Napoleone diceva che esiste una sola figura retorica seria, la ripetizione. Ciò che si afferma finisce, grazie alla ripetizione, col penetrare nelle menti al punto da essere accettato come verità dimostrata.
Gustave Le Bon (1895)
La disinformazione è dura a morire. Nella prima uscita della mia rubrica De Facto su Appunti dicevamo che la disinformazione è persistente, perché resiste ai tentativi di correzione e può riproporsi inconsciamente in contesti diversi, ma connessi, a quello di acquisizione.
In ufficio si sparge la voce che il nuovo stagista sia un tipo maldestro e inaffidabile, ma è falso. Il tuo collega pettegolo inizialmente ci crede, ma quando gli dimostri che è solo una maldicenza si dice convinto della tua versione. Ciononostante, quando deve decidere se affidare un incarico al nuovo stagista è sempre molto titubante. La voce infondata è stata smentita, ma i suoi effetti persistono.
Qualche volta, la causa di questa persistenza va ricercata nella natura delle credenze coinvolte; nello stesso articolo ad esempio dicevamo che le credenze legate alla propria identità sociale di solito sono più difficili da modificare. Ma ci sono tanti altri fattori che giocano un ruolo nel mantenimento di credenze false. Uno di questi lo abbiamo iniziato a comprendere quasi 50 anni fa: la ripetizione.
Ripetere falsità
Nel 1977 tre ricercatori di psicologia – Lynn Hasher, David Goldstein e Thomas Toppino – pubblicano i risultati di uno studio che ha coinvolto 40 studenti universitari.
L’esperimento prevedeva che agli studenti venisse somministrata una lista di affermazioni plausibili, alcune delle quali erano vere (ad esempio, «Ernest Hemingway ha ricevuto il premio Pulitzer per Il vecchio e il mare») e altre false («Il capibara è il più grande dei marsupiali»). In una prima sessione, ai partecipanti è stato chiesto di valutare la verità di ciascuna affermazione in base a una scala che va da 1 a 7 (dove 1 = «sicuramente falso», 4 = «incerto» e 7 = «sicuramente vero»).
Questo processo è stato poi ripetuto in una seconda e una terza sessione, ma in ognuna di queste la metà delle affermazioni era già stata incontrata durante la sessione precedente, mentre l’altra metà non era stata mai vista prima.
Dai risultati è emerso che a ogni sessione successiva i partecipanti valutavano le affermazioni ripetute come più veritiere rispetto alla sessione precedente. Ma la parte più interessante è che queste valutazioni non variavano a seconda della veridicità oggettiva delle affermazioni: con la ripetizione gli studenti percepivano come ‘più vere’ anche le affermazioni false. Queste sono passate da punteggio di valutazione medio di 4.18 nella prima sessione a uno di 4.67 nella terza; non male per sole due ripetizioni.
L’esperimento di Hasher, Goldstein e Toppino ha dato vita a un lungo filone di ricerca che di fatto ha confermato la scoperta dei tre ricercatori: a ogni nuova ripetizione tendiamo a percepire un’affermazione come «più» vera, a prescindere dal suo oggettivo valore di verità.
Questo fenomeno in letteratura viene chiamato illusory truth effect e sembra abbastanza robusto (per chi mastica un po’ di statistica: una meta-analisi su oltre 50 studi stima che il coefficiente d di Cohen per l’illusory truth effect è tra 0.39 e 0.49, ma dato il contesto sperimentale potrebbe essere una stima al ribasso, perché nella vita di tutti giorni non c’è uno sperimentatore che ti avvisa che a breve sarai esposto a una lista di affermazioni vere o false).
Rispetto al 1977, però, oggi conosciamo qualcosa di più. Ad esempio, sappiamo che l’illusory truth effect vale per moltissime categorie di affermazioni.
La ripetizione aumenta la credibilità percepita di frasi triviali, come quelle dello studio di Hasher, Goldstein e Toppino, ma anche di slogan pubblicitari («Il dentifricio Crest rimuove le macchie di caffeina dai denti»), opinioni sociopolitiche («I giudici sono troppo indulgenti con i criminali»), pettegolezzi («Un professore dava bei voti a uno studente perché lui aveva scoperto che il professore aveva compiuto un plagio»), titoli di giornale inventati («Mike Pence: la terapia di riorientamento dell’omosessualità ha salvato il mio matrimonio»).
L’effetto si verifica sia quando la finestra temporale tra una ripetizione e l’altra è di una manciata di minuti e sia quando questa è di mesi.
Inoltre, sembra che il fenomeno non dipenda dalla fonte dell’affermazione: l’effetto si è verificato lo stesso sia quando i partecipanti a uno studio erano stati avvertiti dell’inaffidabilità della fonte, sia quando, in un altro setting, l’affermazione iniziale era accompagnata da un caveat sulla sua validità (es. «È improbabile che il capibara sia il più grande dei marsupiali»).
L’illusory truth effect ha ovviamente dei limiti. Anche se ci sono alcune evidenze contrastanti (tipo queste), sembra che l’effetto si verifichi unicamente per le affermazioni plausibili e con un valore di verità ambiguo.
In altre parole, i soggetti devono essere incerti sul valore di verità dell’affermazione, altrimenti le forti intuizioni sulla probabilità o le conoscenze pregresse prevaricano sull’illusory truth effect.
