Se la Repubblica ha parlato di una vera e propria “svolta” da parte di papa Francesco, il Foglio ha invece rassicurato i propri lettori affermando che il santo padre non è diventato radicale. Oggetto di così diverse interpretazioni è stato il messaggio che il papa ha indirizzato ai partecipanti al Meeting regionale europeo della World Medical Association sulle questioni del “fine-vita” riuniti in Vaticano il 16 e 17 novembre.
È evidente che ogni discorso del papa è passibile di letture divergenti e di forzature in senso politico, ma nel caso del tema del “fine-vita” il “conflitto delle interpretazioni” e il dibattito su che cosa le sue parole possano suggerire a livello di scelte politiche sono stati in effetti molto vivaci e contrapposti. Il punto, tuttavia, è che una corretta ermeneutica dei testi impone una lettura attenta delle parole del pontefice e un’analisi pacata del suo argomentare, il che non sempre è stato fornito nei commenti a caldo apparsi sui quotidiani e sui siti internet. Da una lettura più approfondita (e meno ideologica) mi pare emergano alcune linee principali del Messaggio del papa, che si possono riassumere in quattro punti.
Continuità dottrinale
Si deve rilevare anzitutto una perfetta continuità dottrinale nelle affermazioni del papa. Nemmeno l’interprete più critico del pontificato di Francesco potrebbe avere il minimo dubium a tal riguardo, dal momento che il papa si appoggia sul magistero di Pio XII nel suo discorso del 1957 ad anestesisti e rianimatori, a quello della Congregazione della dottrina della fede nella dichiarazione sull’eutanasia del 1980 e, infine, a quello del Catechismo della Chiesa cattolica di cui richiama la fondamentale distinzione fra eutanasia ed accanimento terapeutico.
Basta aprire il testo del nuovo Commento teologico-pastorale al Catechismo uscito il mese scorso in occasione del 25° di pubblicazione, per trovare queste parole a proposito dei numeri citati dal papa: «Dall’eutanasia va distinta la rinuncia all’accanimento terepeutico: la decisione di interrompere “procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate”, infatti, può essere perfettamente legittima. Infatti, “non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire” (CCC 2278). Rispetto alle cure da offrire al malato, il n. 2279 precisa: vanno sempre garantite le cure ordinarie; gli analgesici utilizzati per alleviare le sofferenze del paziente sono leciti anche se vi sia il rischio di abbreviare la vita (principio del duplice effetto); le cure palliative, che “costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata”, sono da incoraggiare» (S. Zamboni, Il quinto comandamento, in R. Fisichella (ed.), Catechismo della Chiesa Cattolica. Testo integrale. Commento teologico-pastorale, LEV-San Paolo, Città del Vaticano – Cinisello Balsamo 2017, 1382). Dunque, davvero nessuna presunta “svolta” nell’insegnamento magisteriale.
Attenzione al contesto odierno
Un aspetto interessante del Messaggio del papa è senz’altro la consapevolezza critica del contesto in cui si pone il tema del “fine-vita”. È la potenza terapeutica dell’odierna medicina a rendere possibile la stessa questione su come gestire e decidere in merito a problemi che in un passato anche non del tutto remoto neppure esistevano.
Se l’efficienza della cura è un innegabile progresso, d’altra parte, però, sono aumentati quei casi in cui «gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute».
Accanto a questo esito paradossale dell’aumentata capacità medica, sussistono poi altri aspetti assai problematici. Uno di essi è costituito dagli interessi economici sempre più grandi che ruotano attorno alla medicina e ai costi elevati dei trattamenti: si genera così una sempre maggiore «ineguaglianza terapeutica» che esiste non solo fra diversi contesti geografici ma all’interno degli stessi paesi ricchi e che determina una marcata disparità di accesso alle cure. È del tutto evidente che questi due aspetti – l’aumento esponenziale della potenza tecnoscientifica e l’incidenza massiccia del dato economico – entrano in gioco specialmente quando si tratta di decidere sull’opportunità o meno di cure a malati terminali.
La saggezza del discernimento
Il principio della distinzione fra eutanasia e accanimento terapeutico che il papa, in perfetta continuità dottrinale, ha richiamato deve necessariamente confrontarsi con il contesto appena descritto, in cui i fattori in gioco sono molteplici e complessi. Per questo è necessario un «supplemento di saggezza» che sappia discernere, «nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica», quale sia «il bene integrale della persona».
Ricorrono qui due aspetti cari al magistero di papa Francesco. Innanzitutto il richiamo al discernimento, che è certamente un leitmotiv della sua visione spirituale e della sua proposta pastorale: discernimento come esercizio concreto di quella saggezza pratica che non si richiama semplicemente a principi astratti, ma cerca di verificare qui ed ora quale sia il maggior bene possibile per la persona concreta, alla luce del suo bene «integrale». Com’è noto, “integrale” è aggettivo che ricorre nella dottrina sociale della Chiesa (fino a Laudato si’) sulla scia del celeberrimo Humanisme intégral di Jacques Maritain e della sua ripresa in Populorum progressio, quando il papa Paolo VI si batteva per l’idea di uno sviluppo integrale, ovvero «di tutto l’uomo e di ogni uomo».
L’integralità dello sguardo sull’uomo e l’attenzione all’arte sapienziale del discernimento costituiscono i movimenti necessari per il processo decisionale in merito alle questioni concrete del “fine-vita”.
Occorre, infine, sempre ricordare che il soggetto del discernimento e delle decisioni – e qui il papa cita ancora il Catechismo (n. 2278) – è il paziente, ovviamente in dialogo con i medici (anche se purtroppo, rileva il papa, la relazione terapeutica è oggi sempre più frammentata).
L’etica della prossimità
Le considerazioni di papa Francesco si iscrivono all’interno di una precisa visione etica il cui «imperativo categorico» è il non abbandono del malato e il cui «comandamento supremo» è «la prossimità responsabile». Dinanzi alla tendenza a ridurre il “fine-vita” a una serie di decisioni tecniche, il papa rivendica fortemente il carattere etico della questione. La sfida vera non si gioca tanto sul livello giuridico-normativo, ma su quello etico e antropologico.
Delle persone dobbiamo sempre prenderci cura, fino all’ultimo atto della vita, quando saremmo tentati di sottrarci alla relazione. Una tale cura va esercitata proprio verso i più deboli, verso le persone più fragili, dal momento che proprio dal sentirsi abbandonati scaturiscono spesso le richieste di porre fine alla propria esistenza. «E se sappiamo che, della malattia, non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte». A partire dal limite che ci costituisce nella nostra identità antropologica e che ci accomuna al prossimo, è possibile edificare un’etica che sia il più possibile condivisa, data l’odierna «diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose».
La saggezza richiesta al discernimento si fa capacità di dialogo con altri, in una ricerca condivisa del bene autentico della persona.