Seconda parte dello studio di Vincenzo Rosito sulle trasformazioni in atto nei tessuti urbani, nella prospettiva di trarne indicazioni capaci di istruire le coordinate per una riconfigurazione della Chiesa cattolica (per la prima parte, qui)
L’insistenza sull’urbano, in quanto terzo paradigma che si aggiunge a quello della secolarizzazione e della globalizzazione, è particolarmente evidente nei paragrafi di Evangelii Gaudium sulle Sfide delle culture urbane[1]. «Nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane dove il cristiano non suole più essere promotore o generatore di senso, ma che riceve da esse altri linguaggi, simboli, messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti di vita, spesso in contrasto con il Vangelo di Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città» (EG, 73).
Credere e abitare la storia
Evangelii Gaudium guarda alla città in una ottica culturale. Quella della vita culturale infatti è la prospettiva di chi vuole cogliere la ricchezza dei rapporti sociali, delle relazioni interpersonali, dei simboli e delle rappresentazioni collettive. La città non è semplicemente un territorio che ospita una società, ma è la società nella sua proiezione territoriale.
La città «proietta sul suolo una società nella sua interezza, una totalità sociale o una società considerata come totalità, compresa la sua cultura, le sue istituzioni, la sua etica, i suoi valori»[2]. Potremmo descrivere la città come un momento dell’incarnazione spaziale della società[3]. Questa incarnazione assume forme e modalità differenti, sebbene riconducibili a una realtà unitaria. Da un punto di vista sociale e culturale ogni città è “una” e “molteplice” allo stesso tempo. Ogni città ha una storia comune e ospita culture diverse, ha un volto unitariamente rappresentabile, ma anche linguaggi e usi specifici.
Queste proprietà eminentemente culturali della vita urbana vengono prese in forte considerazione da Evangelii gaudium. La città è fatta di opere e di operazioni umane che si concretizzano non tanto in monumenti quanto in usi condivisi e in imprese collettive. La vita culturale di una città è la vita di quelle comunità, spesso nascoste e silenziose, in cui la creatività popolare è concretamente all’opera, gruppi e associazioni di persone che hanno un loro modo di declinare il comune urbano, uomini e donne che gestiscono beni comuni in maniera unica e peculiare.
Non cose, ma gesti da fare insieme
Il comune urbano non è un patrimonio culturale da tutelare, ma è l’inveramento performativo del comune stesso. La città è quell’ambiente sociale in cui ciascuno si rende conto che i beni comuni non sono luoghi o monumenti da proteggere a vantaggio di tutti, ma occasioni per un lavoro condiviso. I beni comuni non sono cose ma processi, non sono paesaggi da ammirare ma imprese da gestire. I beni comuni sono autentiche occasioni di tessitura condivisa e di performatività sociale.
Il comune urbano non è solo un patrimonio storico condiviso, ma un progetto aperto e condivisibile. Il comune è un cantiere culturale, è un lavoro da svolgere insieme, che attende operai diversi per storia, appartenenza e formazione. Il gesto della convocazione descrive bene il cantiere urbano dei beni comuni. Sono autentiche imprese culturali urbane quelle azioni capaci di convocare, di chiamare più persone a un lavoro condiviso, di risvegliare il gusto per la cooperazione.
La convocazione
Quello della convocazione non è un gesto estraneo alle comunità cristiane che danno inizio alle proprie liturgie convocando un’assemblea. La convocazione è il presupposto costitutivo del corpo ecclesiale celebrante. Credo che il servizio della convocazione sia oggi un compito imprescindibile delle Chiese nel tessuto culturale di ogni città. La diaconia della convocazione è uno stile ecclesiale e pastorale su cui occorrerebbe ulteriormente riflettere e lavorare.
