Mysterium iniquitatis

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fucile NGSW

La Repubblica, sabato 6 novembre 2021. Il titolo d’apertura della prima pagina è dedicato al piano Covid per salvare il Natale; l’articolo di spalla parla di Greta e del vertice Cop26; nel taglio basso, rubricato sotto l’intrigante definizione “Il caso” e ben evidenziato da un riquadro grafico, si apre l’incipit di un servizio del corrispondente da New York: Un fucile hi-tech made in Italy per i soldati Usa. Una manciata di parole e poi si rimanda, per il prosieguo della lettura, alla pagina 17.

Sfoglio il giornale, arrivo a pagina 17. Eccezion fatta per un inserto pubblicitario, tutta la pagina è occupata dall’articolo dedicato al “caso” dell’hi-tech italiano nei nuovi fucili dell’esercito Usa. Inizio la lettura diligentemente, partendo dall’alto, dove si trova, incorniciata, l’immagine fotografica del nuovo fucile NGSW[1]; accanto alla foto, un disegnino stilizzato del fucile e delle munizioni, accompagnato dalla breve didascalia: “Cartucce senza metalli pesanti nocivi per la salute dei soldati”.

Rileggo la frase, perplessa; ma c’è scritto proprio così. Vado avanti. Due brevi sommari mettono in evidenza quelli che, immagino, saranno i due argomenti portanti dell’articolo: il primo dice che la commessa vale tra 1 e 5 miliardi di dollari, e precisa che la cifra è molto alta perché prevede anche la fornitura dei proiettili; il secondo indica, come “conseguenze”, il fatto che il giro d’affari potrebbe essere decisamente maggiore, perché molti altri paesi “vorranno o dovranno comprare il nuovo fucile”.

Tutta questione di business

Anche qui devo fermarmi a rileggere. Primo, perché quel “dovranno comprare” mi mette confusione. E poi perché la parola “conseguenze”, associata alla parola “fucile”, in me ha sempre generato il pensiero di cose come ferite, sangue, morte, omicidio, violenza, guerra. Invece, qui, “conseguenze” non ha a che fare con questioni di morte, ma va a saldarsi col concetto di “ampliamento del business”. D’altra parte, se non l’avessi capito bene, lo ribadisce a chiare lettere anche il sottotitolo che campeggia là in alto: “L’affare è miliardario”.

Do una rapida occhiata alle fotografie – un soldato americano in Afghanistan, con fucile di vecchia generazione, e uno durante una dimostrazione con il nuovo NGSW. Poi comincio a leggere ciò che scrive il corrispondente da New York: nel 2018 il Pentagono ha pubblicato un bando per un nuovo fucile da utilizzarsi con un nuovo tipo di munizione “affinché i suoi uomini possano colpire da una distanza di sicurezza superiore a 600 metri”; dopo una prima selezione sono rimasti in gara tre concorrenti, tra cui, appunto, una cordata che comprende una nota fabbrica di armi italiana; la decisione di affidare questa commessa all’Italia dovrebbe arrivare entro gennaio 2022; ad aprile ci saranno le prime ordinazioni e le consegne sono previste entro la fine del 2023.

Se l’Italia si aggiudicherà la commessa, scrive il corrispondente, ci troveremo di fronte ad una “potenziale svolta epocale”. Tre i motivi. Uno riguarda il rafforzarsi delle relazioni tra l’America di Biden e l’Italia guidata da Draghi. Un altro riguarda il business: “Il contratto ha un tetto di 4,5 miliardi nell’arco di dieci anni, ossia quasi un quinto dell’intera finanziaria italiana, tanto per capirne le dimensioni.” Un quinto dell’intera finanziaria italiana. Tanto per capire. Ho capito, sì, ho capito bene. Un terzo motivo, infine, riguarda la “rivoluzione strategica nei campi di battaglia”: le pallottole del vecchio fucile in dotazione all’esercito americano “non hanno la forza di penetrare i giubbotti antiproiettile cinesi e russi”, mentre la cordata italiana ha ideato un fucile che “colpisce con più potenza e precisione, a distanza maggiore”.

Esco dalla lettura dell’articolo con un senso di profondo disagio, di imbarazzo. Mi sento disorientata. Lo stile del pezzo è quello piano, obiettivo e didascalico di un qualsiasi libro di storia che presenti il passaggio dal chopper all’amigdala bifacciale; il tono è quello trionfalistico del noto slogan “Un grande passo per l’umanità!”.

La guerra e il turismo

Torno a rileggere le battute d’apertura dell’articolo. Al secondo capoverso una digressione, quasi in funzione di premessa giustificativa dell’intero servizio, sposta l’attenzione sul Vietnam e sui Cu Chi Tunnels, una rete di cunicoli sotterranei della lunghezza di più di 250 km, sfruttati dai guerriglieri vietnamiti per nascondersi dall’esercito Usa durante i lunghi anni della guerra americana (1955-1975).

Il corrispondente spiega che i Cu Chi Tunnels sono diventati, oggi, una straordinaria attrazione turistica, e racconta che il turista che lo desideri, al termine della visita, può provare l’ebbrezza di sparare in un poligono con uno dei fucili strappati a suo tempo agli assalitori. Quindi commenta: “Non è violenza, e a questo punto neppure spirito di rivalsa. Piuttosto è il riconoscimento che le armi, ci piaccia o no, possono diventare icone e simboli di intere epoche storiche”. Sembra una frase di Jared Diamond in Armi, acciaio e malattie[2].

