Ancora una volta i fatti di cronaca vengono ad imporci l’inaccettabile faccia a faccia con l’orrore: bambini e bambine violate, vittime di abusi fisici e psicologici, annientati nel corpo e nell’anima dall’inenarrabile violenza di adulti mai cresciuti.
Ancora un infanticidio, ancora un padre che infierisce sul figlio bambino, nel gesto violento che usurpa la parola quando, perdute le parole, il senso profondo della nostra umanità, che è dià-logos, parola scambiata, si sfilaccia e dissolve nell’oscuro dell’insensatezza.
Il mito di Saturno
Gli esperti intervengono, e ci spiegano che i processi di liquefazione che, come fiumi carsici, attraversano le strutture portanti della nostra società, erodendone anima e tegumento, ci stanno lasciando fra le mani soltanto parole bucate. Perché per secoli abbiamo saputo cosa fosse famiglia, o stato o Chiesa, o uomo o donna, e lo abbiamo saputo di un sapere chiaro, inequivocabile e condiviso.
Per secoli la parola “padre” ha avuto forma, peso, valore e funzione di istituzione incontestabile. Ma, oggi, cosa resta di tutte queste parole? Cosa resta del padre, quando un padre toglie la vita al proprio figlio bambino?
E però, se guardiamo alla storia con disincanto c’è dato di scorgere, entro la compatta tramatura delle umane vicende, il costante intrecciarsi di fili di violenza, così che qualsiasi processo storico sembra mostrarsi, più che causato, inesorabilmente necessitato dalla violenza.
Gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce. Fin dalle sue pagine d’apertura la Bibbia, con la vicenda di Caino e Abele, ci chiede di confrontarci con la questione delle pulsioni di morte sottese ad ogni conflittualità, anche fraterna, soprattutto fraterna; e noi lo sentiamo bene che il fratricidio di Caino è cosa che ci riguarda.
Ma anche lo stesso mito di fondazione di Roma, con la nota leggenda di Romolo e Remo, incastona, nelle origini della città che conquisterà il mondo, la frattura irreversibile di un fratricidio.
I greci spingono più in là. Percepiscono l’orrore come rumore di fondo perennemente in agguato, soprattutto nelle relazioni familiari. Nel mito cosmogonico greco la paternità è sempre una relazione conflittuale, mai pacificata. Ogni padre teme che il figlio lo scalzi, gli sottragga il regno e vada ad insediarsi al suo posto accanto alla madre. Nel tempo aionico del mito, Saturno divora sempre i suoi figli e Laio abbandona sempre Edipo su un monte solitario, confidando possa presto morire.
Il figliuol prodigo di Rembrandt
Ecco, allora, che le cronache che in questi giorni siamo tornati a rileggere con angosciato turbamento sembrano, da una parte, tradurre in concretezza mostruosa il fenomeno della liquefazione della figura paterna; ma, dall’altra, ci appaiono, nella loro brutale depravazione, come figure dell’eterno, atroce rimodularsi di quel mistero del male inesorabilmente incistato perfino nelle nostre relazioni più intime e preziose.
Ripensare il padre, ripensare la paternità. Per riparare la storia. Per riparare tante storie incrinate, dolorosamente segnate, lacerate. Rovinate, finite.
Raccontare una storia in cui siano possibili altri modi di essere padre, siano possibili altri volti.
All’oscenità del Saturno di Goya[1] contrapporre il padre del figliol prodigo di Rembrandt.[2] Su uno sfondo semioscuro, da cui emergono quasi indistinti i profili di alcuni spettatori, si staglia, illuminando tutta la scena, l’abbraccio tra il figlio che chiede perdono e il padre che gli è corso incontro per accoglierlo.
È anziano, il padre, e ha occhi spenti da cieco, giacché ha consumato tutta la vista nello sforzo di spingere lontano lo sguardo, a cercare i passi del ritorno del figlio. Il suo torso è leggermente chinato in avanti e le sue mani sono posate sulle spalle del giovane, inginocchiato davanti a lui, con la testa posata sul suo grembo, come in posizione fetale. Tutta la postura del padre suggerisce un movimento di accoglienza, di protezione e di amorevole tenerezza verso il figlio.
Ma il vero punto focale della composizione sono le sue mani: la mano sinistra è nodosa, robusta, con le vene in rilievo e le dita dalla forma squadrata; la mano destra è morbida, affusolata, le dita hanno punte sottili e le unghie sono arrotondate e curate. Una mano maschile, una mano femminile. Tenerezza e misericordia, considerate abitualmente come prerogative proprie ed esclusive del femminile, si presentano, nella narrazione evangelica lucana e nella meravigliosa ermeneutica di Rembrandt, come qualità possibili, concretamente possibili, di un modo nuovo e più umano di vivere ed esprimere la paternità.
La paternità di san Giuseppe
Nuovi volti di padre. Tornare al vangelo di Matteo, tornare a leggere la storia di Giuseppe. Uomo di dubbi e di sogni, uomo di gesti concreti e di scelte coraggiose. Prese con sé il bambino e sua madre. L’arte e la poesia assumono, del Vangelo, anche gli spazi vuoti e i silenzi e, dilatandoli, riescono a dar voce e corpo alle stesse parole in tutta la loro profondità.
Nella tradizionale icona della Santa famiglia, le braccia di Giuseppe si fanno concavità accogliente e protettiva: la mano destra si posa sulla spalla destra di Maria, la mano sinistra sfiora e sostiene la mano della Madre e la mano del Bambino. Essere padre: accogliere il mistero della madre e del figlio, per custodire la delicata, fragile bellezza di quell’intimità di affetti che si chiama famiglia.
Hoy a tus pies ponemos nuestra vida;
hoy a tus pies, ¡Glorioso San José!
Escucha nuestra oración y por tu intercesión
obtendremos la paz del corazón.
En Nazaret junto a la Virgen Santa;
en Nazaret, ¡Glorioso San José!
cuidaste al niño Jesús pues por tu gran virtud
fuiste digno custodio de la luz.
Con sencillez humilde carpintero;
con sencillez, ¡Glorioso San José!
hiciste bien tu labor obrero del Señor
ofreciendo trabajo y oración.
Tuviste Fe en Dios y su promesa;
tuviste Fe, ¡Glorioso San José!
Maestro de oración alcánzanos el don
de escuchar y seguir la voz de Dios.
[1] Goya, Saturno divora i suoi figli, Olio su intonaco trasportato su tela (1821-23), Museo del Prado, Madrid.
[2] Rembrandt, Il ritorno del figliol prodigo, Olio su tela (1668), Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.