Chissà come si sentirà – ovunque sia morto – Ambrose Bierce. Un secolo fa, nel suo Dizionario del diavolo, aveva definito la società commerciale [corporation] un «ingegnoso dispositivo per ottenere profitti individuali senza responsabilità individuali». E invece il giovane Mark Zuckerberg si batte il petto di fronte al Congresso USA e promette di vigilare di più. È stata colpa mia, dice: non mettete in discussione il modello, ma solo me.
Primo bilancio
Il problema degli «scandali» digitali di queste settimane è qui: l’ammissione di responsabilità rivela un cambio di rotta oppure è solo un modo – ancora più ingegnoso – di salvaguardare gli enormi profitti individuali? Gigio Rancilio, nel suo bell’editoriale su Avvenire (20.3.2018), sottolineava che la questione è politica, in modo simile a quanto scritto anche da altri commentatori: Evgeny Morozov su The Guardian, giusto per fare un esempio, ha affermato che lo scandalo Facebook non deve farci dimenticare anche il Datagate cominciato con le rivelazioni di Edward Snowden.
Un primo bilancio della situazione ci porta a due considerazioni abbastanza ovvie. La prima: ogni interazione su Internet – in special modo quelle dei social networks – sfrutta capitale umano e sociale accumulato prima di Internet. Le relazioni costruite in secoli di pratiche familiari, sociali e politiche vengono digitalizzate gratis (?) dalle corporation, che nel frattempo incamerano preziosi dati da utilizzare o vendere a proprio piacimento (ah, ecco perché lo fanno «gratis»). Lo stesso viene fatto da vari governi in giro per il mondo. Chi pensa che l’Europa, con i suoi (deboli) tentativi di salvaguardare uno stato sociale appena equo, sia da considerare la norma o il nemico, dovrebbe guardare il resto del mondo. Russia, Cina, USA sono mercati digitali dominati da società enormi, che condividono la spinta al tecnocontrollo con i rispettivi governi. Le grandi società (Facebook, Apple, Google/Alphabet, Amazon, Microsoft, a cui aggiungere la cinese Alibaba) controllano mercati che nemmeno i più sfrenati capitalisti dell’epoca di Bierce potevano sognare. E altre – come Cisco, che possiede oltre il 50 per cento del mercato mondiale delle infrastrutture di rete – sono invisibili ai più.
Senza alternative
La seconda considerazione è questa: ciò che gli scandali rivelano non sono episodi di mala gestione, ma semplicemente il modo in cui il mondo è andato avanti negli ultimi vent’anni. Siamo ancora fermi a un modo di pensare ottocentesco, bloccato nel dilemma tra lo slancio romantico dell’individuo e la fredda logica dei numeri che tutto misurano. Ma il giovane Zuckerberg fa saltare il dilemma: si assume, con un bel gesto, tutta la responsabilità – «ci mette la faccia», come direbbero alcuni nostri politici rampanti – tacendo che per cambiare un modello di business votato allo sfruttamento delle nostre identità digitali ci vorranno anni e serie alternative.
Se si pensa che Amazon e Alibaba investono rispettivamente 15 e 10 miliardi di dollari l’anno in ricerca e sviluppo (soprattutto sul versante dell’intelligenza artificiale), dobbiamo renderci conto che nessuno – neanche le micropiattaforme di discussione politica in voga in Paesi di provincia come il nostro – ha in mano un modello diverso.
E invece qui occorre prevedere soluzioni diversificate, che partano dalla tutela delle identità digitali dei cittadini e permettano modi diversi di interagire con i dati: soluzioni sia private sia pubbliche, che incoraggino l’interoperabilità e scoraggino invece i monopoli dei walled gardens, dei giardini chiusi in cui ciascuna corporation prova a rinchiuderci.
Morale della favola
La morale più radicale riguarda noi e le nostre istituzioni. Se a livello individuale pesa – come ricordava Gigio Rancilio – la ridicola illusione che «non ho nulla da nascondere», a livello istituzionale e culturale occorre rilevare una sostanziale ubriacatura che nasconde la natura del mondo digitale.
Si continua a vedere questo mondo come una somma di strumenti di comunicazione sociale, come un universo mediatico, ma il mondo digitale è per l’appunto un mondo, è parte del reale tanto quanto le case, le strade, gli stadi ecc. Leggere la rivoluzione digitale come la continuazione del telefono, della radio e della tv significa non aver capito in che mondo viviamo (e anche la Chiesa dovrebbe finalmente provare a capirlo). Se crediamo che il mondo digitale sia uno strumento di cui possiamo servirci a nostro piacimento, abbiamo la stessa romantica illusione di quanti, due secoli fa, sognavano di sottomettere tutta la realtà al governo della tecnica (potrebbe giovare una rilettura di Jules Verne).
Il mondo digitale sta cambiando radicalmente la nostra vita, sta mutando la realtà in cui viviamo. E lo fa in tempo reale: anche il nostro modello del tempo, legato a una logica moderna, risulta sempre meno adeguato a capire che cosa sta succedendo. Non è un caso – mi sia consentito un sussulto di orgoglio – che i filosofi, spesso considerati gente fuori moda e fuori tempo, siano tra i pochi intellettuali a riflettere sulla portata di questo cambiamento: Luciano Floridi o Byung-Chul Han hanno da dire qualcosa di più di quanti ripetono variazioni sul tema del villaggio globale. Se abbiamo bisogno di giornalisti per avere e capire le notizie, non possiamo fare a meno dei filosofi e dei loro bislacchi tentativi di capire la realtà: un gioco cominciato tremila anni fa, quando ancora non c’erano nemmeno carta e penna.
Roberto Presilla è docente di Filosofia contemporanea presso la Pontificia Università Gregoriana e coordina il Centro Universitario Cattolico. Si occupa di questioni legate al significato e alla formazione della mentalità. Tra le sue pubblicazioni: Significato e conoscenza. Un percorso di filosofia analitica (2012). È membro della redazione della rivista dell’Università cattolica Vita e Pensiero. L’articolo che qui riprendiamo è apparsosu VPplus il 13 aprile 2018.