Padre Claus Pfuff è il nuovo direttore del “Servizio per i rifugiati”, della Compagnia di Gesù per la Germania. In un contributo a katholisch.de, del 20 giugno, ha lamentato l’imbarbarimento del linguaggio riguardante i profughi che si è instaurato da un po’ di tempo anche in Germania.
Ho trascorso l’anno passato all’estero. Avevo lasciato la Germania come un paese ammirato in tutto il mondo per la sua cultura di accoglienza e che si compiaceva per la sua umanità. Ma il clima delle discussioni è cambiato.
Dopo il mio ritorno, mi spaventa la freddezza con cui si parla della sorte delle persone in fuga. Alcuni paragoni umiliano la loro dignità ed evocano un senso di minaccia – quando per esempio i profughi sono equiparati alle catastrofi della natura. Altri minimizzano le sofferenze della loro fuga.
Purtroppo, ci sono anche esponenti di primo piano dei partiti cristiani, che fanno degli slogan estremisti una componente quotidiana del nostro linguaggio. Ma un linguaggio che soffoca la nostra compassione nasconde dei pericoli per l’intera società,
Anche se i richiedenti asilo e i profughi riconosciuti come tali costituiscono solo il 2% della popolazione, tutta l’attenzione è rivolta a difendersi da loro e a criminalizzarli. Dei 68,5 milioni di persone in fuga in tutto il mondo, nello scorso anno meno, di 200 mila sono venuti in Germania – un numero ridotto per un paese così grande ed economicamente forte.
Ancora minore è il numero di coloro attorno a cui gira la disputa tra CSU e CDU: secondo i dati del governo federale, nel 2017, ai confini tedeschi le domande di asilo sono state 15.414.
Una minoranza radicale determina il clima politico
Non riesco a capire come qualche migliaio di richiedenti asilo servano da pretesto per una crisi di governo. Infatti, se un ministro degli interni costringe il governo far dipendere tutto da questo unico tema, la situazione politica va fuori controllo. In questo modo la politica sembra non avere altri compiti – parliamo di alloggi, istruzione, sicurezza pensionistica, salute, digitalizzazione e cambiamento climatico. Ma se il nazionalismo e una presunta identità unitaria, per la quale è strumentalizzata persino la croce, deve essere la risposta ai problemi del nostro tempo: allora ci incamminiamo su un sentiero scosceso. Anche perché è preoccupante che il sentimento della compassione scompaia dal dibattito pubblico.
Il patrimonio di empatia fa parte dell’essere umano: noi soffriamo quando vediamo gli altri nel bisogno, e desideriamo andare loro in aiuto. Ne abbiamo già fatto l’esperienza nell’autunno del 2015, e oggi l’impegno del volontariato nel campo dei profughi è enorme. Tuttavia, invece di favorire questa disponibilità, a decidere il clima politico è una minoranza radicale. I loro slogan entrano nella nostra vita quotidiana: sono parole che negano i bisogni esistenziali, criminalizzano degli innocenti e giustificano la durezza di cuore. Questo linguaggio coopera a far sì che il prossimo non sia più percepito come un nostro pari, ma tutto viene messo in un cassetto ed etichettato con pregiudizi minacciosi.
“Immigrazione illegale” è una di queste parole volutamente dure. Infatti, che cosa dovrebbe significare ciò in un tempo in cui non esistono più vie percorribili per le persone che sono in fuga? Anche l’etichetta “centri di ancoraggio” progettati come alloggiamenti di massa per richiedenti asilo è altrettanto fuorviante: l’àncora – simbolo cristiano di speranza – promette affidabilità e sicurezza. In realtà, questi centri di raccolta sono una beffa. I richiedenti asilo vengono isolati e anche il contatto con l’ambiente è reso difficile, così come l’accesso ai centri autonomi di consulenza.
