I dati presentati dall’Osservatorio fio.Psd sulle persone senza dimora morte in strada in Italia nel 2022 rivelano una realtà drammatica: 393 persone decedute, più di una al giorno, con un incremento preoccupante rispetto al 2021 (250 persone) e al 2020 (211). Il 2023 si preannuncia un anno altrettanto critico se si pensa che solo nel mese di gennaio le morti sono state 50.
Contrariamente all’opinione diffusa che legge il fenomeno in termini di “emergenza freddo”, il Rapporto mostra che le persone in estrema povertà e senza casa muoiono in strada tutto l’anno, anzi nel 2022 hanno trovato la morte più frequentemente nei mesi estivi. Sono stati registrati senza dimora deceduti in tutto il territorio nazionale e non solo nelle grandi città. Colpisce l’incremento dei decessi rispetto agli anni precedenti nelle regioni del Nord.
A morire sono state persone di ogni età, dai giovani sotto i 30 anni (15% del totale) alle persone over 70 (8%), ma le fasce di età centrali sono quelle più rappresentate. Si tratta prevalentemente di uomini (91%) e in maggioranza di stranieri (60%).
Questi dati non possono passare inosservati.
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Le persone senza dimora sono espressione di una delle forme più gravi di povertà: sperimentano condizioni materiali tanto precarie da soddisfare con fatica i problemi quotidiani dell’esistenza, non godono di un’adeguata rete di sostegno e sono prive delle risorse necessarie per disporre di un’abitazione. Sono così estreme le condizioni di vita di questi individui che siamo soliti rappresentarli come “altro” da noi, una fattispecie a sé, isolandoli dal resto della popolazione. Li pensiamo ai margini della società e percepiamo il loro disagio come un problema personale.
Condizionati dall’ideologia meritocratica che attribuisce il successo a sforzi e capacità individuali, assumendo che le condizioni siano uguali per tutti, tendiamo ad attribuire loro la responsabilità del loro stato. Cadere in povertà e perdere la casa, o non avervi accesso, diventa una colpa originata da deficienze culturali, mancanza di capacità o di volontà. È questa una delle chiavi di lettura del fenomeno dell’homelessness tuttora proposte nel dibattito pubblico sul tema. Altra chiave ricorrente è quella del destino, della cattiva sorte che colpirebbe persone particolarmente sfortunate: l’insorgenza di una malattia, la fine di una relazione di coppia, il fallimento dell’attività lavorativa e altre “disgrazie”.
Per quanto negli ultimi anni l’attenzione per il fenomeno sia aumentata, in ragione della sua crescente visibilità e sotto l’impulso della programmazione europea, stimolando politiche nazionali dedicate al contrasto della grave marginalità, prevale ancora una rappresentazione del tutto inadeguata. Sappiamo bene che le rappresentazioni della realtà non si limitano a descrivere i fenomeni ma contribuiscono a dar loro forma, influenzando le percezioni collettive e persino suggerendo opzioni di intervento.
I dati menzionati sollecitano invece una lettura del problema più orientata alla comprensione delle dinamiche sociali sottostanti. Solo superando l’idea che la povertà estrema possa essere separata dai più ampi processi sociali che producono povertà e disuguaglianze, possiamo evitare che la lotta alla homelessness si traduca in una sorta di pronto soccorso sociale, rinunciando a intervenire sui fattori che sono all’origine di tali processi.
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È con la pandemia che la povertà torna sotto i riflettori in Italia, date le gravi ricadute economiche e sociali dell’emergenza sanitaria. E l’attenzione dei media ricade anche su chi, non avendo casa, è particolarmente vulnerabile. Nonostante le misure adottate, nel 2020 la povertà assoluta raggiunge i suoi massimi storici, il valore più elevato dal 2005 (anno di inizio delle serie storiche Istat), presentando peraltro l’incremento maggiore nelle regioni del Nord, pur rimanendo la sua incidenza più alta al Sud.
Nel 2021 l’indicatore rimane stabile, mantenendosi al livello del primo anno di pandemia: la condizione di chi non può permettersi quei beni e servizi essenziali per condurre una vita minimamente accettabile si presenta più frequentemente tra le famiglie con figli minori, i giovani, le famiglie di stranieri, ma anche tra gli occupati e quanti vivono in affitto (dati Istat 2022).
