«Ben presto la lotta politica si svolgerà fra coloro che possiedono e quelli che non possiedono. Il grande campo di battaglia sarà la proprietà. E le principali questioni della politica si aggireranno intorno alle modifiche più o meno profonde da apportare al diritto dei proprietari» (Alexis de Tocqueville cit. in Rodotà 2018, 33-34). Se guardiamo al dibattito contemporaneo, queste parole di Alexis de Tocqueville, che risalgono a quasi due secoli fa, conservano ancora il loro valore. Qual è dunque il ruolo della proprietà privata oggi?
In questo breve studio considererò anzitutto gli argomenti con cui si legittima la proprietà privata, per poi chiedermi quali siano le problematiche che emergono oggi da questo concetto. Mi soffermerò quindi sulla questione dei «beni comuni», giungendo infine a formulare qualche conclusione generale.
Gli argomenti della legittimazione
Come afferma giustamente Cesare Salvi, che intitola significativamente un suo studio Teologie della proprietà privata, la proprietà privata è una questione che non si riduce al semplice dato di fatto. Essa, nel corso della storia, conosce una legittimazione che si richiama a fondamenti trascendenti, al volere della divinità o alla struttura della creazione. In tal senso l’autore segue i fili, spesso annodati fra di loro, di una lunga trama in cui la proprietà privata viene legittimata.
La tradizione medievale conserva ancora un certo equilibrio, per esempio con la distinzione presente nel Decretum di Graziano fra la comunanza dei beni iure divino e la proprietà privata iure humano o quella che risale a Tommaso (STh II-II, 66) fra la liceità del possesso, ovvero di acquisire e gestire beni privatamente, e la necessità che la proprietà privata abbia un risvolto sociale, ossia un uso rivolto al bene comune.
Anche Locke cerca di conciliare l’affermazione secondo cui Dio ha dato la terra a tutti e il diritto di proprietà acquisito con il lavoro, ma con lui inizia un processo in cui il diritto divino originario viene sempre più emarginato e la proprietà privata diventa sempre più un assoluto che garantisce la libertà dell’individuo dinanzi alle pretese dello Stato («la sovranità appartiene allo Stato, la proprietà al cittadino», afferma una frase attribuita a Seneca e poi ripresa da Bodin e Portalis).
Proprio questa identificazione fra proprietà e libertà è l’argomento di legittimazione più forte del pensiero neoliberale, che annovera Locke come punto di riferimento. La proprietà tende ad identificarsi come potere illimitato da parte di colui che possiede un determinato bene: si tratta di un diritto inalienabile che garantisce una libertà negativa, ossia una libertà dal controllo e dall’imposizione esterni.
Ma quali sono gli argomenti del neoliberalismo a favore della proprietà privata (Salvi 2017, 153-157)? Il primo è appunto che la proprietà è un diritto naturale esattamente come la libertà. Ma la connessione così stretta fra libertà e proprietà pone l’interrogativo rispetto a coloro che non possiedono. Non sono essi liberi? È vero che qui si parla di libertà negativa, esteriore. Ma in questo caso la libertà dev’essere data dal diritto, non dall’economia.
Il secondo argomento è che la proprietà privata è un baluardo contro l’arbitrio del potere politico. In altri termini, la proprietà privata, cioè la libertà economica, permette di bilanciare il potere della politica.
Il terzo argomento, infine, è che la proprietà privata garantisce un sistema economico molto più efficiente rispetto a un’economia di stampo socia- lista: consente di massimizzare la ricchezza e alla lunga anche di innalzare il benessere medio degli individui.
Ora, tutti e tre gli argomenti sono pertinenti, ma non devono essere assolutizzati. Assolutizzandoli si cade in una scissione radicale fra proprietà e mercato, da una parte, e solidarietà e politica, dall’altra.[1]
Aspetti della proprietà privata contemporanea
Il dato nuovo oggi è che la tradizionale comprensione della proprietà, centrata su un’entità materiale (una casa, un terreno, una fabbrica…), è estesa sempre più a beni economici non materiali. Del resto, l’economia odierna è costituita quasi interamente da flussi finanziari (prestiti, investimenti, acquisti di azioni e bond, e flussi di denaro tra banche e altri istituti finanziari…) e non dalla produzione e dallo scambio di beni e servizi (la cosiddetta economia reale).
