Mi chiamo Stefano, ho 60 anni e sono un medico. Ho sempre lavorato in Ospedale e da qualche anno sono il responsabile della Medicina Penitenziaria dell’Ausl di Modena.
Il mondo del carcere è davvero molto particolare. Chi è detenuto è già stato condannato dalla società civile e paradossalmente, più che altrove, questo è proprio l’ambiente dove è importante non “giudicare” nessuno.
Senz’altro per il medico è un dovere “curare i malati”. Tutti i malati. Addirittura, in guerra i medici curano anche i nemici; così, almeno in questo aspetto, nonostante il “buio” del carcere, il precetto evangelico di “amare i nemici” è davvero vivo nel mestiere del medico. Almeno curarli.
In realtà, ancora una volta forse più che in altri luoghi, il carcere è proprio il posto dove puoi imparare quotidianamente la profondità della parola “grazie”; proprio perché i detenuti sono privi di tutto, libertà compresa, capita che anche per le più piccole cose ti ringrazino di cuore. A loro non sfugge. Ci tocca quindi di essere evangelizzati dai detenuti (i pubblicani e le prostitute vi passeranno davanti…).
La rivolta
Recentemente sono stato coinvolto nella rivolta che c’è stata in carcere a Modena.
Tralascio le considerazioni sociologiche sulle condizioni di vita dell’ambiente carcerario e sulle paure che il “Coronavirus” ha suscitato negli animi dei detenuti. Forse proprio la paura di fare la morte del topo in gabbia, le restrizioni dovute alle necessarie indicazioni di prevenzione sanitaria per il rischio di epidemia all’interno degli istituti, e la strumentalizzazione sempre presente per il desiderio costante di uscire dal carcere, hanno innestato la miccia della rivolta. Non solo a Modena.
Così mi sono trovato, insieme ad un’infermiera, un agente di polizia e a un detenuto che stavo visitando, all’interno di un piccolo ambulatorio mentre l’istituto era in mano ai detenuti rivoltosi.
L’agente di polizia teneva chiuso a chiave l’ambulatorio serrando con forza la maniglia di ferro nel tentativo di difenderci, l’infermiera piangeva per la sorte che le era capitata e la paura e l’ansia per un figlio piccolo a casa, e il detenuto, all’interno con noi, che era il più tranquillo di tutti e ci dava consigli per non peggiorare la situazione. Come se fosse possibile peggiorarla: fuori il fuoco e dentro il fumo.
Io avevo il telefono cellulare, utilissimo per chiamare aiuto all’esterno, ma non per chiamare mia moglie per un “ultimo saluto”: non me la sono sentita, si sarebbe giustamente preoccupata e così ho pensato che la mia famiglia avrebbe capito che non l’avevo chiamata solo per un gesto di affetto e non di lontananza.
In mezzo a questa “guerra mondiale” (come ha detto un mio amico) per un attimo ho chiuso gli occhi e ho pregato: è stato l’unico momento di pace e ho potuto estraniarmi dall’inferno che ci circondava affidandomi al Signore.
La sorpresa
Tra tutte queste considerazioni, la principale è questa: alcuni detenuti, in accordo con il Comandante che si trovava all’esterno, sono saliti a prenderci per portarci in salvo. Abbiamo così dovuto aprire la porta che rappresentava la nostra unica difesa, fidandoci di loro. Ci hanno scortato fino all’uscita con due cordoni di persone che gridavano “la sanità, la sanità” come forma di rispetto nei nostri confronti. Commovente.
Quando siamo usciti è stata una festa. Sono riuscito ad avvisare mia moglie, e di conseguenza i nostri figli, che ero in salvo senza che imparassero le notizie della rivolta che intanto la televisione già mandava in onda. Siamo stati accolti dalle forze di polizia penitenziaria, Comandante, agenti e Direttrice, sollevati per il buon esito almeno per noi operatori.
Nei giorni successivi ho potuto salutare l’agente che era con noi durante la rivolta: fratello! Non c’era altro da dire.
Qualche giorno dopo ho seguito in televisione la Via Crucis solitaria in Piazza S. Pietro del papa centrata sul mondo delle carceri: ho pensato che fosse stata fatta anche per me.
Mi è stato chiesto di scrivere queste brevi considerazioni su questa vicenda dolorosa che ha portato comunque il peso di nove morti tra i detenuti. Tutti per “overdose” e tutti giovani. Adesso in molti criticheranno con durezza questi fatti peraltro realmente criminali. Ancora di più troveranno le giustificazioni per invocare misure ancora più repressive. Ma è anche il momento per ricostruire, visto che è stata fatta “tabula rasa” e si possono porre fondamenta nuove.
Approfitto di questa occasione per chiedere di pregare per le carceri, tutte le sue componenti, perché diventino un luogo di redenzione e di rinascita. Ce n’è bisogno e si può fare. E la preghiera può più di ogni altra attività, peraltro necessaria.
Concludo con le parole di papa Francesco: pregate per me! Grazie.
Gent.mo Adelmo Li Cauzi,
lei ha ragione: dipende dai punti di vista e Lei ha pieno diritto di vedere la faccenda in modo diverso da quello dell’Autore. Con la differenza che lui era in mezzo alla bufera e Lei no. E con l’altra, cioè che non si può rimanere neutrali di fronte al Vangelo, perchè – PER DEFINIZIONE – esso è “segno di contraddizione”: e così ci ono vari modi di leggerlo. Non me ne voglia se le esprimo un mio (peraltro legittimo) parere: il Suo modo di leggerlo mi sembra un tantino reazionario…Spero di essere in errore.
Fraternamente
Luca Corradi
Salvato da alcuni detenuti contro altri detenuti.
Non ho capito bene il titolo.
Avrebbe potuto essere: “aggredito dai detenuti”.
Il punto di vista è tutto.