Quale desiderio oltre “l’uomo pulsionale”?

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Un lungo articolo di Domenico Marrone, apparso su SettimanaNews e ripreso su Vino Nuovo (qui e qui), mette al centro di una riflessione seria, finalmente, uno degli snodi culturali che segnano, nel bene e nel male, la differenza tra la cultura attuale, che viene di solito chiamata post moderna e quella moderna che ci ha preceduto: il rapporto tra pulsione e capacità critica dell’uomo.

Marrone, rifacendosi a V. Andreoli, definisce la condizione antropologica attuale come quella dell’uomo pulsionale, dove le spinte istintive, immediate e incontrollate, hanno preso il sopravvento, nell’esistenza reale delle persone, rispetto alla capacità riflessiva, al controllo razionale e all’elaborazione lenta. La sua analisi è condivisibile nel tentativo di segnalare un problema antropologico enorme, con tutte le sue conseguenze sociali, culturali ed anche personali. Credo però che si tratti di una analisi parziale, almeno per tre motivi.

Il primo riguarda la mancanza di una riflessione adeguata su quel mondo “di mezzo” tra impulsi e razionalità, fatto di emozioni, che nell’equilibrio effettivo della persona concreta gioca un ruolo importantissimo. Analisi che avrebbe permesso di spiegare dove si appoggia e da cosa nasce il “desiderio consapevole”, che Marrone ritiene essere la soluzione possibile alla condizione attuale, precisandone meglio identità e limiti.

Il secondo riguarda la scarsa attenzione sugli effetti antropologici prodotti dal cambiamento epocale che stiamo attraversando, che rendono ragione della nascita del cosiddetto “uomo pulsionale”, andando alla radice delle motivazioni portate da Marrone. E considerando che questi effetti sono strutturali e non appena situazionali, diventa inevitabile una critica alla soluzione che richiede una ripresa della razionalità, capace di “gestire” gli impulsi, il cosiddetto “dominio di sé”.

Il terzo è il sotterraneo convincimento di Marrone che nella vita umana materialità e profondità siano nettamente opposti e inconciliabili, ipotizzando ancora una “divaricazione” non sanabile tra dimensione corporea e dimensione interiore, impedendo in questo modo che la radice effettiva del desiderio possa essere utilizzabile per farlo sbocciare e crescere.

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Una veloce analisi storica ci permette di mostrare come queste critiche siano giustificabili e, alla fine, consentano di dire che l’analisi di Marrone rischia di restare dentro alla logica che lui stesso vuole criticare.

Già i greci ci avevano detto che l’uomo possiede tre “cervelli”. Platone, nel libro IV della Repubblica indica chiaramente come l’animo umano sia costituito da logon (razionalità), tzumos (sentimenti) e epitzumia (istinti). Plotino nella, seconda e terza parte delle Enneadi le traduce in “nous” (spirito) e “psiche” (anima) “hylè” (materia) dove l’anima è pensata come connessione tra le altre due, ma ha già assunto una coloritura più razionale rispetto ai “sentimenti” di Platone e dove la dimensione emotiva e percettiva è assegnata più alla materia che all’anima. Posizione, questa, che è poi venuta avanti dentro la teologia medievale, senza sostanziali modifiche.

La ripresa di Aristotele, soprattutto nella versione di Tommaso d’Aquino, sposta ancora questo equilibrio mettendo maggiore peso sulla razionalità, che deve diventare capace anche di “padroneggiare” la materia, fino a direzionarne i sentimenti alla verità colta solo razionalmente. Impostazione che viene definitavene codificata nella separazione che Cartesio opera tra “res cogitans” (ciò che pensa e misura le cose) e “res extensa” (ciò che non pensa ed è misurabile), con l’occultamento pieno della terza dimensione, quella delle emozioni e dei sentimenti, relegata dentro alla “res extensa”.

La modernità successiva, figlia di Cartesio, ha portato all’estremo il delirio di onnipotenza della ragione svincolata dalla sua base “corporeo percettiva”, fino a pensare di poter essere capace addirittura di fondare l’uomo, la realtà e la verità, arrivando a costruire i grandi sistemi “onnicomprensivi” della filosofia tra la fine del settecento e la prima metà l’ottocento, divisibili in due direzioni.

Una è quella della razionalità volontaristica che proviene da Kant, che ha prodotto esistenze in cui la ragione chiedeva di autoimporsi all’istintualità sulla base non del desiderio, ma della verità razionale capace di muovere la volontà: “dura lex, sed lex”, azzerando di fatto il valore conoscitivo e giudicante del sentimento, anche se Kant stesso proverà a fare un tentativo di recupero, ma inefficace, con la critica del giudizio. L’altra quella dell’impeto razionalizzato che proviene da Nietzsche, in cui la ragione si mette al servizio dell’impulso dando razionalità a tutti i suoi effetti devastanti, nei “lager” e nei “gulag” ad esempio, che, pure organizzati in modo molto razionale, sono dominati, invece, dai emozioni e sentimenti di odio e di rifiuto.

