Giorni fa scrivevo ad un amico che, via facebook, dopo l’offensiva di Hamas perpetrata anche contro civili inermi in Israele, mi chiedeva spiegazioni riguardo a un mio messaggio in cui, sinteticamente, mi sentivo addolorato per la Palestina.
Ho deciso di parlarne, perché mi pare un esempio della guerra digitale che si è scatenata in tutta la rete, oltre le piazze e i dibattiti giornalisti e televisivi occidentali, tra chi parteggia per l’uno o per l’altro dei contendenti. Un conflitto che ha tante sfumature, dal radicalismo fanatico fino agli ottimismi liberali. E poi le variazioni delle diverse letture geopolitiche. Non mancano le dietrologie e teorie della cospirazione. E la difesa della democrazia (sic) contro la dittatura. E teologie dell’apocalisse da parte dei restaurazionisti protestanti.
Al momento, immediatamente dopo i massacri perpetrati dai miliziani da Hamas, non avevo capito la richiesta di spiegazioni. Solo piú tardi, interrottosi il dialogo, ho capito che l’amico voleva sapere da che parte stavo. Abituato a conversare in rete con persone che supponevo avessero la stessa preoccupazione con discernimenti etici, sono invece obbligato a scoprire che la bolla privilegiata che pensavo mi ospitasse non è esente dall’aggressività e dalla violenza.
Sostanzialmente, ho la nitida impressione che, a partire dal 7 di ottobre, non è piú possibile criticare la violenza colonialista dello Stato di Israele, se non accettando di essere censurati e condannati come antisemiti da certi settori dell’opinione pubblica. Mi pare che tutto si inserisca anche nel contesto delle attuali rivendicazioni identitariste, con l’irrinunciabile annesso della radicalizzazione del paradigma “lugar de fala”, che afferma che solo la vittima di razzismo, discriminazione e violenza può parlare della sua vittimizzazione.
Io che sono bianco, maschio, celibe, eterosessuale e vecchio non avrei perciò “luogo di parola”, non sarei autorizzato a parlare di razzismo, schiavitù, femminismi, rapporti coniugali, omoaffettività e transessualità, situazione giovanile, perché non sono nero, né donna, né coniugato, né LGBTQ+ e, da tempo, non sono piú giovane.
E, in questo contesto, c’è chi vuole obbligarmi a stare zitto, perché non sono ebreo. Per questi sarei solo un cristiano erede legittimo di duemila anni di antisemitismo teologico, persecuzioni e pogrom, antecedenti “morali” che contribuirono a giustificare l’orrore della shoah.
Il fatto è che sento forti difficoltà a collocarmi in questo contesto di guerra. In ogni contesto di guerra. Posso però affermare che, nonostante non sia ancora totalmente immune al virus della violenza, sono contro la guerra.
«Ucraina, Siria, Yemen, Nagorno-Kharabah, Kenya, Libia, Sahara Occidentale, Burkina Faso, ecc., ecc. (l’Accademia di Ginevra attualmente monitora 110 conflitti armati in tutto il mondo) e ora questo “eterno ritorno” di Israele: tutto questo dimostra, ancora una volta, che nessuna guerra risolve nulla. Ammetto, naturalmente, che la seconda guerra mondiale e le guerre di liberazione nazionale degli anni 1940 e 1960 in Africa e in Asia in qualche modo hanno risolto positivamente i conflitti. Ma le guerre attuali non risolvono più nulla» (Luiz Cesar Marques Filho, storico dell’arte e docente universitario, UNICAMP).
In questo senso, l’offensiva di Hamas, così atroce e disumana, appare come un’iniziativa disperata, votata all’insuccesso, mentre invece la vendetta israeliana in continuità con le precedenti atrocità, può essere forse la fine di Hamas, del territorio di Gaza e delle possibilità politiche della Palestina, nel contesto internazionale, da parte di potenze che hanno sempre ignorato le sue proteste e rivendicazioni.
Esiste inoltre un’altra questione etica importante, che condanna l’assurdità della guerra, quale strumento di soluzione dei conflitti: tutte le volte che decidiamo di affrontare gli aggressori con le loro stesse armi, finiamo per assomigliargli, in reciprocità speculari in cui aumentano esponenzialmente il dolore e la morte e sparisce qualunque semente di bene.