Papa Francesco la esercita concretamente quando convoca il popolo di Dio invitandolo a un lavoro comune, quando mette la Chiesa in un assetto laboratoriale. La diaconia della convocazione, più volte esercitata da Francesco, consiste nella messa all’opera della comunità ecclesiale. Ne sono un esempio le parole rivolte alla Chiesa italiana in occasione del Convegno ecclesiale di Firenze (10 Novembre 2015) o l’invito alla preghiera comune formulato nella Lettera al popolo di Dio (20 agosto 2018).
La svolta urbana, almeno per la vita delle comunità cristiane, si impone come svolta culturale. Guardando a essa le Chiese potrebbero rimodulare culturalmente le proprie strutture e il proprio stile. Questa svolta richiede infatti un cambiamento di prospettiva nell’annuncio del vangelo e nella missione della Chiesa.
È un discepolo missionario non solo colui che porta Gesù lì dove non è conosciuto, ma qualcuno che scopre la presenza inattesa di Gesù che “già vive in città”. Cambia in questo modo l’orientamento di fondo della missione e cambia in una chiave marcatamente culturale. Saper riconoscere i luoghi e le relazioni sociali che sono già abitati da Dio, richiede infatti una sensibilità culturale. «La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia.
Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso» (EG, 71).
Il Dio in tracce
Occorre sviluppare un fiuto ecclesiale per le tracce culturali di Dio, una sensibilità per quelle imprese comuni in cui la crescita di ciascuno passa attraverso il coinvolgimento di tutti. In questo modo il vangelo diventa una destinazione frequentabile, una via percorribile da molti, che conduce nei pressi di una città dove nessuno è residente proprietario.
«L’annuncio del vangelo cresce nel dialogo con molti altri, è “presente” anche negli altri, proprio perché Colui che i cristiani “annunciano” è già lì. La “città di arrivo” diventa il nuovo luogo di riferimento per l’universalità della fede»[4].
Oggi, per le comunità cristiane di antica tradizione e per i nuovi popoli migranti, ogni città è una città di arrivo, è un luogo dove è possibile incontrare uomini e donne che hanno avuto una storia con Dio. I cristiani condividono con le popolazioni migranti non un vago destino comune, ma una radicale condizione esistenziale: entrambi devono imparare a confrontarsi con una “città di arrivo”, entrambi non sono semplicemente stranieri in un determinato contesto, ma sono preceduti da molteplici intrecci culturali in cui Dio è già all’opera.
«Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita» (EG, 71).
Periferie
Credo che l’insistenza di Francesco sull’immagine della periferia suggerisca una precisa riflessione alla teologia e alle scienze sociali in dialogo con le trasformazioni urbane: prendere in considerazione le periferie significa prendere in considerazione le metamorfosi del centro e della centralità. La città impone una svolta alle scienze umane e sociali perché è una rappresentazione della centralità.
La città è probabilmente la più antica rappresentazione spaziale dell’accentramento, dell’addensamento nucleare del potere, della forza e del governo. Le periferie si moltiplicano e cambiano la loro posizione perché i centri si moltiplicano e si spostano. Dare rilevanza scientifica allo studio delle periferie significa osservare il mondo sociale attraverso la relazione che unisce il centro alla periferia.
Le città si trasformano non solo perché gli antichi centri storici si svuotano o cambiano aspetto, ma perché si creano nuove forme di centralità. Ricorriamo alla rappresentazione dell’accentramento quando, replicando la forma del centro urbano, edifichiamo ad esempio “centri” commerciali, “centri” direzionali, “centri” sportivi e così via. In questo modo il centro urbano muore e si trasforma non per contrazione e impoverimento, ma per saturazione.
Se i centri si moltiplicano anche le periferie aumentano e cambiano forma. Il binomio centro/periferia mette in evidenza come la città sia una realtà composita e polare. Nella città infatti i movimenti apparentemente contraddittori sono parti complementari del medesimo processo: implosione ed esplosione non sono due tendenze opposte, ma aspetti coesistenti della complessità urbana. Lo stesso vale per la coppia addensamento/diffusione, due tendenze apparentemente in contrasto, ma che identificano risvolti complementari dell’unico processo che chiamiamo urbanizzazione.
