Testimoni di Geova: un racconto inconsueto

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La numerosa letteratura sui Testimoni di Geova oscilla fra la polemica testimoniale e l’esibizione prevedibile e autocelebrativa. Il libro di Diego Leoni (Zortea. Biografia di una comunità di Testimoni di Geova trentini) costituisce una singolare novità.

È il racconto, storicamente documentato, della prima comunità dei Testimoni di Geova operante nella ristretta area di una valle secondaria del Primiero (Valle del Vanòi), a cavallo con i territori bellunesi. La narrazione ha un arco temporale preciso: 1919-1945.

Un pugno di persone – qualche protagonista e le loro famiglie – viene seguito passo passo, attingendo agli archivi dei tribunali e degli organi di polizia, come anche a quelli ecclesiastici, ma soprattutto ai racconti dei testimoni diretti.

A Zortea, il paese al centro del racconto, «sono stato accolto nelle loro case – annota l’autore –, ho condiviso conoscenze e momenti di convivialità e preghiera, ho partecipato più volte alla commemorazione della morte di Gesù, ho cercato di assimilare il sentire e il linguaggio che li fortifica, ho stretto con loro un patto – che prevedesse la diversità e il rispetto reciproco, il dare e il restituire – di cui (il libro) costituisce il frutto finale e il suggello» (pp. 381-382).

L’apparato critico si estende per un centinaio di pagine, trenta pagine sono dedicate alla bibliografia, ambedue arricchiti da una nutrita serie di fotografie e illustrazioni.

Contadini, minatori, migranti

La microstoria locale spalanca gli spazi della storia di tutti e risponde alla creativa e apprezzabile opera storiografica di un piccolo nucleo di storici locali (Guido Antonelli, Camillo Zadra e lo stesso Leoni) che – in parallelo ad altri gruppi simili come quello triestino – ha permesso l’emergere di eventi rimossi per decenni. Quelli che interessano le popolazioni di confine, sottoposte all’egemone racconto dei “vincitori” e condizionate dalla complessità delle appartenenze. In particolare dando parola ai soldati e alle famiglie dei primi decenni del Novecento sottoposte al rullo compressore della vulgata fascista e dell’egemonia cattolica.

Fino agli anni ’40 del secolo scorso le comunità dei Testimoni di Geova in Italia erano una quindicina, collocate soprattutto in Abruzzo. Nel Nord Italia non erano più di sei, due nel Triveneto: a Malo (Vicenza) e a Trento (nell’area periferica del Vanói, a Zortea – Canal San Bovo).

I protagonisti della storia ci stanno in poche righe: Narciso Stefenon, Antonio Stefenon, Francesco Zortea, Giovanni Zortea, Gioacchino Loss, Battista Simoni, Giovanni Caserotto, Domenica Romagna, Caterina Romagna, Ettore Simoni, Maria Zortea, Albino Battisti e pochi altri. Non più di una trentina di persone: contadini, piccoli proprietari, minatori e migranti, come le loro donne contadine, casalinghe e domestiche a servizio nelle città.

La conversione e il “girarsi”

Tutto nasce dalla guerra, dall’emigrazione e del confronto con altre popolazioni e culture: dal Belgio alle aree industriali dell’impero austriaco, all’America del Nord.

Così racconta Narciso Stefanon: «Sono stato convertito alla fede nel 1933 da un cittadino polacco mentre lavoravo in qualità di minatore nel Belgio. Egli mi regalò opuscoli […]: li feci leggere a Francesca Zortea, che si convertì e ad altri che poi si misero in contatto con Remigio Cuminetti. Questi libri insegnano che tutti sono creature di Dio, non ci sono differenze fra i popoli, non esiste la patria, non si deve uccidere per alcun motivo» (pp. 26-27).

Un magma originario ancora indistinto. I gruppi d’inizio sono gli “studenti biblici”, il protestantesimo americano del risveglio, avventisti, anabattisti, protestanti ecc.

Dopo gli anni ’30, emerge la dicitura Testimoni di Geova, ma gli uffici pubblici e di sicurezza mettono tutti nello stesso calderone. Il testo biblico di riferimento sarà per lungo tempo la Bibbia tradotta da Giovanni Diodati che appartiene alla tradizione del protestantesimo storico calvinista e dei valdesi. Solo dopo gli anni ’50 è apparsa una traduzione dei testimoni.

