Walter Nanni – capo ufficio studi di Caritas Italiana – è tra i curatori del Rapporto 2023 su povertàed esclusione sociale in Italia, “Tutto da perdere” (qui). In occasione della VII Giornata Mondiale dei Poveri, voluta da papa Francesco, gli abbiamo chiesto di fare il punto della situazione.
- Caro Walter, ci ritroviamo per il terzo anno consecutivo a fare il punto della situazione sulle povertà in Italia. Cosa è sostanzialmente cambiato in questi anni?
Direi, innanzi tutto, il clima. Poi vedremo i dati. Durante gli anni caratterizzati dalla pandemia si sono, naturalmente, manifestati tanti più problemi. Ma, insieme, abbiamo potuto respirare un clima di “democratizzazione della povertà”, se così posso dire: ci si è sentiti tutti più poveri, un po’ tutti “sulla stessa barca”, come aveva detto papa Francesco, e perciò disponibili a fare parte delle nostre ricchezze così come delle nostre povertà.
Persone che mai si erano rivolte ai centri di ascolto delle povertà, hanno potuto farlo senza particolari patemi d’animo. Insomma, il motivo «ce la faremo tutti insieme» non è stato solo uno slogan; una sorta di fratellanza nella povertà è risultata più vera.
Ora, direi che siamo riprecipitati nella situazione precedente. Si stanno creando nuovi steccati e le differenziazioni risultano nette: ricchi e classe media borghese da una parte, poveri conclamati dall’altra.
- Perché abbiamo “Tutto da perdere”, come recita il titolo del Rapporto 2023?
Il titolo del Rapporto va associato alla grafica della copertina, con la foto di una bella auto d’epoca che viaggia su una strada lunghissima, verso l’orizzonte, ma sta perdendo olio dal fondo, senza che l’autista se ne accorga o vi presti molta attenzione. Ma prima o poi, evidentemente, se ne accorgerà.
Ecco, questa è un po’ l’immagine del nostro Paese: un Paese che vogliamo ancora pensare rivolto a un futuro migliore, ma che ora sta “perdendo per strada” circa 6 milioni di poveri conclamati. Non ce lo possiamo permettere. Il nostro Paese non se lo può permettere. Dobbiamo prendere atto che c’è un guasto – o più guasti – nella nostra società e adottare tutte le contromisure al riguardo. Come Caritas – come Chiesa italiana – lo andiamo dicendo da anni, anche con questo ultimo Rapporto.
Numeri e vite
- Veniamo, allora, a qualche dato. Dalle notizie di stampa pare che vada sempre peggio. È vero?
Nel momento della “istantanea” scattata dal Rapporto 2023 in Italia, avevamo 5.674.000 poveri, corrispondenti al 9,7% della popolazione totale. Sono aumentati di poco, in termini percentuali, rispetto all’anno precedente. Ma questo vuol dire che, se nel 2021 le famiglie in povertà assommavano a 2.022.000, nel 2022, sono divenute 2.187.000. Il che vuol dire, ulteriormente, quasi 1 milione e trecentomila minori che vivono al di sotto della soglia della povertà. Questi sono i dati Istat: ufficiali, globali.
Tuttavia, quando ho visto affiorare questi primi dati, ho tirato, per certi versi, un respiro di sollievo, perché temevo il peggio, per quanto sappiamo della situazione economica di contesto, con la falcidia dell’inflazione sui salari, l’incremento dei prezzi dell’energia e dei carburanti come di molte materie prime, anche alimentari.
Va, peraltro, riconosciuta, l’incidenza positiva di alcune misure strutturali, volute dai vari governi in questi anni, misure che hanno aiutato molte famiglie ad affrontare difficoltà crescenti: ad esempio, il Reddito di Cittadinanza, l’Assegno Unico universale per i figli a carico, i Sussidi per l’energia (gas e corrente elettrica).
- Dai dati generali Istat, quali considerazioni fondamentali trae l’equipe di Caritas Italiana?
Sono tre gli aspetti che abbiamo evidenziato nei dati Istat.
Per la prima volta il dato della povertà nei piccoli Comuni supera quello delle Città Metropolitane: 8,8% contro 7,7%. La trasformazione demografica e urbanistica è tale da determinare il trasferimento di fasce povere dalle grandi città ai piccoli centri, specie delle cinture urbane, ove i fitti e i costi della vita sono più bassi; col problema, però, che i piccoli Comuni sono meno attrezzati in fatto di servizi e capacità di assistenza ai poveri.
La seconda osservazione fondamentale conferma l’estrema fragilità economica dei nuclei stranieri con figli minori: questo “gruppo” occupa ben il 30% delle situazioni di povertà assoluta.
