al governo italiano e ai governi dell’Europa. I governi dovrebbero ora sentirsi impegnati ad incentivare, in tutti i modi, la trattativa tra le parti in guerra.
Spiace costatare come i media nazionali della manifestazione abbiano preferito mettere in evidenza la presenza di Conte e di Letta e – solo a loro – abbiano riservato le principali interviste. Conte e Letta non sono saliti sul palco e non hanno parlato. Questo trattamento da parte dei media, secondo me, non è risultato rispettoso degli organizzatori e soprattutto dell’anima della gente in piazza!
- Il riferimento di molta stampa nazionale è andato evidentemente alla questione della cessione di armi all’Ucraina. Quale la posizione della piazza dei pacifisti al riguardo?
La piattaforma sottoscritta dalle numerosissime formazioni aderenti, come sapete, ha scelto di non scrivere «stop all’invio di armi all’Ucraina» per fondere la partecipazione in un unico forte appello di pace. È indubbio che, a questo riguardo, ci fossero e ci siano opinioni diverse ma la stragrande maggioranza delle organizzazioni che ha convocato la manifestazione ritiene che gli aiuti militari all’Ucraina vadano fermati.
Dal palco sono state dette, condivise e chieste, senza contestazione alcuna, cose molto importanti, forse mai dette prima in maniera così precisa: in primo luogo sulla messa al bando delle armi nucleari, come scritto nella piattaforma.
Dire questo in una piazza d’Italia, in 100.000, è un grandissimo risultato: sappiamo tutti che in Italia ci sono basi USA e sedi di comandi NATO dotate di ordigni nucleari! È stato detto poi, con grande coerenza tra gli intervenuti, che le spese militari vanno ridotte – anziché aumentate – a vantaggio delle spese per aiuti umanitari e per il lavoro. Sono cioè stati delineati obiettivi di lungo corso, di carattere strutturale, per costruire una pace sostenibile.
Spero – dopo questo – che si smetta di dire che i pacifisti vogliono la fine della guerra perché calino le bollette del gas e dell’energia elettrica. Queste sono solo banalità!
- Dire queste cose può apparire ancora troppo generico. Come si esce da questa guerra? Le formazioni pacifiste hanno idee più concrete?
Le formazioni pacifiste realizzano quotidianamente progetti di pace – anche in Ucraina – di cui posso presto dire. Le soluzioni diplomatiche per fermare gli eserciti vanno però generate dalla politica internazionale, dal dialogo tra superpotenze, auspicabilmente con la mediazione di paesi con un curriculum migliore di quello della Turchia.
Risulta ora del tutto evidente che, in questo momento, alla causa della pace serve pure un ammorbidimento delle posizioni del governo ucraino. Negoziare significa essere disponibili a perdere qualcosa per guadagnare molto di più: in termini di vite umane, innanzi tutto, quindi di salvaguardia dell’economia e dell’ambiente, con un impatto primario sulle condizioni di vita della povera gente. La piazza che ha chiesto il negoziato chiede questo.
- Lei sa bene che questa posizione viene da molti interpretata come remissiva rispetto alla forza. In questo caso, potrebbe apparire un appello alla resa del popolo ucraino aggredito.
La piattaforma della manifestazione – indiscutibile – è che c’è, dal principio di questa guerra, un Paese aggredito e un aggressore. Noi siamo dalla parte degli aggrediti, tanto che siamo in Ucraina con i nostri operatori, i nostri volontari, i nostri progetti, le nostre risorse.
Ci rendiamo ben conto di quanto sia difficile mantenere una posizione puramente pacifista. E tuttavia viviamo nella convinzione che questa sia l’unica posizione razionale, che abbia un senso umano e strategico per difendere la vita e la dignità della popolazione ucraina.
Ci viene detto che siamo idealisti. Ci viene detto che siamo fuori dalla realtà. Contestiamo questo. Abbiamo la presunzione di essere, invece, molto realisti, partendo dal fatto che il valore più alto è la vita umana, come ci ha detto la pacifista ucraina Katia nel video che ha aperto gli interventi dal palco di domenica.
Movimenti per la pace
- L’ampio cartello delle associazioni che hanno dato vita alla manifestazione è assai composito: ci sono tante associazioni marcatamente cattoliche, altre molto laiche e di sinistra. È così? Perché, secondo lei?
Faccio l’esempio della mia associazione Un Ponte Per: già la denominazione penso suggerisca qualcosa. Siamo nati nel 1991 proprio dalla convergenza tra persone che venivano dall’esperienza di Democrazia proletaria e altre dal mondo cattolico, come padre Ernesto Balducci. Direi che l’identità pacifista italiana si pone significativamente all’incrocio di questi mondi storici e culturali.
Nel caso della manifestazione di cui stiamo parlando questa convergenza è avvenuta molto spontaneamente e con una grande armonia, persino sorprendente, se penso ad alcune organizzazioni che fanno spesso da sé. Papa Francesco è un riferimento immediato e stimolante per tutti noi, motivati a scendere in piazza per la pace.
Naturalmente la convergenza e l’armonia non avvengono con tutti allo stesso modo: con parti del mondo cattolico e pure sindacale non ci è francamente facile il rapporto quando le posizioni sono contigue a ruoli di potere o a interessi del complesso militare-industriale.
