Suicidi in carcere: storie lontane, molto vicine

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Tra vacanze, tempi di sosta e relax, la notizia di due donne e un uomo che si uccidono in carcere nel giro di due giorni, alle soglie del ferragosto, non possono essere “passate” tra i tanti fatti di cronaca: meritano attenzione, rispetto e preghiera.

Non conoscevo le due donne Azzurra, 28 anni, e Susan, di 42, di origine nigeriana, ma la notizia ascoltata per la prima volta per radio venerdì sera ci ha toccati profondamente, soprattutto rattristati, e il pensiero si è incagliato in queste storie. Come se non bastasse, il giorno dopo si aggiunge la notizia del suicidio di Andrea, 44 anni, nel carcere di Rossano in provincia di Cosenza.

Storie che sembrano lontane perché tutto quello che è dietro le mura di un carcere ci sembra lontano, nascosto, che riguardi altri, non noi, non i nostri affetti. In realtà, è il riflesso di quanto sta accadendo nelle nostre città, nei nostri quartieri, e ci riguarda molto da vicino.

Se nella preghiera del Padre nostro diciamo «come in cielo così in terra», in questi anni di conoscenza del carcere abbiamo imparato a dire «come dentro così è fuori»; quanto avviene nelle nostre carceri è la dinamica amplificata dei processi sociali che si stanno generando e muovendo all’esterno.

Le storie

Torniamo con rispetto, per una memoria dignitosa, a ricordare queste persone.

Azzurra, di Imperia con una storia di dipendenza alle spalle, sfociata in un grave disagio psicologico che destava sempre più preoccupazione alla madre; anche le compagne di cella l’hanno descritta come una ragazza «difficile da trattare»: è il segno di un disagio di cui lei è solo la punta dell’iceberg.

Proprio in questi giorni, una giovane volontaria raccontava del suicidio di un altro 28enne, con una buona professione e formazione, un impegno anche nella vita religiosa a cui apparentemente non mancava nulla per essere felice e realizzato. Segni di un disagio diffuso, se ne parla da anni, ma soprattutto occasione di un rilievo: l’impotenza delle nostre comunità familiari, educative, formative, a innescare percorsi verso un’altra direzione: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

Non lo scriviamo per rassegnarci, ma per tornare a prendere sul serio, tra le varie realtà e agenzie educative, il senso di un vero e proprio sinodo, di un camminare insieme perché soltanto insieme si possono fare passi concreti che danno corpo al patto educativo globale a cui papa Francesco ci invita, come di recente nell’incontro a Lisbona con i giovani universitari:

«Vi invito a studiare il Patto educativo globale e ad appassionarvene. Uno dei punti che tratta è l’educazione all’accoglienza e all’inclusione. Non possiamo fingere di non aver sentito le parole di Gesù nel capitolo 25 di Matteo: “ero straniero e mi avete accolto” (v. 35). Ho seguito con emozione la testimonianza di Mahoor, quando ha evocato cosa significa vivere con “il sentimento costante di assenza di un focolare, della famiglia, degli amici […], di essere rimasta senza casa, senza università, senza soldi […], stanca, esausta e abbattuta dal dolore e dalle perdite”. Ci ha detto di aver ritrovato speranza perché qualcuno ha creduto nell’impatto trasformante della cultura dell’incontro. Ogni volta che qualcuno pratica un gesto di ospitalità, provoca una trasformazione».

Queste parole ci introducono al ricordo di Susan, 42 anni, nigeriana, una pena da scontare lunga, 10 anni, ma soprattutto il desiderio più grande per una madre: «Voglio vedere mio figlio». Nigeria, subito fa pensare al dramma della tratta di esseri umani, altra punta dell’iceberg di cui Susan rappresenta il dramma, l’essere vittima e carnefice allo stesso tempo di una piaga che segna bambine, giovani e donne nigeriane, come se questo fosse l’unico futuro possibile, l’unica via per uscire dalla disperazione, per poter realizzare il sogno di una vita migliore.

Quanta cura abbiamo nei confronti di questa piaga, di questo dramma che, come nel caso di Susan, è soltanto sorgente di processi che frenano e arrestano brutalmente la vita, la crescita?

Andrea di anni ne aveva 44, anche la sua vita segnata drammaticamente dal mondo della droga: ancora una volta a gridare che non è sicuramente questo uso e abuso ad aumentare la libertà di giovani o adulti che siano, ma drammaticamente troppe esistenze, troppe famiglie sono trascinate nel baratro di una spirale senza senso e senza futuro. Forse abbiamo abbassato la guardia e ancora ci si permette di parlare di «droghe leggere», o di «uso ricreativo», senza la minima consapevolezza di cosa stiamo parlando.

Il grido

Il grido di queste morti non può non diventare per tutti e tutte noi un appello a fermarsi e a prendere sul serio questo drammatico segnale, a interrogarci, a pregare e a discernere quali passi siamo chiamati e possiamo fare, perché la Vita diventi più contagiosa della morte, la Speranza della disperazione.

Ci piace concludere con le parole di papa Francesco, proprio al ritorno della GMG di Lisbona, pochi giorni fa: anche queste parole diventano un monito, l’indicazione di una direzione possibile da prendere.

«Oggi il suicidio giovanile è importante: è importante il numero. Ce ne sono. I media non lo dicono tanto, perché non vengono informati i media. Qui [a Lisbona] sono stato in dialogo – non nella confessione – con i giovani, perché ho approfittato per dialogare e un bravo ragazzo mi ha detto: “Posso farle una domanda? Cosa pensa del suicidio?”. Parlava non una nostra lingua, ma ho capito bene, e abbiamo cominciato a parlare del suicidio. E alla fine mi ha detto: “Grazie, perché l’anno scorso io ero indeciso se farlo o non farlo”. Tanti giovani angosciati, depressi, ma non solo psicologicamente… Poi, in alcuni Paesi che sono molto molto esigenti nell’università, i giovani che non riescono a ottenere la laurea o a trovare lavoro si suicidano, perché sentono una vergogna molto grande. Non dico che sia una cosa di tutti i giorni, ma è un problema. È un problema attuale. È una cosa che succede».

Azzurra, Susan, Andrea, la vostra memoria ci aiuti a scegliere sempre la Vita.

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