Il terzo aspetto riguarda il grado di istruzione che, ancora una volta, caratterizza e penalizza i più poveri: il che è dimostrato, ad esempio, dal fatto che il 13% di chi possiede al massimo un titolo di licenza elementare si trova sotto la soglia di povertà assoluta.
- I dati direttamente rilevati da Caritas, quali sono? Cosa ci dicono?
Innanzi tutto, ricordo che si tratta dei dati raccolti da 2.855 centri di ascolto delle povertà in 205 diocesi italiane (il 93% del totale). Questi centri hanno incontrato 255.957 persone in difficoltà. Queste persone hanno presentato i bisogni dei famigliari alle loro spalle, tanto da poter dire che i centri Caritas hanno incrociato la vita dell’11,7% delle famiglie in stato di povertà assoluta in Italia: un dato peraltro sottostimato perché tanti altri interventi di aiuto – in mense, magazzini, empori, piccole parrocchie, ecc. – non sono passati sotto la nostra osservazione.
Sui dati Caritas – posti ormai in rete diciamo in tempo reale – riusciamo, nel Rapporto, ad anticipare le tendenze dell’anno in corso (2023), ragionando sul primo semestre. Ebbene possiamo, già dire che rispetto al primo semestre 2022 le frequentazioni presso i centri Caritas stanno leggermente diminuendo (- 2,3%), ma questo perché stanno diminuendo le persone di cittadinanza ucraina, a motivo delle note vicende di guerra: molti uomini, ma anche donne con minori, hanno fatto o stanno facendo ritorno in patria, oppure si appoggiano a reti di aiuto – proprie – allestite in Italia.
I centri di ascolto delle povertà sono antenne molto sensibili, anche per molti altri casi di situazioni di guerra e di conflitto nel mondo. Insieme stiamo osservando l’incremento delle frequentazioni “croniche”. Quindi: stiamo incontrando meno persone “nuove” e più persone interessate da difficoltà appunto croniche e sempre più gravi. Insomma, “chi è povero diventa sempre più povero”.
Inoltre: aumenta la frequentazione delle persone sole e si rafforza il dato della grave difficoltà abitativa, tanto che tale difficoltà sta divenendo tra le prime in questione, con un + 12,3% rispetto al primo semestre del 2022. Stanno aumentando pure i bisogni abitativi concomitanti a stati di cattiva salute.
- Rispetto alla distribuzione dei poveri al nord, centro e sud Italia, cosa è possibile dire?
Ci siamo accorti che questo raffronto sta perdendo il significato che aveva un tempo. Il fatto che al nord risieda circa il 50% degli immigrati stranieri che, poi, in misura rilevante, frequentano i centri Caritas – mentre al sud i centri sono frequentati soprattutto da famiglie italiane – non rende sensato un accostamento immediato.
Stiamo piuttosto notando un fenomeno che riguarda tutto il territorio nazionale e su cui andrebbe fatta una attenta riflessione in chiave di “futuro” del nostro Paese: la numerosità delle famiglie straniere che si rivolgono ai centri di ascolto è in netto calo, perché la propensione alla natalità è in caduta anche tra la popolazione straniera: – 28,7% rispetto all’anno precedente.
Ciò ha chiaramente a che fare con la povertà: per molte coppie avere figli diventa l’evento-svolta che le porta a rivolgersi ai centri Caritas per trovare sostegno rispetto a sopraggiunte difficoltà economiche e alle esigenze, impellenti, di accudimento dei bambini.
Lavoro e povertà
- Rispetto a lavoro e disoccupazione, come va?
Il 22,8% di coloro che si sono rivolti ai centri Caritas ha dichiarato di avere un rapporto di lavoro regolare. Proprio sulla base di questo dato abbiamo sviluppato uno studio – che sta al centro del Rapporto 2023 – riguardo i working poor.
Del rimanente 77,2% non si può dire che sia totalmente disoccupato, anche se in buona misura, lo è. Più che di totale disoccupazione si deve tuttavia inferire una occupazione “grigia”, ossia in parte regolare e in parte no, magari presso la stessa azienda, con sotto esibizione delle ore effettivamente lavorate, ovvero senza alcuna corrispondenza tra mansione e livello contrattuale, oppure, ancora, in applicazione a contratti completamente “fuori luogo”; sempre, a svantaggio dei lavoratori.
Il dato “pesante” che grava sui frequentanti i centri Caritas è la mancanza di istruzione e di formazione, quindi la mancanza di una professionalità da poter spendere nel mercato del lavoro.
- I centri Caritas sono in grado di rilevare anche il lavoro nero?
La scheda di rilievo contiene anche quella voce, ma il dato che ne esce è certamente molto sottostimato, non attendibile. Per comprensibili ragioni, è molto difficile rilevare le situazioni di illegalità.
- Lo studio sui working poor cosa ci dice del lavoro oggi? Perché si può essere poveri pur lavorando?
