“L’impossibilità di parlarsi ha sciolto molte amicizie”, questo è il proverbio, di origine sconosciuta, che Aristotele cita nel Libro VIII dell’Etica Nicomachea. Egli si riferiva alla distanza fisica, alla lontananza, che in quell’epoca, e ancora per tanti secoli, rendeva difficoltoso o impossibile comunicare. “Aprosegoria” è un vocabolo raro e in sé indica, appunto, l’impossibilità dell’allocuzione.
Verrebbe da pensare, dunque, che oggi, e sempre più, dal telegrafo al digitale, la separazione fisica non sia più motivo di incomunicabilità: siamo nell’epoca delle videochiamate, ad esempio. I media non riguardano più solo la sfera pubblica o i gruppi, bensì, ormai, soprattutto i singoli, i “privati”. Gli amici, poniamo. Pur rappresentando, l’amicizia, un ponte ideale tra le due dimensioni, quella pubblica e quella privata. Quella privata in quanto riguarda il piano degli affetti e dell’intimità e coinvolge, per ciascuno di noi, pochissime altre persone; quella pubblica in quanto è decisiva nella vita degli esseri umani e delle società, vero ponte tra il singolo e l’altro, come Eros.
Gli amici, dunque, ormai possono sentirsi a distanza. Altri motivi di aprosegoria, tuttavia, subentrano. Perché allocuzione vi sia, occorrono un (e)mittente e un destinatario. E se un abisso incolmabile separa i due? Se la distanza emotiva o economica o culturale si frappone al dialogo? Se il mittente non dice e il destinatario non riceve?
Si tratta di un problema grande, umano e politico. Un destino di solitudine incombe sugli umani. I conservatori avallano l’esistente. Ma la sfida si fa drammatica per chi vuole cambiarlo. Da soli non possiamo, così diventa decisiva la domanda: come far comunicare l’operaio e il suo compagno, l’impiegato e il suo collega, coloro che popolano le periferie e l’immigrato, le donne minacciate dai bruti, l’ultimo e il penultimo, il credente e l’altro credente? Urge abbattere barriere, infrangere steccati, coltivare l’unità, se si vogliono sostenere le ragioni del dialogo.
Credo che l’iperconnessione (ovvero quella resa possibile dai dispositivi portatili, su tutti gli smartphone) abbia contribuito notevolmente all’incomunicabilità.
Anzitutto, a mio avviso il poter comunicare pseudo-gratuitamente 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 in qualche modo svaluta l’idea stessa di comunicazione: quando esistevano solo le lettere non ci si poteva permettere di sprecare parole. La stessa consegna di quelle lettere era spesso un’impresa rischiosa, e quindi si può dire che il valore di una lettera fosse inestimabile. Non sorprende dunque la profondità di alcune lettere, che includono anche alcune pagine delle Sacre Scritture.
I social network poi, ponendo gli utenti sotto “filter bubbles” e favorendo contenuti “caldi” o superficiali, non hanno fatto altro che aumentare le distanze tra le persone. I meme sono l’esempio perfetto di incomunicabilità, specialmente quando escono allo scoperto nel mondo reale. Non esiste una scuola che insegni i meme, non sono una mitologia: sono riferimenti usa-e-getta a fenomeni spesso estranei alla cultura locale.