Ricordo il 4 novembre come la festa dei caduti. Era per me il periodo delle elementari e delle medie, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, e, anche nei paesini, le scolaresche si recavano presso il monumento dei caduti di tutte le guerre, con incisi o scritti i nomi di coloro che avevano perso la vita nelle guerre mondiali. Risuonava l’inno del Piave e alcuni scolari recitavano poesie.
Tradizionalmente era il ricordo della conclusione vittoriosa della Grande guerra; la “quarta guerra d’indipendenza” per l’Italia, alcuni dicevano. Una guerra vittoriosa, ma con fiumi di sangue versato. Tanto che l’insegnante di Lettere, di idee socialiste, ci fece sorgere il dubbio: e se il nostro Paese avesse negoziato la neutralità? Non avrebbe strappato le stesse concessioni territoriali, completando l’unità nazionale, senza colpo ferire?
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Un anno, poi, mi accorsi che in un altro piccolo centro, amministrato dal Pci, in quell’occasione si poneva l’accento sui caduti del secondo conflitto globale e sulla Resistenza. E non risuonava l’inno del Piave, a cui pure mi ero affezionato. Così toccai con mano concetti come la politica culturale e l’egemonia.
In effetti la partecipazione dell’Italia alla Grande guerra lacerò il quadro politico, specie a sinistra; lì iniziò e si consumò l’allontanamento di Benito Mussolini dall’Avanti! – all’inizio focosamente neutralista – e dal Psi, ad esempio. E nacque un vero e proprio filone politico-culturale: quello dell’interventismo democratico.
Animato da un’area, piuttosto elitaria, laico-socialista-riformista. Un solo nome: Carlo Rosselli, che oggi ricordiamo per il suo socialismo liberale. Assai più note sono le parole d’ordine dell’area massimalista che allora guidava il Psi, testimoniandone l’impotenza e il carattere parolaio, al quale viene associata su tutti i manuali di storia: né aderire né sabotare.
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Vi sono infatti situazioni nelle quali si è chiamati alla decisione. Decidere è un verbo che rimanda a un altro: recidere; dare un taglio. Un passaggio ineludibile, in politica, non di rado. Non sempre è opportuno temporeggiare, come Quinto Fabio Massimo nell’antica Roma. Vi sono scelte dirimenti: si pensi alla vicenda del Kossovo, alla prima e alla seconda guerra del Golfo o, oggi, all’Ucraina e al Medio Oriente.
E, prima ancora, ai carri armati sovietici a Budapest e a Praga, al Vietnam, al golpe di Pinochet in Cile o a quello di Jaruzelski a Varsavia, e all’Afghanistan, di ieri e di oggi. Si può optare per il negoziato, naturalmente; per le trattative, per la pace e la ragionevolezza, ma sarebbe sbagliato eludere il problema.
Sono gli snodi decisivi, quelli che segnano la forza o il declino di una leadership, di un soggetto politico, di un governo, di un’area culturale. Non si può schivare il problema; occorre prendere posizione. Meglio se non da tifosi, contribuendo piuttosto alla soluzione. Ma in genere i fatti e la storia si incaricano di condannare l’ignavia, gli atteggiamenti pilateschi.
Occorrerebbe, io credo, provare ogni volta a coniugare lo spirito profetico – i profeti sono gli scambisti della storia, per dirla con André Neher –, leggendo i segni dei tempi e magari precorrendoli, e la ragionevolezza, intesa come una razionalità umanizzata e posta al servizio di una sana convivenza. Già; dobbiamo convivere, pur nelle differenze.