Voglio prima spendere due parole sul metodo, innovativo, adottato con questo studio, anche sulla scorta delle sollecitazioni ricevute da papa Francesco circa il protagonismo dei poveri e la loro partecipazione, in qualche modo sinodale, alle cose della Chiesa e soprattutto della società.
Così, nel nostro ambito di ricerca sociologica, sono entrati gli stessi – alcuni – working poor, a suggerire le domande “giuste” che poi abbiamo rivolto, ad un campione di 22 intervistati in 6 diocesi italiane, tra i 18 e 64 anni; persone che hanno lavorato almeno per 7 mesi nell’anno, producendo di fatto un reddito inferiore al 60% al reddito medio delle famiglie.
Dentro il lavoro povero, dunque, abbiamo individuato diversi aspetti e cause di povertà. In primo luogo, la debolezza dei salari: l’Italia è oggi uno dei Paesi europei che peggio paga i lavoratori. Ciò è legato anche al fatto che in Italia abbiamo il primato delle piccole imprese: circa il 50% del totale. Spesso, come sappiamo, sono le stesse famiglie a farsi imprese: pensiamo al fenomeno colf e badanti. La debolezza reddituale delle piccole imprese spiega, almeno in parte, la debolezza dei salari.
Poi, sono almeno tre le cause strutturali individuate nel lavoro povero: lo stato dei contratti collettivi nazionali, le trasformazioni che stanno intervenendo nel mercato del lavoro e i comportamenti illegali a cui ho accennato.
- Puoi spendere ancora qualche parola su contratti, mercato e illegalità nel mondo del lavoro?
In Italia sussistono quasi 1.000 contratti collettivi, di questi il 50% è scaduto, anche da tempo, da anni. 7.732.000 lavoratori dipendenti in Italia sono in attesa del rinnovo del proprio contratto. C’è poi il fenomeno della scelta discrezionale del contratto che più aggrada al datore di lavoro, col risultato che, a parità di mansione, le retribuzioni possono variare di 200-300 € mensili.
Il mercato del lavoro sta attraversando una grande precarietà, perché i lavori part-time, a chiamata, interinale, stagionale, per tirocinio, a partita Iva… hanno ormai una grande estensione. Per coprire tutte le esigenze, i datori di lavoro hanno abbassato l’offerta di ore lavorate e così è diminuita la capacità economica dei lavoratori.
Di illegalità e “lavoro grigio” ho già detto. Aggiungo solo che tutto ciò si accompagna alla pressoché totale assenza di attività ispettiva istituzionale.
- La proposta del salario minimo può arginare queste derive?
Caritas condivide la proposta, pur nella consapevolezza che il solo salario minimo non può risolvere tutti i mali: si possono ben retribuire i lavoratori con 9 € lordi all’ora, ma, poi, se si fanno sparire l’indennità di contingenza, le ferie e permessi non vengono pagati, l’anzianità non viene riconosciuta, ecc., non ci sarà una soluzione.
Bisogna, evidentemente, agire su più fronti. Ci sembra che sia importante sfoltire i contratti nazionali, ricondurli ad alcune categorie fondamentali, applicarli rigorosamente.
Quali povertà
- È possibile dire, dunque, in breve, quali siano le cause più profonde delle povertà?
I nostri operatori Caritas sanno bene che ci sono cause intimamente connesse alle biografie delle persone povere – nelle relazioni famigliari e interpersonali, nelle separazioni, nelle dipendenze, nelle malattie, ecc. – insieme a cause strutturali.
Spesso i diversi ordini di causa si intrecciano tra loro. Gli ambienti ecclesiali riescono a condizionare positivamente anche il primo ordine, ma, chiaramente, è del secondo ordine – quello strutturale – che qui possiamo dire.
- Come si manifesta, oggi, sensibilmente, la povertà?
Già ho accennato alla povertà energetica: una forma di povertà nuova o perlomeno non evidente sino a pochi anni fa. Questo significa che ci sono persone e famiglie che non riescono, con i redditi a disposizione, a garantirsi un riscaldamento adeguato – ma ormai anche un raffrescamento adeguato – nelle proprie case. Gli ultimi dati ci dicono che il 10% della popolazione italiana – con tendenza in aumento – ha difficoltà a vivere in case con temperature accettabili, il che spesso, ha, comprensibilmente, a che fare con lo stato di conservazione degli immobili, con la manutenzione e l’igiene degli ambienti.
Su circa 86.000 sussidi economici erogati dai centri Caritas si stima che almeno la metà sia andata, appunto, per far fronte a fabbisogni energetici, nonostante i bonus energia erogati, a diversi livelli, dallo Stato, dall’Arera, dagli Enti locali. La buona notizia è che ai centri di ascolto delle povertà non si sono formate lunghe code di persone con le bollette in mano, bensì sono giunte persone, per lo più già conosciute, con bollette “rovinose” e ingiunzioni di sospensione dei servizi energetici.
