Reddito di cittadinanza: un bilancio

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Il 31 luglio è iniziato il percorso che, in cinque mesi, porterà all’abolizione del Reddito di cittadinanza, secondo quanto previsto dalla legge di bilancio per il 2023 e dal decreto Lavoro del 4 maggio scorso, convertito in legge, con modificazioni, il 3 luglio 2023 (legge n. 85/2023): il 31 luglio, infatti, hanno perso il diritto a ricevere la misura i nuclei familiari in cui non vi siano minori, disabili, persone con almeno 60 anni o persone che si trovino in condizioni di svantaggio e siano inserite in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali.

I componenti di questi nuclei, di età compresa tra 18 e 59 anni privi di disabilità e con un ISEE non superiore a 6 mila euro annui, potranno tuttavia richiedere a partire da settembre il Supporto per la formazione e il lavoro, un trasferimento in somma fissa di 350 euro al mese destinato al singolo individuo che partecipi a misure di attivazione lavorativa (tra cui il servizio civile universale e i progetti utili alla collettività), della durata di non più di 12 mesi e non rinnovabile.

A gennaio 2024 il Reddito di cittadinanza cesserà anche per i nuclei con minori, disabili, anziani o persone inserite in programmi dei servizi sociali, per essere sostituito dall’Assegno di inclusione, la misura espressamente prevista a questo scopo dal governo Meloni.

Il Supporto per la formazione e il lavoro potrà essere richiesto anche dai componenti dei nuclei che percepiscono l’Assegno di inclusione, purché partecipino alle misure di attivazione e non siano conteggiati nella scala di equivalenza applicata per stabilire se si ha diritto all’Assegno di inclusione e calcolarne l’importo.

Può essere utile, ora che comincia a calare il sipario sul Reddito di cittadinanza, cercare di tracciare un primo e parziale bilancio di una misura introdotta solo quattro anni fa e che ha suscitato molte speranze e continue polemiche.

La fretta cattiva consigliera

Le possibili domande sono tante: ha raggiunto i suoi obiettivi? In tutto o in parte? Cosa non ha funzionato e cosa invece è andato bene? Quali lezioni si possono trarre dall’esperienza per migliorare le politiche contro la povertà? Queste lezioni sono state recepite dalle nuove misure?

Per le risorse finanziarie messe in campo, il Rdc ha rappresentato un’autentica rivoluzione nel campo del contrasto alla povertà, colmando un ritardo storico dell’Italia rispetto ai grandi paesi europei. Avrebbe però avuto bisogno di una partenza più lenta, rafforzando il già esistente, ancorché sotto-finanziato, Reddito di inclusione, la prima misura nazionale di reddito minimo realizzata in Italia.

La fretta con cui è stato introdotto il Rdc ha creato molti problemi. In particolare, l’accesso al trasferimento monetario è stato subordinato solo al rispetto dei requisiti formali previsti dalla legge. Dopo aver presentato la domanda online all’INPS, mese dopo mese molti beneficiari hanno ricevuto il sussidio senza avere alcuna interazione con i servizi sociali o i centri per l’impiego. Entro 30 giorni dal riconoscimento del Rdc, infatti, i centri per l’impiego o i servizi sociali comunali avrebbero dovuto convocare i beneficiari, ma in molti casi la presa in carico non è avvenuta.

Il nuovo Assegno di inclusione, attivo da gennaio 2024, prevede invece la sottoscrizione immediata di un «patto di attivazione digitale», e poi l’obbligo di presentarsi entro quattro mesi per un primo appuntamento presso i servizi sociali (e in seguito ogni 90 giorni), che valutano la condizione della famiglia. Vedremo se il nuovo schema darà risultati migliori o resterà sulla carta.

La fretta di introdurre il Rdc ha inoltre reso difficile adeguare le strutture dei servizi pubblici per il lavoro alla crescita del numero dei soggetti coinvolti. Troppo facile, poi, dare la colpa alle regioni se le politiche attive non hanno funzionato.

Due obiettivi molto diversi fra loro

Il Rdc è stato funestato fin dai primi giorni da critiche e polemiche anche perché i suoi proponenti gli hanno attribuito due obiettivi molto diversi: non solo contrastare la povertà, ma anche favorire l’occupazione. L’ambiguità (politica contro la povertà o politica per il lavoro?) non ha aiutato il dibattito e ha indebolito il sostegno alla misura.