Mi pare, poi, che tutti i giochi interpretativi, a partire dalle complesse visioni dei contesti geopolitici, siano sempre l’anticamera del nostro schierarci armato da una parte o dall’altra. E politici e intellettuali ci sfidano a un suppostamente inevitabile discernimento etico-politico: ‘Da che parte stai? Dalla parte delle vittime? O dalla parte dell’aggressore?’ E continuano: ‘Non puoi stare immobile e neutrale, perché la tua neutralità è impossibile ed è sempre assassina.’
Nell’esternare il mio dolore per le vittime palestinesi dal 1947 ad oggi, non intendo schierarmi con Hamas contro Israele. Semplicemente ricordo che la tragedia che ha colpito oggi Israele non può e non deve cancellare la memoria della tragedia palestinese.
È sempre la povera gente che paga il prezzo delle guerre. Sono i poveri che muoiono. Devono starci a cuore tutti, senza eccezioni. Oltre le religioni.
In fine, ciò che è assolutamente fondamentale è la Parola di Dio, l’umanissima parola di Gesù di Nazareth, che dice a Pilato: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18, 36).
Il suo Regno, che è vicino, che è presente, seppur nascosto nelle pieghe della storia, non segue la logica delle istituzioni totali – il Tempio e l’impero – l’alleanza tra Stato e religione, teocrazie e cesaropapismi. La regalità che Gesù ci ha lasciato in eredità è la regalità crocifissa. E, quindi, nei conflitti della storia, l’unica testimonianza, donata e misericordiosamente esigibile da noi, discepoli, è la profezia, che, quando è anticonformista e scomoda, è sempre associata al martirio. Profezia, testimonianza radicale disarmata e martirio sono le alternative vittoriose alla violenza omicida della guerra. Unica maniera per sconfiggere con Gesù il sinedrio e il pretorio, il tempio, il palazzo e il mercato.
Ripensando a ciò che ha sempre caratterizzato la mia vita, alla scelta fragile, ma fin qui sempre rinnovata, di stare dalla parte delle vittime della prepotenza del capitale e dello Stato, desidero condividere un pensiero che è per me assolutamente nuovo, o meglio, corrisponde a qualcosa che vagava cieco e confuso nei miei pensieri, espresso in una sintesi semplice e chiara dall’amico Marcello Tarì: «Bisognerebbe fare tutta una (auto)critica dell’uso che viene fatto della nozione di potenza: in buona parte della filosofia radicale, diciamo quella che scorre lungo la linea Spinoza-Deleuze, infatti la potenza (potentia) è sempre presentata in termini assolutamente positivi, di contro al potere (potestas), sempre negativo. Si è detto infatti, per cercare di distinguerli con accuratezza, potenza destituente versus potere costituente, ma in realtà anche Toni Negri, il quale ha sempre difeso un’attitudine costituente, ha spesso preferito parlare di potenza costituente. La verità è che entrambe le posizioni condividono uno stesso sottinteso metafisico. Insomma, al di là di tutte le questioni filosofiche e della critica che si potrebbe fare all’espediente retorico, la domanda è questa: davvero la potenza umana è sempre, assolutamente, incontestabilmente, bella, positiva e liberatrice?».
Marcello riporta anche una frase iconica di Hans Urs Von Balthasar: «La potenza è in modo particolare l’istanza e il campo per la decisione, e per le decisioni definitive: tra Dio e il demoniaco».
E questa è una verità che vale per tutti i disobbedienti, tutti i ribelli, tutte le vittime. Nessuno può ambire al ruolo garantito di vittima innocente, assolta a priori come pura e incontaminata, nella sua reazione violenta al male. Anche i politici e le élite israeliane, discendenti delle vittime della Shoah, insieme ai palestinesi, oppressi e massacrati fin dal 1948 – anche quelli che si riconoscono come militanti di Hamas – vivono il dilemma delle decisioni definitive: tra Dio e il demoniaco, tra l’agape e la tradizione diabolica della violenza.