- Qual è il giudizio di Caritas Italiana sulle misure di welfare del governo?
La trasformazione operata da Reddito di Cittadinanza ad Assegno di Inclusione non è quella che avremmo desiderato e per la quale abbiamo interloquito, se non altro perché, negli ultimi 10 anni, sono stati adottati ben 4 sistemi di sostegno al reddito diversi tra loro e non è perciò semplicemente possibile valutarne – in un arco temporale così breve – l’efficacia: ogni volta muta il sistema organizzativo. L’Assegno di Inclusione andrà dunque valutato tra un anno, almeno.
Detto questo, stimiamo che circa il 33% dei percettori del Reddito di Cittadinanza perderà il beneficio, ossia 400.000 famiglie circa: ciò, basandoci su criteri anagrafici. Ma il nuovo provvedimento contempla pure altri criteri, per cui alcuni nuclei, attualmente esclusi, potrebbero rientrare nella sfera di intervento.
Riconosciamo un elemento positivo, come da noi sollecitato: è stata abbassata, per gli stranieri, la condizione sine qua non della residenza da 10 a 5 anni. Perciò avremo all’incirca 50.000 famiglie straniere che potranno beneficiare dell’Assegno di Inclusione. Altro elemento positivo è da ritenersi l’accesso al beneficio attraverso i Servizi Sociali Comunali, anziché attraverso portali online. Questo però presuppone il rafforzamento delle risorse umane comunali. Sarà da vedere se accadrà.
La Caritas italiana
- L’intervento della Caritas quanto incide sul limite delle povertà?
Non tutto è quantificabile. Specie la qualità della relazione d’aiuto non lo è.
Possiamo tuttavia dire che, nel corso del 2022, i centri Caritas hanno fornito 3.500.000 interventi assistenziali, il 72% dei quali nella forma di beni materiali di consumo. Subito dopo vengono gli interventi di ospitalità – alloggi a breve e medio termine – nella misura del 10% del totale degli interventi. L’attività di ascolto – con la realizzazione di progetti personalizzati di accompagnamento “specialistico” – produce il dato del 7,4%, che può apparire scarso, ma che, in realtà, seleziona una realtà ben più estesa di incontro e di relazione personale con quei 3,5 milioni di interventi di cui ho detto.
Se volessimo tracciare curve lunghe – dai tempi della crisi economica del 2008, attraverso la pandemia, sino ad oggi – potremmo vedere che la curva degli aiuti diretti è in leggera flessione (anche per la diminuzione delle risorse a disposizione), mentre quella della capacità di orientamento “alla persona” è in crescita.
- Il nostro volontariato regge?
Ancor recentemente è uscita una pubblicazione Istat precisamente dedicata al volontariato in Italia, che ha indagato un po’ tutto il settore no-profit. Di quella pubblicazione colpisce il dato della diminuzione dei volontari, dal 2015 al 2021, nella misura di 900.000 unità. Invecchiamento dei volontari storici, diminuzione demografica e motivazionale del bacino giovanile, oltre che la crisi di alcune istituzioni: sono tra le ragioni che spiegano il dato.
Ebbene, abbiamo confrontato il trend generale coi nostri dati, presi nel 2020 (durante la pandemia) rispetto al 2019 (prima della pandemia): 84.000 contro 90.000. Questo ci dice che “stiamo tenendo botta”, nonostante tutto. Si tratta di un numero ancora rilevante di volontari Caritas. Degli 84.000, 22.000 prestano il loro servizio – appunto volontario e gratuito – in servizi diocesani, quali mense, distribuzione di generi di prima necessità, dormitori, case-famiglia. La maggior parte – 62.000 – sta però nelle piccole e capillari dimensioni delle parrocchie e dei gruppi caritativi.
Dobbiamo considerare, in proposito, il rapporto tra operatori professionali e volontari che può risultare inversamente proporzionale, ovvero dove ci sono più professionali risulta proporzionalmente inferiore il numero dei volontari puri. In realtà il sistema regge proprio per la compresenza – motivata – di entrambe le figure.
- Con quali motivazioni?
Con un item abbiamo chiesto a campioni di nostri volontari «perché lo fai?». L’80% ha risposto che lo fa «per rendersi utile agli altri»; il 50% – con una certa sovrapposizione – risponde che lo fa «per scelta coerente con la fede».
Questi dati confermano che il mondo Caritas aggrega persone che non necessariamente hanno una appartenenza ecclesiale o, persino, che possono avere altre appartenenze religiose. Ma ci dicono anche della bontà e della capacità di attrazione del nucleo caldo e di fede.