La riflessione promossa dalla Facoltà ha consegnato alcune coordinate da sviluppare in tema di educazione affettiva e prevenzione della violenza di genere: la capacità di stare nella relazione e di gestire i conflitti, una cultura del “noi”, un modello “ecologico” di sviluppo e un patto educativo che coinvolga genitori, insegnanti, educatori.
Capacità di stare nella relazione, superare le false divisioni del mondo in maschile/femminile, arginare la deriva della violenza con una cultura del “noi” rispettosa delle differenze e libera dai patriarcati, con un modello ecologico di sviluppo e un patto educativo in cui genitori, insegnanti, educatori sappiano farsi testimoni di relazioni sane, e con l’educazione alla gestione dei conflitti, per imparare ad accettarli e ad abitarli senza che questi sconfinino nel desiderio di annientamento dell’altro.
Sono questi i principali stimoli emersi dal pomeriggio di studio “Educazione affettiva e prevenzione della violenza di genere”, svoltosi a Padova e online il 19 dicembre 2023, promosso dalla Facoltà teologica del Triveneto. È un primo passo per ricercare alcune coordinate utili a contrastare il fenomeno dei femminicidi; un lavoro che proseguirà nel prossimo anno accademico con un corso sullo stesso tema, già in cantiere nel ciclo di licenza.
Una cultura del “noi” rispettosa e libera
Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha scalzato il dispositivo giudicante e rassicurante con cui solitamente ci difendiamo in queste situazioni: non ci sono “colpe” imputabili alla donna. Lo ha messo bene in evidenza Lucia Vantini, teologa e filosofa, docente all’Istituto superiore di Scienze religiose di Verona, che ha anche sottolineato come “violenza di genere” sia un’espressione ambigua, una definizione neutra in cui scompare il fatto che sono le donne a morire per mano maschile. Stereotipi, spesso impliciti, quali la divisione del mondo in femminile/maschile e quindi riproduzione/produzione, relazioni/autonomia sono elementi corroboranti la violenza di genere.
Bene lo mostra la storia di Dina, raccontata in Genesi 35. La tredicesima figlia di Giacobbe si affaccia al mondo, con la curiosità dell’adolescente, e incorre nella violenza del principe, che la prende con la forza, ma dice di amarla e la vuole sposare, con conseguenze tragiche per la famiglia.
Come liberarsi da un patriarcato che ha segnato l’Occidente per così tanto tempo? Spiega Vantini: «Patriarcato è tutto ciò che introduce e alimenta l’idea dell’inferiorità della donna (parole, simboli, leggi, pratiche) e che potenzia una cultura della virilità maschile. È reazione violenta contro le donne che non stanno al segno. In chiave religiosa, è tutto ciò che usa la differenza come motivo di svantaggio femminile o di vanto maschile» ha spiegato, citando anche altri casi, in tempi recenti, in cui le donne sono state accusate di avere “sconfinato” dagli spazi e dai ruoli a loro assegnati: Rosaria Lopez nel delitto del Circeo (1975), Franca Viola, vittima della violenza di un boss mafioso (1965).
Quale maschilità oggi stiamo educando?
La logica patriarcale dell’onore e dell’orgoglio, della doppia morale e della riparazione, la rimozione della vulnerabilità e la cultura della prestazione impediscono alla maschilità di stare nella relazione. «Dina, Giulia e tutte le altre donne violentate e uccise sono per noi un elemento di provocazione – ha affermato Vantini –. Chiedono di non idealizzare le relazioni, chiedono una cultura della maschilità differente e di coinvolgere gli uomini in questo lavoro, per una nuova alleanza fra i sessi. E chiedono di sperare che “tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e un giorno possa germogliare”, per citare le parole di Gino Cecchettin, il padre di Giulia».
Dopo la morte di Giulia, le nostre comunità hanno avvertito la responsabilità di una trasformazione. «Nel cristianesimo – ha concluso Vantini – abbiamo un Messia vulnerabile, sofferente, ma solo se costruiamo una cultura del “noi” rispettosa delle differenze e libera dai patriarcati e fratriarcati questa vulnerabilità non diventa la condanna a morte sulle vite più esposte, considerate sacrificabili».