La complessità dell’urbano riflette la complessità del mondo contemporaneo. Le periferie si trasformano perché sono ovunque. Si può parlare infatti di ubiquità urbana del periferico o di una periferizzazione interna della città[5].
Il modello emanatista della centralità urbana, quello per intenderci che rappresenta la città come una cipolla fatta di cerchi concentrici, non è più efficace per leggere le trasformazioni urbane. Le periferie non sono soltanto quelle degli anelli suburbani, ma si sono ritratte nelle pieghe delle nostre città, le periferie non sono soltanto diffuse ma rarefatte.
Occorre pertanto concentrarsi sulla forma della “periferia interna” che non è propriamente un anello urbanistico lontano dal centro storico, ma una ruga del vissuto urbano. La periferia interna è un taglio nella continuità urbana. La periferia interna è propriamente un margine, una piega nel foglio urbano che non ha più soltanto margini esterni. Come un corpo metabolico la città contemporanea ha margini interiorizzati, pieghe che spesso delimitano i contorni degli organi interni di una città.
Per meglio comprendere la portata applicativa del binomio centro/periferia, usato da Francesco, occorrerebbe indugiare su un binomio affine come quello organismo/margine. Bisogna ripartire infatti dal margine ovvero dal bordo interno della città. Le comunità cristiane sono discepole di un maestro che si lascia conoscere dai bordi, come nell’episodio evangelico della guarigione dell’emorroissa (Mc 5,25-34). Molte volte Dio si lascia conoscere e toccare a partire dai bordi, non dal centro.
Se si leggono i paragrafi di Evangelii Gaudium in cui si parla di periferie, ci si accorge che insieme a quest’immagine c’è sempre il verbo “uscire” (EG, 20; 30; 46). Lì dove si parla della necessità di una Chiesa in uscita, si parla di periferie. Un simile accostamento non serve soltanto a dare un orientamento pratico o una destinazione preferenziale alla vita missionaria della Chiesa.
Il cambiamento di prospettiva è forse ancora più ambizioso e consiste nel considerare la periferia non solo come un sostantivo, ma come un verbo: peripherein. La periferia non è un’oggetto identificabile ma un’azione che, stando al termine greco, significa portare in giro, muovere o muoversi. Per Francesco la Chiesa in uscita è una Chiesa che adotta il gesto e la prassi del peripherein.
Questo significa che la periferia non è solo un quartiere di cui prendersi cura, non è un problema pastorale, non è soltanto una condizione urbanistico-sociale. La periferia è l’azione stessa che contraddistingue la vita delle comunità cristiane nella città. Peripherein significa non tanto maturare uno sguardo ecclesiale sulla città, ma dalla città. Significa non solo assumere la prospettiva del popolo ma essere popolo, significa sentirsi popolo che vede il mondo dal basso, un popolo che deve sovente alzare la testa per incrociare lo sguardo dei propri interlocutori, esattamente come Gesù deve alzare la testa per incrociare lo sguardo dei discepoli, mentre lava loro i piedi.
Si potrebbe intere la postura ecclesiale dell’uscita verso le periferie esclusivamente come un gesto di estroflessione, perdendo in questo modo le ricadute dialettiche di questo gesto. La Chiesa esce verso le periferie anche per convertire il centro. Più le comunità cristiane fuori-escono, realizzando la promessa iscritta nel termine ek-klesia cioè “chiamate-fuori”, maggiormente vengono rischiarate le funzioni del centro e dell’autorità che in esso risiede.
Danzare sul bordo
Il peripherein, in quanto gestualità ecclesiale, non è una qualità accessoria, ma una postura costitutiva dell’essere Chiesa. Significa riconoscere che le periferie sono anche contesti quotidiani di partecipazione. Promuovere la pluralità dei modi con cui si può essere comunità all’interno della stessa città è un aspetto del peripherein ecclesiale.