Da alcuni giorni la parola – o meglio la non-parola – “asilo turistico” dalle pagine-marron dell’internet è entrata nel telegiornale. Nessuno ha contestato, nessuno ha commentato. Purtroppo anche questa volta è stato un politico del partito cristiano ad avanzare questo linguaggio manipolatore. Le persone che rischiano la loro vita per salvarsi, perché l’Europa continua ad essere sempre più preclusa, non sono dei vacanzieri. Anche in Europa per molti l’incubo non è ancora finito.
Il Servizio dei gesuiti per i rifugiati sostiene molti centri di asilo della Chiesa che riguardano i rimpatri all’interno dell’Europa. Una donna nera sola fu costretta alla prostituzione in Italia. Un yazidi dell’Iraq, sfuggito ai massacri dell’Isis, è fuggito verso i parenti che da molto tempo abitano a Monaco. In Bulgaria, uno studente della Siria è stato maltrattato e torturato. In Grecia, un artigiano africano ha sofferto la violenza, la fame e la mancanza di alloggio. Salvarsi da queste situazioni non è “turismo”. È fuga. Coloro che non si lasciano ingannare dal chiasso e dalle vuote parole delle campagne elettorali, ma guardano alla singola persona, vedono il bisogno e agiscono di conseguenza.
Un ulteriore deragliamento verbale degli ultimi tempi: “l’industria anti respingimenti”. È pericoloso quando un rappresentante della nostra democrazia mina un pilastro del nostro stato di diritto: la possibilità che un tribunale riveda l’operato delle autorità. In realtà, non esiste un’“industria” del genere, ma singoli avvocati impegnati o luoghi di consulenza che spesso con passione e poco denaro cercano di aiutare i richiedenti asilo nel loro diritto.
Anche il Servizio per i rifugiati dei gesuiti con il suo fondo di assistenza e la consulenza legale aiuta a far rivedere in tribunale le decisioni, spesso con successo. Ciò fa parte della nostra convinzione, che fede e giustizia devono camminare insieme.
Sul piano nazionale, nel 2017, sono state corrette dai tribunali amministrativi a favore dei richiedenti asilo 31.000 decisioni sbagliate. Ciò significa: decisioni sbagliate a carico di 31.000 persone di cui spesso era in gioco la vita! Questa notizia però non ha avuto nessun grande titolo nei media.
Siamo diventati indifferenti. Le vittime di questo abbrutimento non sono soltanto le persone in fuga. Infatti, questa mancanza di solidarietà non si ferma soltanto a un singolo gruppo di emarginati. Ha degli effetti sull’intera società. Oggi colpisce soprattutto i richiedenti asilo e le persone di fede musulmana o ritenute tali. Domani o dopodomani questa esclusione e mancanza di empatia può riguardare anche chiunque altro.
Percepire il prossimo nella sua unicità
Anziché fare della croce un simbolo di esclusione imposto dallo Stato, il riferimento all’esempio di Cristo può invece significare: avere davanti allo sguardo ogni singola persona e non lasciarsi guidare da chiusure e preconcetti. Invece di lasciaci abbagliare dalle parole, possiamo volgerci al nostro prossimo per riconoscerlo nella sua unicità – con le sue forze, esperienze, debolezze e possibilità.
So questo per esperienza: l’incontro con le persone cambia il mio modo di pensare, i sentimenti e, alla fine, anche il mio linguaggio nei suoi riguardi. Il modo di parlare può, al contrario, facilitare anche l’incontro: parlare «con calma, con attenzione e con amore» ha raccomandato ai suoi compagni, nel secolo 16°, il fondatore dell’ordine, Ignazio di Loyola, per le discussioni di politica ecclesiastica. Questa triplice raccomandazione porterebbe i suoi benefici anche nei tempi di internet e della campagna elettorale. Se i cristiani scegliessero più spesso di parlare “con calma, con attenzione e con amore”, allora anche la società potrebbe diventare più accogliente e vivibile.