Tuttavia, come documentato, la pandemia ha aggravato un quadro già molto compromesso. Da tempo, infatti, la povertà rappresenta una grave emergenza sociale in Italia. La crisi economica del 2008 ha avuto un impatto dirompente con dinamiche che rimandano alla debolezza strutturale sia del sistema economico-produttivo che del modello di protezione sociale. Basti pensare che da allora avere un occupato in famiglia non significa più essere al riparo dalla povertà: l’incidenza di povertà assoluta tra le famiglie la cui persona di riferimento è operaio, per esempio, passa dal 3,9% nel 2005 al 13,3% nel 2021 (per un approfondimento).
L’Italia entra nell’emergenza Covid-19 come uno dei Paesi con elevate disuguaglianze economiche e sociali, forti squilibri e divari di genere, generazionali, territoriali. Nel 2020 l’indicatore di disuguaglianza dei redditi disponibili (coefficiente di Gini) è più elevato di quello italiano solo in quattro Paesi dell’Unione europea (Bulgaria, Lettonia, Lituania e Romania).
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Se nel dibattito pubblico una retorica ricorrente enfatizza le novità e la discontinuità, trascurando il fatto che i processi sociali hanno tendenzialmente tempi lunghi e producono effetti su diverse scale temporali, la pandemia ha in realtà fatto emergere le debolezze strutturali del Paese.
Ha mostrato, ancora una volta, la trasversalità della povertà ai gruppi sociali e alle fasce di popolazione, ma anche la complessità dei fattori di rischio a cui siamo esposti e la multidimensionalità delle disuguaglianze sociali. La precarietà abitativa nelle sue varie declinazioni è uno degli ambiti di estrema fragilità venuti alla luce, ma anch’essa precedente al Covid per quanto aggravata.
È inoltre emerso che non basta guardare ai poveri: ci sono gli impoveriti e quanti a rischio di impoverimento. Un dato tra i tanti: è a rischio di povertà ed esclusione sociale un italiano su quattro nel 2021. Sotto i colpi dell’inflazione e dell’aumento dei costi energetici, la povertà rappresenta tuttora un orizzonte di rischio a cui è esposta una parte consistente di popolazione.
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In breve, la pandemia ha esasperato processi preesistenti di precarizzazione del lavoro, fragilizzazione della cittadinanza e frammentazione del sistema di protezione sociale, mettendo in luce le contraddizioni del capitalismo contemporaneo e la divaricazione tra politiche di Welfare pensate sul finire degli anni Novanta e dinamiche dell’economia e del mercato del lavoro degli ultimi decenni.
Pertanto, se non allarghiamo lo sguardo e restituiamo complessità ai fenomeni sociali, rimaniamo intrappolati in un immaginario che semplifica la realtà contrapponendo poveri a non poveri, “nuovi” poveri ai poveri di sempre, poveri alla deriva e senza vie di uscita a poveri che è possibile reintegrare. Una narrazione giocata su dicotomie non permette di contestualizzare le caratteristiche della povertà nell’ambito dei cambiamenti economici e sociali di più lungo periodo, né di cogliere la complessità dei nessi tra dinamiche strutturali e condizioni individuali.
Soprattutto, non aiuta a connettere povertà e impoverimento alle dinamiche delle disuguaglianze, operazione necessaria non solo per una comprensione migliore, ma anche per la definizione di politiche adeguate di prevenzione e contrasto.
Come evidenziato in letteratura, le persone senza dimora – come gli altri poveri – non costituiscono una categoria omogenea per traiettorie di vita, risorse professionali, situazioni familiari, tempi di permanenza in povertà. I loro profili sono difficilmente riconducibili a tipologie: si tratta di un insieme sempre più eterogeneo di individui nel quale si riscontrano situazioni molto differenziate, la cui incidenza muta in relazione a fenomeni più generali che investono la società.
- Pubblicato sul sito della rivista Il Mulino (qui), che ringraziamo per il permesso di ripresa.
È evidente che occorre un reddito minimo sociale o di inclusività o di cittadinanza o come lo si voglia chiamare. Accanto a questo è urgente un potenziamento dei servizi statali e sopratutto locali, di comunità. Qui giocano un ruolo cruciale i Comuni ai quali, in definitiva, sono affidati quei LEP a cui la nostra Costituzione consegna la tutela dell’uguaglianza sostanziale. Speriamo che anche il PNRR non sia un’occasione sprecata in tal senso. Ovviamente accanto ai Comuni, spesso come vera longa manus, vanno sostenuti gli organismi del terzo settore, imprescindibili istituti di sussidiarietà orizzontale.
Speriamo che il governo in carica abbia sensibilità per questi temi.