Di conseguenza, la proprietà oggi è principalmente proprietà di ricchezza finanziaria; il «capitale del XXI», per utilizzare il titolo di un libro fortunato di Thomas Piketty, fondamentalmente non è più costituito da un insieme di cose, ma da una serie di attivi finanziari. Inoltre, i beni economici non materiali conoscono oggi un’espansione costante: si tratta di «beni immateriali» (dal diritto d’autore ai brevetti farmaceutici, dagli algoritmi matematici agli organismi geneticamente modificati) che ricevono la stessa tutela giuridica dei beni materiali (Salvi 2017, 90-92).
Daniel Bensaïd fa alcuni esempi di questa privatizzazione che si estende sempre più (Bensaïd 2009, 55-74). Anzitutto la privatizzazione del sapere che si attua mediante la tutela dei brevetti e della proprietà intellettuale. I brevetti spesso servono a garantirsi il monopolio su determinate ricerche, su determinati ambiti in modo da impedire ad eventuali concorrenti di compiere altre scoperte in quello stesso campo. Si tratta dunque di un monopolio della cultura, come se la cultura possa essere ridotta a merce e quindi sia in qualche modo privatizzabile. Ma l’accesso alla cultura garantisce libertà e quindi privatizzare la cultura va contro quel primo argomento neoliberale di giustificazione della proprietà privata che la identifica appunto con la libertà.
Il secondo caso è la privatizzazione del vivente. Dal 1998 in poi si possono brevettare «materie biologiche» e oggi assistiamo a un vero e proprio g-business, dove la lettera G sta per gene. Questo tipo di privatizzazione arriva a toccare l’essere umano stesso nella sua «natura» e apre scenari inquietanti.
La stessa dinamica si ha, mutatis mutandis, per esempio con la privatizzazione dell’informazione (pensiamo per esempio al possesso dei big data o alla scelta di quali informazioni far passare) o della sanità (i brevetti in campo farmaceutico). Ma il diritto all’informazione e alla salute non deve forse essere prevalente rispetto alla privatizzazione? E la privatizzazione non appare proprio come il contrario degli assunti neoliberali: ossia garanzia della libertà, ma anche argine alla tentazione illiberale dello Stato?
Inoltre bisognerebbe tenere ben presente che un conto è possedere un oggetto – anche virtuale, come i soldi sui nostri conti correnti – e un altro è possedere un sapere o addirittura una sequenza genetica. L’oggetto del possesso non è affatto indifferente.
C’è un’idea legittima del brevetto, che premia la proprietà intellettuale e garantisce giusti guadagni a chi mette a frutto il proprio sapere e la propria creatività, ma la questione è fin dove si estende la possibilità di brevettare (è brevettabile tutto?), ovverosia la riduzione di ogni cosa a merce e la durata del brevetto, che tende ad allungarsi sempre di più per impedire la concorrenza e instaurare un regime di monopolio.
Inoltre sorge la domanda: queste diverse proprietà, che come detto includono una serie molto eterogenea di beni immateriali, possono essere ricondotte a un unico modello di tutela? Le proprietà oggi vengono considerate casi particolari dell’unico modello della proprietà privata. Ma le diverse forme di proprietà non sono sovrapponibili: per tutelare la libertà e l’uguaglianza occorre considerarle e regolarle in modo diverso (Salvi 2017, 102).
Una proposta: i beni comuni
Il libro di Bensaïd che ho richiamato sopra parte da un interessante fatto storico. Nel 1842 Karl Marx pubblicava una serie di articoli su un giornale locale – la Rheinische Zeitung – a proposito di alcune leggi che venivano di- battute alla Dieta renana sulle leggi relative ai furti di legna, ossia al diritto dei poveri ad accedere e utilizzare risorse comuni.
Possiamo vedere qui un esempio di dibattito sui cosiddetti commons o «beni comuni» (forse è meglio utilizzare quest’ultima espressione, meno vincolata al contesto storico passato). La drammatica crisi ecologica che stiamo vivendo dovrebbe renderci sempre più consapevoli del fatto che ci sono beni comuni che devono rimanere a disposizione di tutti, come l’aria o l’acqua, per esempio.