I risultati sono stati apprezzabili sul primo versante, quello della lotta alla povertà, in particolare quella assoluta. Anche al netto del fatto che la metodologia applicata dall’Istat per stimare la povertà assoluta segue regole diverse da quelle che definiscono il diritto a ricevere il Rdc (e questo in larga parte spiega perché la misura intercetti non più della metà dei poveri assoluti), tutte le analisi empiriche confermano che le condizioni economiche delle famiglie povere sono migliorate e la povertà è diminuita (soprattutto la sua intensità, ossia la distanza esistente tra la spesa per consumi del povero e la soglia di povertà, più che il numero dei poveri), anche se certamente non è stata abolita, come ingenuamente si giunse a dichiarare dal balcone di Palazzo Chigi.

Nel 2022, anno di forte ripresa, il numero di persone beneficiarie di almeno una mensilità del Rdc è diminuito significativamente rispetto al 2021 (-7 per cento), confermando che la povertà assoluta diminuisce quando l’economia cresce e che non è vero che i poveri preferiscono il divano al lavoro. Il Rdc ha anche avuto un effetto perequativo sull’intera distribuzione dei redditi familiari equivalenti, la cui diseguaglianza si è ridotta di circa un punto percentuale assoluto grazie alla misura.

I risultati sono stati pessimi, invece, sul secondo obiettivo – la ricerca del lavoro – a causa di tre fattori: il periodo economico molto negativo, in parte dominato dai lockdown, la scarsa efficacia dei servizi pubblici di accompagnamento al lavoro e, infine, la forte concentrazione dei beneficiari in alcune regioni del Sud, dove la domanda di lavoro da parte delle imprese è molto debole, e tale è rimasta anche durante la ripresa post-Covid.

Il Rdc ha anche importanti difetti strutturali. Ad esempio, non è andato a molte famiglie straniere a causa del requisito dei dieci anni di residenza in Italia (di cui gli ultimi 2 continuativi), la sua scala di equivalenza è molto piatta e penalizza quindi le famiglie numerose (ancora, spesso straniere), ha importi identici per tutto il territorio nazionale, con il rischio di risultare troppo basso nelle zone ad alto costo della vita e troppo generoso, e quindi distorsivo, in quelle periferiche e arretrate e, infine, non fornisce sufficienti incentivi a intraprendere un lavoro che non sia in nero.

Le nuove misure previste dal governo Meloni intervengono solo su due di questi punti: il requisito di residenza, portato da 10 a 5 anni (una riduzione in verità obbligata, considerata la procedura d’infrazione avviata nel febbraio 2023 dalla Commissione europea contro il nostro paese, perché il requisito dei 10 anni non è in linea con il diritto comunitario) e il disincentivo all’offerta di lavoro regolare, essendo prevista una franchigia di 3 mila euro nel caso di avvio di un’attività di lavoro dipendente durante l’erogazione dell’Assegno di inclusione).

In generale, poi, non sembrano mosse dall’intenzione di migliorare il disegno dello schema contro la povertà sulla base dell’esperienza accumulata. Secondo stime della Banca d’Italia, ad esempio, il numero di famiglie straniere potenziali beneficiarie dell’Assegno di inclusione diminuirebbe rispetto al Rdc, a causa soprattutto della minore soglia di reddito per chi vive in locazione.

Senza una misura universale contro la povertà

Per anni si è detto che l’Italia era l’unico grande paese europeo privo di un trasferimento universale contro la povertà. Dopo appena 5 anni (se si considera anche la breve ma innovativa esperienza del Reddito di inclusione, terminata nella primavera del 2019) torniamo a non averlo: questo è l’esito più grave della riforma.

Nella conversione in legge del decreto Lavoro, il governo ha aggiunto, ai casi che danno diritto all’Assegno di inclusione anche quello di persone in condizioni di svantaggio e inserite in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali, una sorta di «clausola di salvaguardia» che dovrebbe permettere di continuare ad aiutare economicamente chi è in difficoltà e non è minore, anziano o disabile.

Vedremo come questa ulteriore casistica sarà considerata nella pratica. Per il momento, appare come l’ammissione che ci sono tante persone che non ce la fanno da sole e che un paese civile deve aiutare indipendentemente dall’anagrafe o dallo stato di salute: questo riconoscimento è forse il lascito più importante del Rdc.

Pubblicato sul sito di informazione economica www.lavoce.info il 1° agosto 2023. Massimo Baldini è docente di Politica Economica presso il Dipartimento di Economia «Marco Biagi» dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Stefano Toso è docente nella Scuola di Economia, Management e Statistica dell’Università di Bologna, dove insegna Scienza delle finanze.

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