Inoltre l’effetto della ripetizione sulla verità «percepita» non è un incremento lineare; se il punteggio iniziale di un’affermazione è 4.00 e con una prima ripetizione diventa 4.20 (+20%), con una seconda ripetizione non si arriva a 5.04 (+20%). Secondo uno studio del 2021, l’incremento segue una scala logaritmica: a ogni nuova ripetizione l’incremento è via via più piccolo, e il picco massimo si ha con la prima ripetizione. Quindi dopo una certa soglia l’effetto della ripetizione diventa trascurabile.
La fluidità nell’elaborazione
Ci sono diverse teorie sui meccanismi psicologici alla base dell’illusory truth effect. Quella che va per la maggiore, anche se non è la più recente, è la teoria della processing fluency (che in italiano suona un po’ ingombrante: «fluidità nell’elaborazione»). Processing fluency è un termine tecnico per descrivere un’esperienza metacognitiva: l’impressione soggettiva di facilità o difficoltà che accompagna un processo mentale di elaborazione.
Ad esempio, è probabile che leggendo
«Queste parole tra virgolette» si possa provare una sensazione di maggiore facilità che nel leggere
Il primo font, meno scombiccherato, è più facile da elaborare del secondo. La teoria della processing fluency sostiene che le persone percepiscono un’informazione ripetuta come più vera perché sembra più familiare rispetto a una nuova.
A ogni ripetizione della stessa affermazione diventiamo infatti più veloci e più abili nell’elaborarla, dandoci ogni volta una sensazione di maggiore familiarità con quell’informazione.
Nella vita di tutti i giorni siamo abituati ad associare la familiarità con la veridicità semplicemente perché, in media, siamo esposti più spesso alla versione corretta di un’affermazione («Roma è la capitale d’Italia») che alle sue infinite versioni errate («Trapani è la capitale d’Italia», «Berna è la capitale d’Italia» ecc.). Ma non siamo sempre così fortunati, e qualche volta l’illusory truth effect è usato in maniera strategica contro di noi. Ne è un esempio l’ultimo libro sul clima di Nicola Porro, giornalista di punta di Rete 4.
Le grandi bugie di Porro
Lo scorso giugno Porro ha pubblicato per Liberilibri La grande bugia verde, una raccolta di saggi scritti da ricercatori e professori universitari che promuovono visioni scettiche sull’origine antropica del cambiamento climatico.
Molte delle tesi del libro di Porro sono già state smontate infinite volte da scienziati del clima e fact-checker indipendenti.
Per chi segue un po’ il dibattito sulla crisi climatica, leggere il libro di Porro è un po’ come fare un grande ripasso delle argomentazioni fallaci che negli anni sono state formulate contro l’idea di un cambiamento climatico di origine antropica.
Dire che molte tesi del libro sono già state smontate infinite volte non è un’iperbole. Un esempio? Nel libro di Porro si sostiene che i ghiacciai del pianeta, e in special modo quelli della Groenlandia e dell’Antartide, non si stanno davvero sciogliendo; anzi in alcuni casi starebbero addirittura acquisendo massa.
Ora se il lettore va su Google e cerca «glaciers are not melting fact-checking» viene sommerso da una montagna di link tutti molto simili tra loro, ma con date diverse: si tratta di articoli di fact-checking che smontano la tesi del libro di Porro ancora e ancora, ogni volta quel falso mito sui ghiacciai ritorna in circolazione per qualche motivo.
E lo stesso vale per molte altre tesi de La grande bugia verde, come quella della falsità del grafico a hockey stick o quella sull’impatto della radiazione solare nel caldo anomalo degli ultimi decenni. Tutto sbagliato, tutto già visto.
Ma allora perché un giornalista, nel 2024, dovrebbe pubblicare un libro che contiene informazioni false già confutate numerose volte negli ultimi vent’anni? Non sembra un esempio di giornalismo molto virtuoso.
Nota bene: questa non è una domanda sulle motivazioni personali dell’individuo Nicola Porro, di cui ci interessa fino a un certo punto (anche se su Appunti si era già scritto che la guerra al consenso scientifico sul clima è diventata una delle cifre caratterizzanti dell’attività di Nicola Porro). È una domanda di tipo strategico: perché rilanciare informazioni false? Che senso ha?
Una risposta ormai la sappiamo: perché la ripetizione funziona. La disinformazione sul clima – ma anche sul Covid, sull’economia e su molti altri argomenti – spesso è ciclica: ritorna sempre con (quasi) gli stessi argomenti.
L’obiettivo è quello di rinforzare la percezione che affermazioni come «I ghiacciai non si stanno sciogliendo», «Non c’è un vero consenso scientifico sul cambiamento climatico» e altre siano vere. Come? Semplicemente ripetendole a sufficienza. Col tempo queste informazioni diventano così familiari che correggere le relative credenze si trasforma in un’impresa complicata. Anche se la loro verità è un’illusione.
P.S. se qualcuno ha comprato il libro di Porro ed è caduto nella trappola delle argomentazioni fallaci ma scritte con linguaggio semi-tecnico, qui trova un fact-checking delle principali tesi del libro fatto dal sottoscritto.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 23 settembre 2024