La pandemia scatenata dal virus Covid-19 ha fatto emergere una presa di coscienza globale del pericolo e della necessità di trovare degli strumenti, terapie e vaccini, in grado di contrastare a livello planetario questo flagello.
Ogni area del globo è stata coinvolta. Le reazioni dei singoli stati sono state varie, ma una disposizione è stata adottata da tutti: la chiusura delle frontiere. La percezione era ed è rimasta che il pericolo arrivasse da fuori e fosse stato veicolato in buona parte da migranti.
Fuga dall’Europa
I confini, come in un gioco del domino, si sono blindati, salvo poi scoprire che il virus aveva seguito un’altra strada, non quella del Mediterraneo o dei Balcani, ma quella delle filiere della globalizzazione dei mercati e della finanza. Potremmo dire che i processi di delocalizzazione di interi distretti industriali in Cina e nel Sud-Est Asiatico abbiano favorito la velocità della diffusione del morbo. Molte maestranze e molte merci sono transitate per tutta Europa e in altri continenti portando con sé un bagaglio scomodo.
Agli inizi di febbraio tutti i partiti politici che si rifanno a un credo sovranista hanno puntato il dito sui migranti. I richiedenti asilo venivano sospettati di essere dei moderni untori. Da qui il blocco di ogni migrazione possibile. Si è verificato tuttavia un processo inatteso. I migranti, risultati apparentemente più resistenti all’infezione, invece di cercare di entrare in Europa cercavano disperatamente di allontanarsene sia per paura di cadere vittime del virus, sia per evitare di rimanere impossibilitati al rientro nel paese di origine, dove iniziavano già ad entrare in vigore delle misure di chiusura e di controllo onde evitare un contagio di importazione.
Nelle prime settimane di febbraio circa 300 mila persone hanno lasciato in fretta e furia la Germania lasciando scoperti molti servizi soprattutto nell’ambito sociosanitario.
Per quanto riguarda il Mediterraneo, nello stesso periodo, molti africani cercavano di raggiungere il proprio paese, ma sono rimasti intrappolati. Basti pensare che il costo di un passaggio dal Maghreb alla Spagna costava 400 euro, mentre un percorso inverso, dalla Spagna verso il Maghreb, veniva a costare 5 mila euro.
Per la prima volta si sono viste schiere di migranti cercare di lasciare volontariamente i paesi di immigrazione. La sola Romania ha visto rientrare circa 250 mila persone in pochi giorni. La Gran Bretagna, a sua volta, si è trovata senza manodopera stagionale da dedicare alla raccolta di mirtilli e lamponi. Lo stesso accadeva e accade a tutti gli ambiti della produzione agroalimentare d’Europa. La carenza di manodopera nell’agricoltura ha scatenato la concorrenza tra gli stati per potersela procurare. Germania, Francia e Inghilterra hanno introdotto delle deroghe ai voli per poter importare per via aerea decine di migliaia di lavoratori. I più richiesti sono i romeni, ma non solo.
Abitualmente per la raccolta di piccoli frutti in Scandinavia si reclutavano migliaia di lavoratori dal nord della Thailandia. Piccoli frutti e bacche finivano poi nella nostra industria di trasformazione. Molti lavoratori cinesi, anche clandestini, ogni anno vengono impiegati per la raccolta di mitili nel momento in cui la marea si ritira dalle coste della Cornovaglia.
Migrazione e manodopera
Venendo all’Italia, non manca giorno in cui le aziende agricole non lamentino la mancanza di personale qualificato. Pare che i rumeni, intenzionati ad emigrare, preferiscano i paesi del Nord Europa ai paesi della sponda nord del Mediterraneo, sia per una migliore condizione salariale che per le agevolazioni nelle trasferte, come il viaggio aereo pagato. Il settore agroalimentare italiano richiederebbe almeno 200 mila stagionali.
Solitamente nelle stagioni passate venivano ingaggiati 370 mila addetti per la sola agricoltura. Ovviamente in questo computo non si tiene conto di coloro che vivono relegati in ghetti fatiscenti in varie zone d’Italia. Per cui i salariati giornalieri nei campi o nelle coltivazioni vitivinicole sono sempre stati molti di più di quelli ufficialmente in possesso di un contratto di lavoro. Sta di fatto che si è dovuto ricorrere alla ricerca di manodopera locale.