Dalla predicazione casa per casa e dal “libro” nascono i gruppi e le comunità «a sanzionare l’atto empio del “girarsi” e a suggellare la nascita di una comunità di uguali, priva di gerarchia e di spazi costruiti e costrittivi, essendo essa stessa, e in ogni dove – abbiamo pur visto come quelle genti di montagna avessero nel sangue il movimento – tempio vivente, nel quale ognuno aveva libero accesso, potendo essere, al contempo, locutore/ascoltatore (anche l’ascolto parlava), e interprete della Scrittura» (p. 109).

I “matiBibie”

Una condizione di “statu nascenti” che si fa fatica a riconoscere nelle attuali comunità dei Testimoni di Geova, ma che aveva una forza di testimonianza capace di fare attraversare le ostilità dei familiari, dei vicini, delle prevalenti comunità cattoliche, dei poteri civili e della cappa della dittatura e della guerra.

Diventava molto opportuno, se non necessario, che la stessa fede unisse le famiglie e scandisse il rigore delle riunioni (anche clandestine e fuori legge).

Indicati con scherno come “i Bibie”, i “matiBibie”, “quei de la Bibia”, “i sapientoni”, i Testimoni rispondono con provocazioni consapevoli contrapponendo la Bibbia al Messale, interrompendo le prediche, voltando le spalle alle processioni, non rifuggendo dalle zuffe e dalle sassaiole. Danno un nuovo battesimo agli adulti e impongono un proprio rito di sepoltura. Ma sempre in condizione di estrema minoranza.

La straordinaria forza della temperie apocalittica, della fine dei tempi, del compimento del giudizio di Dio, che emergono a cavallo della seconda guerra mondiale, si manifesta davanti alla pressione congiunta del potere dittatoriale del fascismo e del condizionamento della Chiesa cattolica largamente egemone.

Molti di loro conoscono l’esilio, il confino, le prigioni, le condanne, i manicomi criminali e, talora, la morte.

È, in particolare, il rifiuto della guerra e delle armi a porli in rotta di collisione con il potere fascista e nazista e a esporli ad una solitudine totale.

Pochi dei loro compagni di confino hanno un’attenzione benevola nei loro confronti, con l’eccezione di Camilla Ravera, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Si comprende come alcuni di loro si siano adattati al tragico esito dell’abiura per salvare la vita e i legami familiari.

Un’area inaccessibile

La singolarità e la suggestione del racconto si presta a possibili osservazioni critiche: un’eccessiva “internità” al racconto dei protagonisti, una disattenzione agli elementi antifascisti della comunità cristiana di Trento, una scarsa valorizzazione degli strumenti della solidarietà di comunità periferiche come le famiglie cooperative, le casse rurali, i caseifici.

Forse anche difficoltà a capire nella nebulosa condizione di “statu nascenti” elementi discutibili del successivo sviluppo dei Testimoni di Geova (rigida gerarchia interna, opposizione frontale alle Chiese e alle religioni, scarso approccio critico ai testi, condizionamenti pesanti sui singoli che intendono uscire ecc.).

Rimangono intatti il valore di illuminare minoranze ingiustamente condannate, il riconoscimento ai Testimoni di essere stata l’unica comunità credente che si sia opposta in massa al fascismo e al nazismo (Giorgio Bouchard), il certosino lavoro di raccogliere e valorizzare le testimonianze dirette, il pregio culturale e morale di illuminare un’area ancora inaccessibile come i Testimoni di Geova.

Non casualmente l’autore annota che anche il libro, come i suoi protagonisti, ha conosciuto un sistematico rifiuto alla pubblicazione, resa possibile solo grazie ad un gruppo di amici e sostenitori.

  • Diego Leoni, Zortea. Biografia di una comunità di Testimoni di Geova trentini. Valle del Vanòi, 1919-1945, La Grafica 2024, pp. 428, euro 20,00. Fra i libri dell’autore ricordo: La Guerra verticale. Uomini, animali e macchine sul fronte di montagna 1915-1918, Einaudi 2015.
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