Bisogna disporsi benevolmente verso i differenti intrecci del comune, verso le molteplici tessiture della comunione-koinonia: questo significa incoraggiare ad esempio la nascita di nuovi sistemi conviviali, significa riconoscere tra i diritti alla città anche quello di generare forme nuove e peculiari del comune urbano. In questa direzione si è mosso recentemente il Consiglio consultivo tedesco per i mutamenti globali che ha annoverato tra i diritti legati alla cittadinanza urbana quello allo sviluppo sostenibile, quello all’inclusione, ma soprattutto quello alla specificità.
Solo apparentemente la misericordia sembra interessare poco il discorso cristiano sulla città. In realtà la misericordia, quando viene accostata alla vita urbana delle comunità di fede, emerge prima di tutto quale azione e opera di coinvolgimento. Esercitare la misericordia in città significa essenzialmente coinvolgersi e coinvolgere.
Francesco usa spesso il termine misericordia per indicare un particolare dinamismo della fede che possiamo sintetizzare nei verbi “far entrare” e “integrare”. Potremmo dire che i gesti dell’accogliere e quello del coinvolgere declinano al meglio l’esercizio della misericordia nei contesti urbani. Il contrario di misericordia è distacco e indifferenza, atteggiamenti che richiamano le caratteristiche del blasé, prototipo dell’individuo moderno e urbanizzato secondo Georg Simmel.
Il misericordioso invece è un coinvolto, è qualcuno che insieme al gesto del peripherein esercita un altro gesto, questa volta suggerito dalla lingua tedesca, e che si può esprimere mediante il verbo hereinholen: letteralmente “andare a prendere e portare dentro”, “uscire per far entrare”[6]. La misericordia è un dinamismo che fa entrare, un atteggiamento dalle molteplici sfaccettature espresse dai termini accoglienza, ospitalità, cordialità, disponibilità.
Evangelicamente parlando l’immagine che meglio sintetizza la misericordia in quanto hereinholen è il pastore che esce e si fa carico della pecorella smarrita (Mt 18,12-14). Nel contesto delle sfide urbane la misericordia ha il volto e il coraggio del pastore che esce e porta su di sé. Questo atteggiamento si traduce in gesti di coinvolgimento, inaugurando la possibilità di ripensare le forme e i modi del coinvolgimento ecclesiale.
Allo stesso tempo la misericordia come coinvolgimento riconosce e promuove le molteplici forme della cooperazione e della compartecipazione presenti nella città, si mette a servizio di ogni forma buona di coinvolgimento come ad esempio quello politico, riconoscendone i segni di genuinità e di gratuità.
Per fare questo occorre alzarsi e camminare, peripherein appunto, bisogna attraversare la grande città come ricordava il cardinal Martini, rivolgendo alla Chiesa di Milano queste parole: «Attraversate la città contemporanea, con il desiderio di ascoltarla, di comprenderla, senza schemi riduttivi e senza paure ingiustificate, sapendo che insieme è possibile conoscerla nella sua varietà diversificata, nella rete di amicizie e di incontri, nella collaborazione tra i gruppi e le istituzioni»[7].
[1] Francesco, Evangelii gaudium. Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, 24 novembre 2013, 71-75.
[2] H. Lefebvre, Dal rurale all’urbano, Guaraldi, Venezia 1973, 98.
[3] Cf. F. Biagi, Henry Lefebvre. Una teoria critica dello spazio, Jaka Book, Milano 2019, 99.
[4] M. Eckholt, «Imparare a vivere l’ospitalità. Fondamenti teologici dell’annuncio della fede nel pluralismo delle grandi città», in Concilium 1/2019, 57.
[5] Cf. A. Petrillo, La nuova periferia. Diseguaglianza, spazi, città, Franco Angeli, Milano 2018, 18-24.
[6] Cf. J. Werbick, La debolezza di Dio per l’uomo. La visione di Dio di papa Francesco, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2017, 51-63.
[7] C. M. Martini, Attraversava la città. Risposta al sinodo dei giovani. Milano, 23 marzo 2002, Centro Ambrosiano, Milano 2002, 32.