Approccio “ecologico” e patto educativo
La violenza di genere è trasversale, senza differenze di classe sociale, religione, etnia, età e ha declinazioni molto differenti, alcune molto esplicite, come la violenza fisica e sessuale, altre più subdole e silenziose, come quella psicologica ed economica.
«Se non è corretto parlare di “cause” della violenza, negli ultimi anni gli psicologi hanno però iniziato a spiegarsi il sorgere e il mantenersi di relazioni violente come conseguenza di atteggiamenti che possono essere ricondotti alla condizione di dipendenza affettiva patologica» ha spiegato Michela Simonetto, psicologa, con laurea magistrale in Scienze religiose all’Istituto superiore di Scienze religiose di Padova.
Questa dipendenza sembra originarsi nell’infanzia, nelle relazioni primarie che sono caratterizzate da un atteggiamento frustrante o, al contrario, iperprotettivo ed è alimentata poi dal tessuto culturale e sociale in cui la persona vive.
L’approccio più adeguato verso un fenomeno sfaccettato e complesso come quello della violenza di genere appare quello “ecologico”. «Se è vero che apprendiamo il modo di relazionarci con l’altro dalla relazione più prossima, quella con i genitori, è altrettanto vero che, secondo il modello “ecologico” dello sviluppo, l’evoluzione comprende cerchi concentrici dei vari ambiti di appartenenza, dal più piccolo come la famiglia a quelli via via più grandi come la scuola, la parrocchia, il quartiere, la società, dove si instaurano diversi tipi di relazione. Nei vari ambiti ogni individuo può imparare ad abbandonare le impalcature relazionali offerte dal nucleo originario per individuarsi».
È sicuramente fondamentale che la scuola si faccia capofila. L’Italia in questo senso è molto indietro, considerando che è tra i sette paesi europei in cui l’educazione sessuale non è obbligatoria, assieme a Romania, Bulgaria, Ungheria, Cipro, Polonia e Lituania; mentre il 44% dei ragazzi si avvicina al sesso attraverso la pornografia.
Ma la scuola da sola non basta. «È necessario stabilire un patto educativo – ha concluso Simonetto – in cui scuola, associazioni sportive, enti locali, parrocchie si sentano coinvolte e diano il loro contributo, accettando la sfida e sentendo l’urgenza di farsi testimoni di relazioni sane».
Educare al conflitto come capacità di stare nella relazione
Le dinamiche di potere che si sviluppano nei processi di formazione sono regolate dalla dialettica fra codice materno (che sovrintende all’accudimento e tutela la simbiosi) e codice paterno (riguarda le regole e favorisce il processo di individuazione). Il rischio, se uno dei due prevale, è di scivolare nell’iper-cura o nell’autoritarismo.
«Se, nell’8-900, la famiglia era “normativa”, di stampo patriarcale, – ha spiegato Davide Lago, pedagogista e docente all’Istituto superiore di Scienze religiose di Vicenza – oggi prevale la famiglia “affettiva”, con bambini in carico totale a genitori e nonni e delega educativa a scuola, servizi educativi, oratorio, gruppi sportivi. Un terzo modello – citando il pedagogista Daniele Novara – è dato dalla famiglia “educativa”, con regole e rituali che permettono al bambino di recuperare momenti di socializzazione e spazi di libertà infantile».
Oggi, nell’immaginario comune coesistono un insieme di parole che tendono ad acquisire lo stesso significato: confitto, litigio, guerra, violenza, bullismo, aggressività, prepotenza… Ma non sono la stessa cosa. In particolare, occorre distinguere conflitto da violenza.
La violenza danneggia intenzionalmente l’avversario, portando un danno irreversibile fisico e psicologico; risolve il problema eliminando chi porta il problema stesso: la soluzione, semplificante e unilaterale, è l’eliminazione della relazione.
