È facile convenire sul fatto che l’aspetto più importante dell’attentato alla vita di Salman Rushdie sia il suo fallimento e che lui – il simbolo universale della lotta per la libertà di pensiero e di parola – sia vivo. È facile convenire sull’augurio che non perda la vista da un occhio e si riprenda al meglio: in queste ore ancora temiamo.
Salman Rushdie ormai non vive solo per sé stesso, ma vive per tutto il mondo libero, che vuole restarlo o divenirlo.
Isteria
Mi ha colpito – leggendo le molte reazioni all’attentato – apprendere che Rushdie aveva rilasciato un’intervista a Christophe Ono-dit-Biot, apparsa su Le Point, nella quale aveva detto che «oggi le parole sono diventate bombe». Dalle pietre del tempo di Gesù siamo alle bombe contemporanee. Se ne parla da secoli, senza che l’umanità abbia trovato ancora la capacità di usare al meglio queste parole: per capire, per capirsi. Questo resta il punto del tutto contemporaneo, per noi tutti, ancora.
Salman Rushdie rappresenta per noi l’uomo che usa la parola, perché sente il diritto di farlo liberamente per conto dell’umanità. Non è forse un fatto rilevante anche per noi? Lui ha evidentemente capito qualcosa – nei nostri anni – che anche noi abbiamo ancora qualche difficoltà a capire e ad accettare?
Questo maestro universale di libertà ha sentito il dovere di avvertirci. Ci sono nuove, angosciose, minacce sulla la libertà di pensiero e di parola nel mondo contemporaneo. La sua affermazione appare deduttiva, posto che, nella intervista a cui ho fatto cenno, ha aggiunto: «Dopo Google l’isteria si è diffusa elettronicamente».
La parola decisiva mi sembra isteria. Penso allora a questo attentato. La fatwa dell’ayatollah Khomeini, risale – con tutta evidenza – a un anno in cui l’attentatore non era nato. Nell’universo di questo ventiquattrenne, quindi, il dovere religioso di uccidere Rushdie – dettato da Khomeini, morto e sepolto da anni –, com’è entrato?
Sciismo
Bisogna stare molto attenti ad usare – ora – la parola sciiti: Khomeini non è lo sciismo, tutt’altro! Dobbiamo altresì avere un’idea ben precisa della rivoluzione iraniana per capire cosa volesse dire il suo ideologo, Ali Shariati, quando parlò di sciismo rosso contro sciismo nero.
Lo sciismo è la religione del sangue dei martiri, delle vittime, degli esclusi, diceva Shariati: non di chi vuol fare martiri gli altri. La riprova migliore la offrì nel suo racconto sul padre di tutti i martiri sciiti, l’imam Hussein, punto di riferimento culturale e religioso dello sciismo dalle sue origini, tanti secoli fa.
Diceva Ali Shariati ai giovani rivoluzionari iraniani, che lo ascoltavano rapiti: i nemici del vero Islam si erano impossessati dell’Islam e Hussein partì ugualmente verso La Mecca, per sfidarli. Era lui il vero erede di Maometto, non poteva starsene a casa mentre l’Islam veniva deviato. Ma partì soltanto con la sua vita: per la vita, non per la morte, né la sua, né quella dei nemici. Il compito che sentiva era dare testimonianza. E infatti partì disarmato, senza uomini in armi con sé. Non si arrese agli usurpatori, andò a dare testimonianza del vero Islam.
Cosa è rimasto nelle reti social di oggi di una figura come Shariati, autentica fiamma che ha fatto ardere l’Iran e i suoi ventiquattrenni di allora? E che cosa permane del golpe nero di Khomeini, se un ventiquattrenne odierno va a tentare di uccidere Salman Rushdie, bandiera globale della libertà di pensare, parlare e scrivere?
La fatwa del 1989
Cosa soffia nelle reti social di oggi, chi le alimenta? Come mai quasi tutti ignoravamo che la fatwa contro Rushdie è stata ribadita dall’ayatollah Ali Khamenei nel 2005 e poi ancora nel 2017 e nel 2019, via Twitter? Chi ci sa dire di più sul perché Khomeini emise la sua fatwa contro l’autore del celebre libro Versetti Satanici, titolo inspiegabilmente tradotto in italiano con «Versi satanici»?
Khomeini la firmò il 14 febbraio del 1989. Una data casuale? No! Basta, appunto, usare Google: il 15 febbraio del 1989 l’armata rossa avrebbe completato il suo ritiro dall’Afghanistan. Doveva essere il giorno del trionfo dei mujaheddin afghani, dell’opposta confessione musulmana – sunnita – armata allora dagli americani. Quel giorno avrebbe segnato il loro trionfo globale. Il fondamentalismo islamico sarebbe caduto nelle loro mani.
Ma quel giorno divenne il giorno del loro peggior nemico: con una semplice fatwa – una sentenza religiosa che non richiede eserciti, lotte armate di anni, vittorie militari – Khomeini si impossessò della vittoria sui suoi avversari, perché l’eversione globale doveva essere nelle sue mani, non nelle loro.
La sfida insurrezionale globale era iniziata e doveva aver sede in Iran, non in Afghanistan, tra i mujaheddin. La lettura esposta è documentata da Gilles Kepel in tanti suoi saggi: è nota, ma per lo più trascurata.
Avvicinare l’Apocalisse
La sfida globale dell’ayatollah Khomeini è stata rinnovata dall’ayatollah Khamanei, nel silenzio distratto ormai di tanti, confermando in Rushdie il simbolo della libertà sacrilega – da uccidere – perché il pensiero apocalittico non può tollerare le parole che spiegano una storia che evolve, ma è solo capace di eternizzare i conflitti.
Il suo modello è l’orda. È un’orda apocalittica quella che deve diffondersi, da allora ad oggi. Appartengono al pensiero apocalittico tanto Khomeini quanto Khamenei e il leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah. Il tempo nella loro visione non comporta sviluppi, mutamenti, progressi, bensì rotture, urti eterni che le parole non possono modificare.
L’urto finale – ne sono convinti i signori di ogni scuola apocalittica – si avvicina e il compito è avvicinare la fine sempre più. Perciò non cercano di risolvere i conflitti, ma di aggravarli, per avvicinare l’Ora, il momento della fine del mondo e della certa vittoria finale contro l’Anticristo: che ovviamente è in primo luogo l’Occidente.
Ecco perché, a mio avviso, il gesto di un ventiquattrenne che non sa nulla del 1989, di Kabul ecc., ci vuol dire che l’Apocalisse è vicina: l’urto si aggrava e ciascun adepto ha il compito di aggravarlo.
Servizi ottimi! Complimenti vivissimi.