Una mano armata di coltello si è accanita contro il corpo della giovanissima Giulia, ammazzandola. Si trattava di un corpo vivo, del corpo che Giulia era, trasformato in cadavere, in carne, ossa e sangue senza vita.
Si parla ora di educazione all’affettività. Che non diventi, però, l’ennesimo manuale o l’ennesima ora che appesantiscono gli zaini e le menti degli studenti. Non di pesi vi è bisogno, infatti, bensì di tenerezza. La tenerezza alla quale si richiama Luce Irigaray, rispetto a un sesso inteso come spinta sorda, cieca e primitiva.
La stessa tenerezza spesso evocata da papa Francesco. Educazione all’affettività non può che essere anche educazione alla tenerezza e alle differenze, infatti. Un’educazione volta, come ci insegnano gli antichi, a fare della virtù un’abitudine.
Un’abitudine nutrita, tra l’altro, dall’esempio luminoso di Eugenio Colorni, che altre volte ho citato. Il suo desiderare ciò che la sua amata, Ursula Hirschmann, desiderava, anche se la allontanava da lui. La sua Ursula, profondamente diversa da lui. La donna che amava restava altro da sé. Anzi, come suggeriscono vari pensatori, l’amore richiede un rispetto della distanza e della peculiarità individuale ancor maggiore dell’amicizia, proprio per la sua intensità.
Educazione all’affettività, poi, significa superare l’enfasi che oggi i media pongono sulle emozioni, a discapito del sentimento. Emozioni intese come adrenalina, e dunque come stati d’animo forti, violenti, tali da sopraffare tutto il resto, come rumori assordanti.
Il sentimento, al contrario, è delicato, morbido, rispettoso. Un habitus che tutti e tutte dovremmo acquisire; non basta farne cenno nei programmi scolastici. Una vera e propria educazione sentimentale permanente, affinché il sangue voglia dire vita, non morte.