Ora, muovere dall’assunto che le armi, più che veicolare violenza, esprimano un valore iconico e simbolico permette di trattare l’argomento “fornitura di fucili a tecnologia avanzata” abdicando a qualsivoglia dubbio, scrupolo o riserva di natura morale: si può parlare per una pagina intera di fucili e di pallottole e di potenza di tiro e di colpi, senza usare una sola volta la parola “morti” o la parola “vittime”; non c’è accenno ai volti umani, alle storie e alle vite che quei fucili cancelleranno – i “caduti” vengono semplicemente ridotti a percentuale che misura l’efficacia della nuova tecnologia; neanche nemici di carne e di sangue ci sono, nell’articolo, ma soltanto “giubbotti antiproiettile”.

Produzione, commercio e utilizzo di armi – strumenti di violenza e di morte – sono dunque realtà così integrate nel nostro sistema etico che la questione della loro liceità non arriva a scalfire, neppure in superficie, la nostra coscienza?

“Certamente, parte del successo degli stati è dato dal fatto che sono in genere meglio dotati di armi e tecnologie, e hanno eserciti più numerosi. Ma non solo: per prima cosa, il processo di decisione centralizzata rende più facile concentrare truppe e risorse; inoltre il condizionamento ideologico e religioso può spingere alcuni eserciti a lottare con molto più accanimento, fino al sacrificio spontaneo”[3].

Contro le pratiche di morte

Come cristiani, come cristiane, non dovremmo forse avere parole da far risuonare con forza contro le pratiche di morte che la produzione e il commercio di armi portano iscritte in sé – anche se generano per gli stati giri d’affari miliardari? O le nostre soglie di guardia interiori vengono allertate soltanto quando le pratiche di morte riguardano l’inizio e la fine della vita?

Quale reazione avrebbe sortito un’intera pagina di un quotidiano nazionale dedicata alla spiegazione del funzionamento e dei benefici economici conseguenti all’introduzione di un nuovo tipo di pillola abortiva o di un nuovo cocktail eutanasico?

«Sotto il consolato di Tusco e Anulio, il 12 marzo dell’anno 295 d.C., a Tebessa, fu fatto comparire nel foro Fabio Vittore assieme a Massimiliano. Il proconsole Dione domandò: “Come ti chiami?”. Massimiliano rispose: “Perché vuoi sapere il mio nome? A me non è lecito prestare il servizio militare, dato che sono cristiano. Non posso prestare il servizio militare; non posso fare del male. Sono cristiano”. Dione disse all’incaricato: “Riceva la piastrina di riconoscimento”. Massimiliano, facendo resistenza, si oppose: “Non lo faccio, non posso prestare il servizio militare”. Dione disse: “Fa’ il militare se non vuoi morire”.

Massimiliano rispose: “Non faccio il soldato. Tagliami pure la testa, io non faccio il soldato per questo mondo, ma servo il mio Dio”. Il proconsole Dione riprese: “Chi ti ha messo queste idee nella testa?”. Massimiliano rispose: “La mia coscienza e colui che mi ha chiamato”. Dione disse: “Fa’ il soldato e prendi la piastrina, se non vuoi morire”. Massimiliano rispose: “Io non muoio. Il mio nome è già presso il mio Signore. Non posso fare il soldato”.

Dione disse: “Pensa alla tua giovinezza e fa’ il soldato: perché questo si conviene ad un giovane”. Massimiliano rispose: “Il mio servizio è per il mio Signore. Non posso servire al mondo come soldato. L’ho già detto, sono cristiano”. Dione disse: “Quelli che prestano il servizio militare, che male fanno?”. Massimiliano rispose: “Tu lo sai di sicuro che cosa fanno”. Il proconsole rispose: “Fa’ il soldato, per non finir male col tuo disprezzo del servizio militare”. Massimiliano concluse: “Io non morirò; ma se uscirò dal mondo, la mia anima vivrà con Cristo mio Signore”. Dione disse: “Cancella il suo nome”. Quindi dalla tavoletta lesse il decreto: “È stato deciso di punire con la decapitazione Massimiliano, perché con spirito di indisciplina ha rifiutato il giuramento militare”. Massimiliano disse: “Rendo grazie a Dio”. La sua vita terrena fu di ventun anni, tre mesi e diciotto giorni.»[4]

Non posso fare del male. Sono cristiano. Sono cristiana. Deo gratias.


[1] Next generation squad weapon/Arma di squadra di nuova generazione

[2] Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi 1998

[3] Jared Diamond, op.cit., Einaudi 1998, pag. 223

[4] https://www.caritas.it/caritasitaliana/allegati/1230/Atti_martirio_san_Massimiliano_Tebessa.pdf (estratti)

Gli Acta Maximiliani sono un documento processuale del tardo impero; attraverso un dialogo stringente tra il proconsole di Tebessa (attuale Algeria) Dione e il giovane Massimiliano, figlio del veterano Fabio Vittore, ci viene presentata la prima, limpida testimonianza di obiezione di coscienza al servizio militare del cristianesimo.

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6 Commenti

  1. Pietro 22 novembre 2021
    • Adelmo li Cauzi 24 novembre 2021
    • anima errante 25 novembre 2021
  2. mario 18 novembre 2021
    • Adelmo Li cauzi 21 novembre 2021
  3. Adelmo Li cauzi 17 novembre 2021

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