Ma questa manodopera di lavoratori autoctoni, spesso temporaneamente senza lavoro a causa del lockdown di queste settimane, non ha dato i risultati sperati. Pochi si sono arruolati volontariamente e anche questi, in vista di riprendere il proprio lavoro a riapertura delle diverse attività, lasciano le campagne. In questa situazione difficile, lo sguardo è stato rivolto ad una risorsa umana già disponibile sul nostro territorio ma per decenni ignorata e poco riconosciuta.
Caporalato: il virus rivelatore
Ci si è accorti di avere decine di migliaia di persone sparse per le campagne d’Italia in condizioni igienico sanitarie pessime, ma da sempre nella diposizione di caporali e sfruttatori per una manciata di euro: una ipocrisia nazionale che si trascina da anni. Si tratta di persone da sempre visibili, chinate nei campi, ma invisibili per i diritti. Verrebbe da dire che la pandemia ha avuto il merito da far scoppiare questo bubbone, un po’ giustificato dalla paura della diffusione incontrollata del contagio e un po’ per la palese necessità di correre ai ripari in una stagione in cui le campagne richiedono braccia.
Non siamo nelle condizioni di sfruttamento alla stregua degli Emirati della Penisola Arabica, che hanno raggruppato i lavoratori migranti, soprattutto dal Pakistan, Etiopia, India, Filippine e Bangladesh, in strutture collettive, sottoposti a quarantena coatta o destinati alla deportazione verso il paese di origine, pure questo blindato, senza alcun sostegno sanitario o alimentare, buttati lì alla mercé del caso.
È opportuno ricordare che secondo l’OIL, Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel 2019 nei sei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo vivevano 35 milioni di migranti. Ossia il 70,4% della popolazione dei singoli Stati. Nel Qatar addirittura solo il 10% degli abitanti è di cittadinanza qatariota. Cito questo esempio, per dire che le condizioni di molti lavoratori migranti a livello globale spesso acquisiscono la caratteristica di appartenere ad una nuova categoria di schiavi.
Sanatoria per decreto: giusta e insufficiente
La sanatoria introdotta con l’Articolo 110 bis nel decreto-legge “Rilancio”, adottato recentemente dal governo italiano, rappresenta un primo gesto, aspettato da anni, per rendere giustizia ai nostri schiavi contemporanei. Finalmente una presa d’atto della presenza di forza lavoro immigrata senza diritti e tutele, ma che danno un contributo non indifferente al sistema economico del Paese.
Infatti, le tre categorie di regolarizzabili: operatori impiegati nell’agricoltura, nel badantato e nel lavoro domestico, sono storicamente categorie relegate nel limbo del lavoro in nero. La lotta alla clandestinità si è trasformata almeno per una volta nella lotta allo sfruttamento del caporalato, in tutte le sue manifestazioni. Vien da chiedersi se tale intento avrà più o meno successo visto il radicamento di queste forme perverse nell’agire quotidiano in vaste aree d’Italia, da Nord a Sud. Sono forme ritenute “normali” da una parte dell’opinione pubblica.
Riterrei che la lotta al caporalato richieda una serie di misure che vanno ben oltre la regolarizzazione di decine di migliaia di persone.
Sono molti i lavori espletati nel grigio dell’irregolarità. Soprattutto nella ristorazione, nell’edilizia, nelle pulizie ecc. Il lavoro in nero dei migranti in Italia avrebbe prodotto, secondo una stima della Fondazione Leone Moressa, 13 miliardi di euro nel solo 2018. La questione più delicata nelle procedure dell’attuale sanatoria sta nell’affidare ai datori di lavoro, fino ad ora sfruttatori del lavoro in nero, le modalità di regolarizzazione.
