Il tema affidatomi è molto vasto e richiederebbe uno spazio maggiore per essere affrontato. Ho posto nelle note alcuni riferimenti bibliografici anche di mie precedenti riflessioni sull’argomento, compreso un contributo di prossima uscita: Scegliere una morte buona.[1]
Il tema del fine vita spesso viene affrontato solo nei suoi aspetti etici (la questione dell’eutanasia, ad esempio, o quella della sospensione dell’idratazione e della nutrizione artificiali), quasi che si trattasse di un problema da affrontare dal punto di vista teorico e non ci riguardasse ora, in prima persona.
La legge e le sue possibilità
È vero, come dice Epicuro, che della nostra morte noi non possiamo parlare perché, quando lei verrà, non ci saremo più noi, ma alla nostra morte possiamo prepararci. Questo può accadere, ad esempio, attraverso il volontariato per l’assistenza ai malati terminali (è solo stando vicini alla morte dell’altro che possiamo avere esperienza della nostra morte) e, prima ancora, prendendo sul serio le possibilità che la Legge 219 del 22 dicembre 2017, entrata in vigore in Italia il 31 gennaio 2018, ci mette a disposizione.
Questa legge si propone la tutela del “diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona” e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. È promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico.
Contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’équipe sanitaria. In tale relazione sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo.
Questi aspetti sono particolarmente importanti perché, rispetto a non molti anni fa la definizione di salute e il rapporto medico-paziente sono profondamente cambiati. Fino al 1948, la salute veniva definita come assenza di malattia; successivamente l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) la definì non solo come assenza di malattia, ma come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale.
Al di là di alcune osservazioni su questa definizione,[2] si è passati da una concezione paternalistica del rapporto medico-paziente ad un rapporto, talvolta, di autodecisione della persona malata sul tipo di cura desiderata. Il medico, in questo caso, viene considerato come un puro esecutore dei desideri del paziente, suscitati magari da articoli letti su internet.
In realtà, il malato, soprattutto nel momento di fine vita, deve poter sperimentare che il rapporto medico-paziente richiede di essere collocato all’interno di una possibilità di scelta, di un’assistenza competente, di una possibilità di comunicazione, non tiranneggiata dal tempo, dalla virtù della compassione, dalla garanzia della continuità di cura. Il rapporto medico-paziente deve, cioè passare dal curare al prendersi cura.[3]
Terapie: la giusta misura
In un’epoca, come l’attuale in cui la medicina sembra essere diventata onnipotente, occorre tener conto anche del rapporto tra benefici e danni della terapia.
Occorre essere attenti a non accanirsi terapeuticamente. Vi è poi il problema dei sintomi dolorosi e non dolorosi. Essi vanno eliminati con la messa in atto delle cure palliative.
Oggi abbiamo farmaci molto potenti contro il dolore, tuttavia, se non si riesce a raggiungere una sedazione adeguata, è possibile mettere in atto una sedazione palliativa continua profonda. Essa è stata regolamentata dalla legge sulle Dat (disposizioni anticipate di trattamento, in vigore dal 31 gennaio 2018, come precedentemente scritto), grazie alla quale il paziente può chiedere di essere sedato in maniera continua e di interrompere al tempo stesso ogni forma di terapia, compresa quella nutrizionale. Si ha così un’abolizione della sofferenza, una privazione dello stato di coscienza, pur mantenendo inalterate le capacità vitali, dalla respirazione autonoma, all’attività cardiaca.
Una parola va detta anche sulla sospensione della nutrizione e idratazione artificiali. Si tratta di interventi medici e, quindi, “qualora rappresentino interventi spropositati, la loro inclusione fra i trattamenti rifiutabili è corretta”.[4]
Per chi è cristiano, a me per prima, vorrei ricordare quanto Dio ci ha promesso: una vita nuova, per sempre, una vita che non sappiamo come sarà, ma di cui Egli ci ha detto che sarà nella gioia della Sua presenza. Ora siamo in un cammino, in cui siamo chiamati a giocare la nostra libertà, verso una meta desiderata: la vita con Dio.
Testamento biologico
Per prepararsi a una morte buona, potrebbe essere utile incominciare a pensarci quando siamo ancora nel pieno delle nostre forze e in grado di esprimere i nostri desiderata a riguardo, sapendo che possiamo cambiarli, se vogliamo. In moltissimi Paesi ciò è consentito da svariati anni, attraverso il testamento biologico o le disposizioni anticipate di trattamento. In Italia è possibile rivolgersi gratuitamente al proprio Comune.
Riguardo al problema del fine vita, occorrerebbe parlare anche dell’eutanasia e del suicidio assistito, ma lo spazio a mia disposizione è già esaurito. Vorrei solo aggiungere che col suicidio assistito si intende por fine alla vita, a differenza della sedazione palliativa con cui si vuole dare sollievo o togliere la sofferenza.
Nel suo documento Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito,[5] il Comitato nazionale di bioetica aveva insistito sulla loro differenza e sottolineato il ruolo delle cure palliative come alternativa alla scelta di percorsi eutanasici. In questo senso occorrerebbe sempre interrogarsi se la richiesta di suicidio assistito o di eutanasia sia veramente una richiesta di morte o non piuttosto l’esperienza che il malato sta facendo di un abbandono, di una solitudine, dell’incomunicabilità con gli altri che, per quanto vicini, rimangono comunque estranei o la paura di perdere tutto, di doversi separare da chi e da ciò a cui tutta la vita è stato attaccato.
Allora la soluzione non sembra essere quella di esaudire la richiesta di morte, ma quella di ridare una speranza alla vita che resta, rendendola presente anche attraverso coloro che stanno accanto al morente con affetto e solidarietà, anche sostenendolo e aiutandolo nelle necessità quotidiane.
[1] Per una riflessione più ampia su questo tema cf. il mio contributo di imminente Scegliere una morte buona, in G. De Vecchi-E. Borghi (cura di), Per vivere con se stessi e gli altri da esseri umani, Cittadella, Assisi (PG) 2024, pp. 65-81.
[2] A. Cargnel, Il concetto attuale del significato di salute, in E. Borghi-A. Cargnel-A. Bondolfi (a cura di), La cura dell’altro, in Cittadella, Assisi (PG) 2020, pp. 15-23.
[3] A. Cargnel, Dal guarire al prendersi cura e L’alleanza terapeutica, in ivi, pp. 121-132; 133-142.
[4] Gruppo di studio sulla bioetica, Custodire le relazioni: la posta in gioco delle DAT, in “Aggiornamenti sociali” 15 (6/2017).
[5] Comitato nazionale per la bioetica, Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, 16 luglio 2019.
Non mi piace l’idea che a dettare il desiderio di suicidio assistito e eutanasia sia sempre per forza il trovarsi il condizioni di solitudine o difficoltà. Vogliamo escludere invece che possa essere una scelta lucida e coerente di chi non vuole invece essere totalmente in balia di altri per quanto cari?
Intervistate in televisione le persone che hanno praticato il suicidio assistito in svizzera o che hanno lasciato scritti al riguardo mi sono sembrate lucidissime nel non accettare un decadimento senza speranza del proprio essere non solo fisico. Limitarsi a dire che lo avrebbero fatto per paura della solitudine non rende giustizia a queste persone.