Da qui, nel secondo dopoguerra del Novecento questo delirio razionale è gradualmente imploso per la terrificante mostra che ha dato di sé, producendo il discredito della razionalità “fondativa”. Così, dopo gli anni Ottanta l’arrivo di nuove condizioni antropologiche generate dal web e dalla globalizzazione, ha svuotato velocemente la supremazia della ragione, fino a far morire le ideologie e lasciare spazio agli esiti che vediamo oggi: la divaricazione totale tra una razionalità computazionale (la logica che presiede al mondo virtuale), che galoppa velocemente verso il cosiddetto “post human”, e l’istintualità primordiale, che liberata dalla forma ideologica, è stata immediatamente sequestrata dai meccanismi di mercato, che manipola il mondo emozionale degli individui per i propri obiettivi economici.

Gli effetti drammatici di ciò sono stati due. Intanto la frammentazione antropologica che spinge l’uomo post moderno a sentire come “separati” in casa, testa cuore e corpo (razionalità, emotività ed istinti), rendendo impossibile ritornare all’equilibrio della modernità, dove la razionalità dominava o era dominata dall’istinto, semplicemente perché oggi ognuna viaggia per strade proprie. Ecco perché oggi appare sulla scena “l’uomo pulsionale”, perché i canali interiori che possono permettere di riallacciare le pulsioni al resto dell’umano, sono tagliati. E quindi il semplice richiamo ad un “dominio di sé”, dove cioè la componente razionale “guida” il desiderio e lo rende consapevole appare una soluzione utopica.

Il secondo effetto è l’inversione della percezione dello spazio – tempo: dalla condizione naturale in cui lo spazio è percepito come qualcosa di reale (lo posso misurare direttamente) e il tempo qualcosa di virtuale (lo posso misurare solo indirettamente come movimento nello spazio: orologio, clessidra, sole), oggi prevale una percezione virtuale dello spazio e una reale del tempo.

Spazio virtuale significa che se si ha una forte esperienza del web, abitare in Italia, in America o in Argentina, fa poca differenza sulla costruzione del proprio equilibrio esistenziale. Tempo reale, invece, significa che vale solo il presente, mentre passato e futuro sono svuotati del proprio valore di memoria e di immaginazione, rendendo di fatto sterile la progettazione esistenziale delle persone. Perciò, anche qui, il richiamo ad una “ascesi” intesa come progressivo sviluppo di sé verso il desiderio etico ha uno spazio effettivo molto limitato.

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La prospettiva di Marrone, dichiara “essenziale recuperare la virtù del dominio di sé, che implica il controllo delle proprie emozioni, impulsi e desideri per raggiungere obiettivi a lungo termine”. Ma questo, oltre che sembrare una via non praticabile, è troppo simile alla richiesta di auto fondazione della ragione, tipica di una modernità irrecuperabile. Su cosa si appoggia il desiderio per poter nascere e crescere?

Marrone non lo dice. Ma sembra doversi ammettere, nella sua logica solo due possibilità. O che il desiderio è un dato naturale e di suo viaggia e cresce senza relazione con la cultura, cosa chiaramente impossibile. O che sia la verità colta razionalmente a fondare il desiderio buono. Ma in questo modo egli condivide con la post modernità l’impossibilità di riconiugare alla radice razionalità e pulsioni, perché mentre la post modernità le mantiene separate, Marrone ipotizza che le seconde debbano sottostare alla prima.

Questo modo di vedere l’uomo ignora compiutamente le acquisizioni delle neuroscienze attuali, che ci indicano chiaramente come esista una reciprocità non risolvibile tra pulsioni e razionalità e che esista anche un controllo non razionale e consapevole sulle stesse, che continua a funzionare, al di sotto e a prescindere della nostra razionalità. A. Damasio ha dimostrato nei suoi studi che la conoscenza puramente razionale non esiste. L’uomo pensa sempre per intero, partendo dal proprio corpo. Le abilità razionali, di giudizio e di scelta volontaria sono sempre dovute ad una connessione, più o meno equilibrata, dei tre cervelli greci. Dimenticarne uno significa non riuscire a vivere in modo realmente “umano”. Continuare a ipotizzare che materialità e profondità sono incompatibili non aiuta la soluzione, perché l’uomo, che lo si voglia o no, è e resta sempre un “intero”.

Il pensiero critico invocato da Marrone “richiede tempo, impegno e una certa dose di distacco emotivo”. Ma su cosa si può appoggiare una capacità critica che debba “raffreddarsi” rispetto all’arena reale delle relazioni vive e pulsanti? Se non può far base sul proprio “sentire”, restano solo due possibilità: l’influenza culturale, che oggi tende ad essere un potente acido che corrode l’umano, o la pura logica, che come abbiamo visto generi mostri, perché finisce per riammettere dalla finestra, quindi senza controllo, quel mondo emozionale messo fuori dalla porta. Pensare di riequilibrare la situazione antropologica attuale, rimettendo in pista la capacità critica della modernità non è una soluzione, ma mantiene il problema.