Il conflitto, invece, è contrasto, contrarietà, divergenza, opposizione, resistenza critica ma senza danno irreversibile; affronta il problema mantenendo il rapporto, la relazione possibile, anche se faticosa e problematica. «La violenza è l’incapacità di stare nel conflitto e di sperimentarlo come elemento che fonda la relazione – ha spiegato Lago, citando ancora Novara –.
È, quindi, la relazione e non la bontà, come nel senso comune si è spesso portati a credere, la misura discriminante tra confitto e violenza. La fatica del conflitto è una condizione imprescindibile per mantenere buone relazioni ed è quindi fondamentale educare alla gestione dei conflitti, imparare ad accettarli e ad abitarli senza che questi sconfinino nel desiderio di annientamento dell’altro».
Lei sostiene che l’educazione sessuale a scuola “aiuti la gente a capire che certi comportamenti sono violenze sessuali”. Se fosse vero quanto lei scrive l’educazione sessuale aiuterebbe a denunciare circa 10 (fino a 20 e più) volte tanto le violenze. Anche in questo scenario (difficile da sostenere, figuriamoci da credere) si avrebbe che i paesi ora “arretrati” si allinerebbero a Svezia e Francia dove c’è già l’educazione sessuale a scuola. Non mi ha convinto.
Sicuramente in quei paesi c’è anche l’impatto dell’immigrazione che fa aumentare i casi, però come dice la fonte dei dati
It should be borne in mind that the figures do not necessarily reflect the actual number of violent sexual crimes. Rather they show to what extent such crimes are reported to and recorded by police. Therefore the variation between countries is also influenced by general awareness and attitudes to sexual violence offences.
https://ec.europa.eu/eurostat/web/products-eurostat-news/-/EDN-20171123-1#:~:text=About%20215%20000%20violent%20sexual,crimes%20were%20male%20(99%25)
Comunque non è tanto incredibile che la pressione sociale scoraggi dal denunciare: succede in molti casi, vedi lo scandalo della Grace Community Church
Ho provato a recuperare dati inerenti a questo tema da un articolo di skytg24 del 24 Novembre 2023. Vi si trova la classifica delle violenze sessuali per 100.000 abitanti. Ebbene, i paesi citati nell’articolo come “molto indietro” (in quanto privi di educazione sensuale) hanno i seguenti piazzamenti: Romania 23esima, Italia 25esima, Polonia 27esima, Bulgaria 28esima, Cipro 29esima, Lituania 31esima ed Ungheria 32esima. Stando ai dati, dunque, si può tranquillamente sostenere che l’educazione sessuale a scuola non concorre a diminuire il fenomeno delle violenze sessuali ma, semmai, concorre ad alimentarlo. Altro dato “interessante” è che, in Italia, il 40% delle violenze è commesso da stranieri. Stranieri che sono l’8,6% della popolazione. Come leggere questo dato “scomodo” per molti?
oppure semplicemente l’educazione sessuale aiuta la gente a capire che certi comportamenti sono violenze sessuali e sono inaccettabili. questo poi aumenta la disapprovazione sociale verso i perpetratori e li scoraggia nel compiere le loro opere perverse
in altri posti invece vengono tollerati e le vittime che denunciano quello che subiscono vengono criticate dalla comunità
un esempio a caso: in molti paesi dell’Est Europa e nel Belgio circa la metà della popolazione considera lo stupro accettabile in certi casi
fonte: https://publications.europa.eu/resource/cellar/f60437fd-e9db-11e6-ad7c-01aa75ed71a1.0001.01/DOC_1 (pagina 65)
https://www.statista.com/chart/6999/many-europeans-consider-rape-acceptable/
I commenti ( tutti maschili) contro le persone LGBT che si leggono su questo sito dicono chiaramente che il cristiano non è abituato a gestire la diversità. Non la vuole e se potesse la eliminerebbe basandosi su 4 idee ereditate dalla tradizione. Della serie “si è sempre fatto così”. Vista questa grave difficoltà ad elaborare il nuovo, non è certo con questo tipo di fedeli che la chiesa imparerà ad ‘amare le donne” e inserirle sapientemente nella vita ecclesiale per la prosperità della chiesa stessa.