Ma come possiamo definire questi beni comuni? Secondo Stefano Rodotà, i beni comuni «si caratterizzano per l’appartenenza collettiva e la sottrazione alla logica totalizzante del mercato e della concorrenza, riguardando propriamente i beni materiali e immateriali indispensabili per l’effettività dei diritti fondamentali, per il libero sviluppo della personalità e perché siano con- servati anche nell’interesse delle generazioni future» (Rodotà 2018, 37).
Attraverso questa descrizione emergono due aspetti intrecciati tra di loro. Anzitutto i beni comuni sfidano i due dati fondativi della modernità: il legame stretto fra sovranità e proprietà, perché mettono in discussione l’aspetto escludente della proprietà. In tal senso propongono una diversa concezione di proprietà, perché il suo beneficio non è appannaggio esclusivo del proprietario, ma si estende a vari individui. Anche il concetto di sovranità è messo in questione, perché non si identifica con quello dell’essere padrone assoluto del bene, che è appunto condiviso.[2]
L’altro aspetto che emerge è la connessione dei beni comuni con i diritti, nel senso che se si riconosce alle persone un certo diritto al tempo stesso si deve consentire ad esse di raggiungere quei beni che garantiscano quel determinato diritto. Secondo Rodotà, dunque, i beni comuni sono creati dai diritti fondamentali nel senso che una volta individuato un certo diritto fondamentale ne consegue necessariamente che si devono avere gli strumenti attraverso cui esso può essere realizzato. È la questione dell’accesso a un determinato bene.[3]
Due esempi possono essere illuminanti. Se riconosco la salute come un diritto fondamentale di ogni persona, devo consentire un ragionevole accesso ai farmaci per potere esercitare quel diritto fondamentale. Una privatizzazione assoluta dei farmaci (dunque nella logica opposta a quella dei beni comuni) mina il mio diritto fondamentale alla salute. L’altro esempio è la possibilità di utilizzo di internet. Diversi Paesi hanno già riconosciuto l’accesso a internet come diritto fondamentale della persona. Naturalmente qui si tratta di una traduzione concreta dell’accesso al bene della conoscenza, ritenuto indispensabile per consentire un libero sviluppo della personalità.
I beni comuni costituiscono una terza categoria, tra il mercato che conosce soltanto beni privati e lo Stato che conosce solo quelli pubblici (Giraud 2022, 185). Possono essere utilizzati in modo non-rivale, come ad esempio l’illuminazione di una strada pubblica, che non diminuisce in base al numero di chi ne trae beneficio, o in modo rivale, come ad esempio l’uso di un pascolo da parte di due allevatori, perché il consumo dell’uno diminuisce la possibilità di consumo dell’altro (Beghini 2019, 295).
Essi dunque si pongono come alternativa alla visione moderna della proprietà. Non si tratta però di rovesciarla, cadendo in un eccesso opposto, come quello che va sotto il nome di benicomunismo, il cui progetto vuol essere «alternativo al capitalismo, sia nella sua forma privata sia in quella di Stato e […] prefigura, coerentemente con il proprio suffisso, una società senza Stato, senza rendita proprietaria e senza classi» (Mattei 2015, 6).
Il rimedio, in questo caso, rischia di essere peggiore del male. Si tratta piuttosto di considerare altrimenti il senso della proprietà, rendendola inclusiva. Il che vuol dire anche, di conseguenza, passare da un’idea di libertà esclusiva a una libertà inclusiva (Rodotà 2018, 73).
Proprietà e solidarietà
Il filosofo e giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, che fu anche giudice costituzionale, si è chiesto, dopo la crisi del 2007-2008, di che cosa soffra il capitalismo. La sua risposta e che esso soffre non solo dei propri eccessi, dell’egoismo dei singoli, ma della sua stessa concezione di fondo, ossia quell’«individualismo proprietario» che si nutre di un amor habendi radicato ultimamente in un’idea di uomo che tende a misurarne il valore con ciò che possiede (Böckenförde 2010, 27-28).
È dunque necessaria un’idea-guida diversa, che ha come riferimento il principio di solidarietà. La proposta è semplice, ed è in linea con la dottrina sociale della Chiesa:[4] il capitalismo non va semplicemente corretto, ma va ripensato fin nella radice. La solidarietà va presa come punto di partenza, non come correttivo successivo.