Limiti dell’operazione politica
Non è difficile predire il successo limitato dell’operazione. Già nelle sanatorie del passato la richiesta di una certificazione di lavoro in essere o nel passato ha attivato truffe e finte regolarizzazioni di rapporti di lavoro. Inoltre, quasi sempre, i costi necessari all’emersione del lavoro in nero sono stati messi a carico dei regolarizzanti.
Uno degli elementi di certa fragilità e inadeguatezza della sanatoria sta nella regolarizzazione pro tempore di persone che sono presenti sul territorio da anni e che in buona parte sono divenute irregolari grazie alla forma perversa adottata con il cosiddetto “contratto di soggiorno”.
La normativa non andrebbe rammendata di tanto in tanto, ma andrebbe rivista radicalmente sia a livello italiano che europeo. Il pensiero va anche ai regolamenti di Dublino per l’accoglienza di richiedenti la protezione internazionale e rifugiati, così come alla mancata adesione dell’Italia e dei paesi europei al Global Compact for Migration, strumento che decisamente potrebbe porre fine non solo alle tragedie delle migrazioni forzate, ma rappresenterebbe uno strumento cardine per le politiche migratorie internazionali con beneficio per tutti.
Non si può ignorare quel che accade in altri continenti pensando di poter governare da soli la propria barchetta in mezzo all’oceano. Le condizioni socioeconomiche del pianeta sono cambiate e i flussi migratori diventano sempre più strutturali alle economie e alla sostenibilità sociale di diversi paesi. Tra i 272 milioni di migranti nel mondo alla data del 2019, ricordiamo che vi sono anche oltre 5 milioni di italiani.
Migrazione e condizioni di mobilità
La pandemia ha dato un’occasione inaspettata per riconfermare il fatto che la mobilità umana contemporanea ha adottato il criterio di muoversi, come sempre del resto, là dove vi sono possibilità concrete di migliorare la propria condizione socioeconomica.
La globalizzazione economica e finanziaria ha trascinato con sé la globalizzazione dei flussi migratori. Ogni paese ha migranti in entrata ed emigranti in uscita. Anche i paesi più poveri. Le transizioni demografiche in atto a livello globale testimoniano l’invecchiamento costante della popolazione, non solo nei paesi a sviluppo avanzato. Si stima che nel 2030 a livello mondiale vi siano 2,3 miliardi di persone che avranno bisogno di assistenza, con un incremento di 200 milioni dal 2015.
L’indice di vecchiaia in Italia nel 2019 era di 173,1 anziani ogni 100 giovani, e quello di dipendenza del 56,3. Questo vuol dire che non vi sono nuove generazioni in grado di rinnovare il patrimonio demografico del paese e che circa 44 persone che lavorano devono farsi carico di altre 56 che necessitano di un sostegno.
Migranti, una necessità per il paese
È evidente che la sostenibilità sociale ed economica del sistema Italia ha bisogno di forze lavoro giovani e, non essendovene di locali, deve far riscorso ai migranti. La crisi economica e del lavoro che faranno seguito alla pandemia ancora in corso potrebbero incidere fortemente sulle spinte migratorie a medio corto periodo, ma lo stock dei candidati alle migrazioni non crollerà.
I tre quarti delle migrazioni forzate oggi sono dovute ai cambiamenti ambientali più che ai conflitti armati. Sono 821 milioni le persone colpite dalla mancanza di cibo, e questa popolazione dovrà entrare nei pensieri di chi immagina il futuro prossimo. La ridistribuzione delle ricchezze e l’affermazione delle pari opportunità per tutti i popoli della terra possono dare un contributo sostanziale al diritto di non emigrare così come a quello di emigrare liberamente.
La sanatoria attuale rappresenta un cerotto necessario, ma non sufficiente a rispondere alle sfide future dell’Italia. Occorre avere una maggiore capacità di lettura dei dati attuali per meglio affrontare il futuro. La pandemia ce ne ha dato l’occasione.
- Franco Valenti, laureato a Freiburg i. Br. in morale sociale, membro della Weltethos Stiftung (Tübingen), il gruppo internazionale per un’etica mondiale creato da Hans Kung, è autore del volume Migrazioni in Italia e nel mondo, Scholé Morcelliana, 2020.