Mio nonno, un fascista salvato dai partigiani

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La storia di un paese è fatta anche da un rivolo di piccole storie che, a volte, sono come scritte all’inverso rispetto alla narrazione comune. Almeno così è per la mia famiglia, dal lato di mia madre. Sono storie tramandate di generazione in generazione, raccontate quasi d’occasione e senza necessità. La prima volta che mia mamma mi raccontò la storia della sua famiglia durante la II Guerra mondiale è stata dopo un paio di settimane che ero a letto col morbillo (credo in III o IV elementare).

I ricordi di quel giorno sono oggi a dir poco vaghi, ma quella piccola storia di casa mi è rimasta impressa come qualcosa che, quasi senza accorgermene, mi ha aiutato a non cedere agli stereotipi di qualsiasi grande o piccola narrazione culturale e politica.

L’unico ricordo davvero personale che ho di mio nonno è quello di un’istantanea: seduto, insieme a lui e ai suoi amici, sotto il pergolato di un bar di Monfalcone – dove mi portava ogni pomeriggio, quando andavamo a trovare nonni e zii. Mentre i grandi bevono la loro birra, io sorseggio con orgoglio la mia aranciata da un piccolo boccale – volevo un bicchiere come il loro, ma l’oste non ne aveva ovviamente uno dalle dimensioni adatte alle mani di un bimbo di due anni e mezzo. Questo è tutto, il resto che so su mio nonno è perché mi è stato raccontato.

Dentro questo racconto, fattomi da mia mamma, c’è anche l’immagine del nonno in bicicletta, quasi completamente cieco, che per giorni era andato in cerca di un piccolo boccale perché anche io potessi bere la mia «birra…».

In quei giorni di morbillo, oramai indietro di mezzo secolo, mia mamma mi raccontò anche di mio nonno come uno dei primi fascisti, della sua partecipazione alla Marcia su Roma, della sua appartenenza al sistema del regime di Mussolini come imprenditore del fascio. Dirigeva, a Milano, una fabbrica di idrovolanti (se ben ricordo). Quando iniziarono i bombardamenti della città, la famiglia di mia mamma, insieme all’azienda, venne sfollata a Chiavenna.

Qui mio nonno si impegnò a dare lavoro a chiunque ne avesse bisogno, anche a chi non aveva la tessera del partito fascista, anche ai partigiani. Poi, almeno nella mia memoria, un salto brusco verso i giorni della fine della guerra e alle settimane immediatamente successive alla liberazione dell’Italia, che festeggiamo oggi. Il nonno fu rapidamente arrestato, incarcerato e condannato a morte.

Il giorno prima dell’esecuzione mia mamma, che aveva allora circa nove anni, si mise per strada per andare a trovare suo padre per l’ultima volta. Prima di giungere alla prigione fu fermata da un gruppo di partigiani, tra cui le sembrò di riconoscere il volto di alcuni degli operai che lavoravano nella fabbrica diretta dal nonno. In maniera non proprio gentile, le impedirono di proseguire verso la prigione e le intimarono di tornare a casa. Aggiungendo di dire a sua madre di fare immediatamente i bagagli e di lasciare Chiavenna il giorno dopo. Così fece la nonna, portandosi via il poco che si poteva mettere insieme in una mattinata e, con i suoi tre figli, andò a Milano presso la sua famiglia. Di lì tornarono, dopo pochi giorni, a Monfalcone.

L’intervento di quel gruppo di partigiani sembrò, sulle prime, una crudeltà inutile. Perché impedire l’ultimo saluto di una figlia a suo padre? Il perché divenne chiaro solo alcuni mesi dopo, quando mio nonno bussò alla porta di casa a Monfalcone. Nella notte prima dell’esecuzione, il gruppo di partigiani che aveva fermato mia mamma prima che raggiungesse la prigione dove era detenuto il nonno, lo fece fuggire salvandolo dalla pena di morte.

Nel corso di tutta l’operazione non dissero nulla, solo quando giunsero in salvo (non solo il nonno ma anche i partigiani) in un bosco delle montagne intorno a Chiavenna, quello che guidava il gruppo di partigiani gli disse: «forse come fascista meriteresti di morire, ma per quello che hai fatto per la gente del paese non lo meriti. Voi non avete fatto così con noi, ma noi lo abbiamo fatto ora a te». Un lampo di umanità nella notte di una guerra civile.

Ho attraversato i tanti 25 aprile della mia vita nella memoria di questo piccolo racconto di casa, forse per questo non l’ho mai sentita come una data divisiva – anzi. Credo che mio nonno rimase fascista fino alla sua morte; e, probabilmente, i suoi amici con cui bevevo la mia aranciata da un boccale come quello dei grandi erano anche loro come mio nonno. In un modo o nell’altro, i due fratelli di mia mamma vissero nel sogno del mito di Mussolini.

Mia mamma no, direbbe Gaber, non so per quale strana alchimia – visto il legame che aveva col nonno. Non solo fu profondamente antifascista, ma visse una atea fede repubblicana e costituzionale. A questa sono stato introdotto fin dai giorni della culla, insieme a una rigorosa devozione per la democrazia e le sue regole. Di questo le sono infinitamente grato.

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Un commento

  1. Fabio Cittadini 26 aprile 2024

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