E il «principio solidarietà» opera in modo poliedrico (qui viene utilizzata un’espressione che sarà poi cara a papa Francesco) nel senso che deve infrangersi in diverse direzioni: «dall’attribuzione delle risorse e delle materie prime naturali, al modo di trattare i beni di consumo e l’ambiente, dal ruolo preminente di qualsiasi lavoro nei confronti del capitale sino alla limitazione nell’accumulazione della proprietà, e al riconoscimento del prossimo – anche nelle future generazioni – come titolare e partner nell’ambito dell’uso, del commercio e del possesso, piuttosto che oggetto di uno sfruttamento possibile» (Böckenförde 2010, 30).
Quest’assunzione della solidarietà all’interno dell’economia si può arti- colare, come fa T.J. Gorringe (2015), in base a sei priorità: quella dei fini sui mezzi, quella della giustizia sull’ineguaglianza, quella della cooperazione sulla rivalità, quella della politica sull’autoregolazione del mercato, ed infine quella dei commons sulla proprietà privata assoluta. Sono sei aspetti in cui al centro non c’è l’individuo con la sua proprietà ma la persona nella sua destinazione al bene comune.
La crisi del capitalismo, prima che economica, è una realtà antropologica ed etica. L’antropologia del borghese moderno, che sta alla base del capitalismo, è l’individualismo proprietario. L’antropologia che sta alla base dei beni comuni, invece, è quella del personalismo solidale. È certamente vero, come diceva Kant, che «da un legno storto com’è quello di cui l’uomo è fatto non può uscire nulla di interamente diritto» (cit. in Salvi 2017, 148). In tal senso l’interesse personale che muove la realtà economica non può essere trascurato. Ma c’è un dato più radicale ancora, ossia il fatto che l’uomo è un essere in relazione, chiamato alla vita comune e alla responsabilità per il bene di tutti.
Bibliografia
Beghini R. (2019), «Ripensare il bene comune. Il contributo di papa Francesco», in Studia Patavina 66 293-304.
Bensaïd D. (2009), Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni, Ombre corte, Verona.
Böckenförde E.-W. (2010), «Di che cosa soffre il capitalismo», in E.-W. Böckenförde – G. Bazoli, Chiesa e capitalismo, Morcelliana, Morcelliana, Brescia, 21-32.
De Angelis M. (2017), Omnia Sunt Communia. On the Commons and the Transformation to Postcapitalism, Zed Books, London.
Giraud G. (2022), La rivoluzione dolce della transizione ecologica. Come costruire un futuro possibile, LEV, Città del Vaticano.
Gorringe T.J. (2015), «Economics and the Priority of Ethics», in Studies in Christian Ethics 28, 419-430.
Mattei U. (2015), Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino. Rodotà S. (2018), «Verso i beni comuni», in ID., I beni comuni. L’inaspettata rinascita degli usi collettivi, La scuola di Pitagora, Napoli, 27-89.
Salvi C. (2017), Teologie della proprietà privata. Dai miti delle origini ai nuovi dei della finanza, Rubbettino, Soveria Mannelli.
[1] La Costituzione italiana del 1948 e la Grundgesetz tedesca del 1949 riconoscono il fatto che la proprietà «obbliga», ossia ha una imprescindibile funzione sociale. Si vedano l’art. 42 della prima («La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti»), l’articolo 14 della seconda («Eigentum verpflichtet. Sein Gebrauch soll zugleich dem Wohle der Allgemeinheit dienen»).
[2] Il bene comune non va confuso però con il bene gestito in comune (Rodotà 2018, 61), perché si può dare il caso di beni gestiti in comune in cui si esclude l’accesso ai più.
[3] Naturalmente anche la categoria di accesso è problematica, nel senso che a volte è qualcosa di meno rispetto alla proprietà. Si pensi per esempio al possesso di un libro: posso sottolinearlo, foto- copiarlo, prestarlo, distruggerlo. L’accesso invece fa permanere il libro nella proprietà del venditore e al limite alla possibilità che mi si neghi l’accesso (Rodotà 2018, 69-70).
[4] Secondo Böckenförde Giovanni Paolo II è stato «il critico più acuto del capitalismo dopo Karl Marx» (Böckenförde 2010, 31).