Sono d’accordo, invece, con Marrone sul fatto che il desiderio è l’elemento chiave che può offrirci una soluzione, ma va riletto in un contesto diverso che ne può dare una definizione più intera, in cui si mettano in luce le sue radici profonde, in modo che la dinamica esistenziale dell’uomo sia più completa.

Il punto di partenza sono i bisogni umani, intesi come mancanze, fisiche, psicologiche, relazionali ed esistenziali, che necessitano di essere sufficientemente soddisfatte per poterci permettere di svincolarci parzialmente dalla loro necessità, come A. Maslow, nella sua piramide, ci ha insegnato. Dalla riuscita più o meno buona di questo passaggio dipende la nascita dei desideri che non sono un dato naturale, ma sono l’esito della possibilità di dare risposta esistenziale ad un bisogno che sta alla cima della piramide: quello di realizzazione di sé, permettendo così la nascita del “senso” della propria vita.

Questo dato implica che, ben prima del richiamo al dominio di sé e all’ascesi, oggi si debba lavorare per la soluzione dei bisogni reali. Perché siamo dentro a un mercato che invece genera bisogni indotti e annebbia il confine tra questi e quelli reali, senza realmente risolverli.

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Qui sta un punto fondamentale che mi differenzia da Marrone: la possibilità di recuperare una unità di fondo dell’uomo e una sua proiezione costruttiva nel tempo non abita più nella razionalità, ma nella corporeità. Il lavoro educativo essenziale oggi, è quello di aiutare le persone a tornare al proprio corpo reale, quello che ancora “gli parla” prima e dopo l’abbuffata di input esterni, e che è ancora capace di segnalare dove stanno davvero i propri reali bisogni e dove sono le maschere indotte che li nascondono e falsificano.

Questa operazione rende ancora possibile far nascere il desiderio, ma dal basso, dalla maturazione dell’ascolto di sé, evitando di essere preda delle emozioni. E permette di riconoscere che tra emozioni e desideri c’è una notevole differenza: l’emozione è non intenzionale, è di breve durata e molto intensa, possibile anche fuori da una vita reale; il desiderio, invece è sempre intenzionale, di durata più stabile e meno intenso, possibile solo proiettandoci nel futuro della vita reale.

Questo permette di raggiungere una sutura antropologica e di uscire dalle maglie del tempo reale. In questo stato di cose non comanda la razionalità, ma nemmeno l’istintività. Comanda la percezione del desiderio che produce una scala di valori delle cose e provoca la scelta, mentre la razionalità non decide, ma organizza tale scelta, che è sostenuta dalle spinte istintuali. Già J.H. Newman aveva colto questo e lo aveva descritto come la dinamica effettiva di ciò che la Bibbia chiama il “cuore” dell’uomo.

Nella maggior parte dei casi della vita, infatti, le scelte che contano non sono frutto di riflessione ponderata, ma di ascolto di sé nella situazione reale, di ciò che dal profondo della corporeità si comunica nelle nostre emozioni e, nel suo presentarsi alla nostra mente come desiderio, che ci dice quale sia la direzione che dovremmo prendere in quella situazione. Questo non è possibile se non ritorniamo ad ascoltarci, a partire dal corpo. Ma non è possibile nemmeno se continuiamo a chiedere all’uomo di approcciarsi alla realtà in modo “freddo”, producendo solo una conoscenza “nozionale”, nata a tavolino. Questo tipo di approccio oggi non regge più, perché le sole nozioni non sono in grado di modificare la percezione emotiva e di canalizzare le pulsioni istintive, per far nascere un desiderio. La frammentazione ha interrotto questo sentiero.

Certo che questo equilibrio sano è, oggi, molto delicato e fragile, pur se ancora essenziale nella vita reale umana. E allora, se si vuole aiutare l’uomo di oggi, si deve avere il coraggio di stare dentro la realtà viva, di offrire un approccio “caldo” alla realtà in cui la conoscenza possibile diventi “reale”. In essa i costrutti mentali sono frutto della convergenza tra istinto, emozioni e ragione, perché prodotti dentro la vita effettiva.

E qui trova spazio la direzione offerta dalla prospettiva psicologica della Gestalt, soprattutto nella versione di G. Salonia: nel qui e ora della relazione viva con l’altro, si può lavorare per ricucire le parti dell’uomo in una unità che diventi equilibrio e controllo di sé, senza il dominio della ragione, facendo spazio non solo all’impulso immediato, ma anche a come questo possa diventare desiderio proiettabile nel futuro, se riconnesso al resto della persona umana.

Lo spazio della riflessione e il tempo della valutazione, allora, non servono se sono indirizzati ad una analisi distaccata, in cui gli istinti e le emozioni sono percepiti come un problema o un intralcio. Diventano produttivi se, al contrario, sono il modo di assumere istinti ed emozioni vissuti nella vita, affinché essi arrivino a consapevolezza, lasciando che il processo produca di suo e globalmente un desiderio come base della scelta da fare.

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2 Commenti

  1. Giuseppe 27 ottobre 2024
  2. Domenico Marrone 24 ottobre 2024

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