- Come ha accennato, le posizioni pacifiste sono avvalorate dal lavoro che molte associazioni partecipanti svolgono nel mondo, ora, in particolare, in Ucraina. Vuole parlarcene?
Posso dire del mio impegno personale, della mia associazione e del cartello StopTheWarNow che, dall’inizio della guerra, ha sinora organizzato almeno 4 Carovane della pace in Ucraina, oltre a missioni di diversi gruppi più piccoli di attivisti e operatori umanitari.
Sono stata nel luglio scorso in Ucraina – insieme ai nostri partner rumeni e ucraini – a preparare la quarta carovana di StopTheWarNow che è partita da Gorizia a settembre, alla volta di Kiev. Quella tappa è stata organizzata da Un Ponte Per assieme al Movimento Nonviolento e dedicata alla promozione e al sostegno di iniziative di pace: si tratta di iniziative molto concrete di educazione nelle scuole e formazione nei centri giovanili in Ucraina per la coesione sociale e la gestione nonviolenta dei conflitti, fatte anche con gli obiettori di coscienza ucraini alla guerra, che ci sono pure là; fatte con chi aiuta le persone a superare il trauma della guerra, con chi cerca di resistere agli invasori con metodi nonviolenti.
- Cosa pensa la gente che incontrate della guerra e delle vostre idee di pacificazione?
Sono sincera: la stragrande maggioranza degli ucraini che abbiamo incontrato – almeno al primo incontro – non vede alternative alla guerra. Non pensa che la Russia possa fermarsi di fronte a proposte di pace e di negoziato. Ma, riflettendo con noi, non osano arrivare alle estreme conseguenze della loro posizione. Si pongono le nostre stesse domande, di buon senso: la Russia potrà essere sconfitta militarmente, sul campo? Far arrivare sempre nuove armi dall’occidente è la sola prospettiva? La federazione russa può crollare da sé senza produrre un disastroso allargamento della guerra ad un livello mondiale?
Non hanno risposte certe per queste domande. Naturalmente sono assaliti da tanti dubbi, sino al dubbio che la guerra portata ad oltranza non possa essere la soluzione e che continuare a chiedere solo aiuti militari non possa essere il loro futuro.
La maggior parte di loro comprende e rispetta – anche se non sostiene – le nostre posizioni pacifiste. Sentono che siamo con loro, che siamo lì per aiutare, anche se non siamo lì per portare armi.
Siamo con loro nel denunciare i crimini dei russi nei confronti degli ucraini. Siamo con loro anche perché crediamo che i crimini e le violazioni dei diritti umani sono veri, non finzioni. Siamo con loro per cercare di affrontare un percorso lunghissimo e difficilissimo di ricerca della giustizia e di riconciliazione, soprattutto nelle zone oggetto dei principali scontri armati e attualmente occupate dalla Russia.
Peraltro, nelle zone occupate già le persone affrontano la sfida della convivenza con chi la pensa diversamente. Cosa possono fare i civili ucraini in quelle zone? Molti di loro resistono con metodi appunto nonviolenti, a partire dalla non-collaborazione – più o meno esplicita – con i militari e le autorità imposte dai russi.
Questa forma di resistenza nonviolenta sta già avvenendo. Noi la vogliamo e la possiamo sostenere, per questo stiamo raccogliendo sottoscrizioni e donazioni da inviare ai gruppi organizzati che lavorano per la costruzione della pace, la resistenza nonviolenta e l’obiezione di coscienza alla guerra. Vi invito a partecipare a questa campagna e donare sul sito nostro sito (qui).
I giovani
- Ha parlato di obiettori di coscienza ucraini: è possibile l’obiezione di coscienza all’uso delle armi in Ucraina?
Un movimento pacifista e nonviolento esiste – da sé – anche in Ucraina. Ci sono obiettori di coscienza in Ucraina come si sono anche in Russia. Certamente non hanno vita facile, né in Ucraina, né tanto meno in Russia. Chi si dichiara apertamente obiettore in Ucraina viene sottoposto a processo – spesso senza assistenza di avvocati – e condannato. Le pene vengono gestite prudentemente: vanno da 1 a 2 anni ma con la sospensione della carcerazione.
Non sono ben visti gli obiettori. Sono denigrati e presi di mira dai gruppi di estrema destra. Subiscono l’accusa di essere “collaborazionisti” dei russi e traditori della patria. Ciò è motivo di tensione nella società ucraina. E per noi è motivo di tristezza. Come associazione abbiamo seguito in particolare il caso dell’obiettore Ruslan Kotsaba: processato per alto tradimento, è ora esule in Europa. Il movimento pacifista e di obiezione di coscienza incontra evidentemente grandi ostracismi in Ucraina.
Ma sono contenta perché anche questa bella realtà è stata ben rappresentata nella piazza di sabato scorso: dal palco hanno parlato sia Alexander Belik, obiettore russo, sia Katrin Cheshire (più nota come Katia), pacifista ucraina.
- Qual è l’ispirazione pacifista di queste giovani figure?
Nel movimento ucraino qualcuno si dice gandhiano, qualche altra figura ha una sua diversa ispirazione, ma una buona parte di questi obiettori fa riferimento alla coscienza cristiana o alla fede nell’umanità. Per me è un bel segnale. Incoraggiante.