Tra patriarcato e maschilismo

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Negli ultimi giorni, si è tanto parlato di patriarcato. Certo, se ne è parlato soprattutto per il motivo sbagliato, per alcune uscite che il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara avrebbe potuto evitare.

Valditara, scegliendo il momento peggiore (la presentazione di una fondazione intitolata a Giulia Cecchettin, vittima di femminicidio), ha ribadito che il patriarcato è finito con le riforme del diritto di famiglia del 1975 e che quello che abbiamo sono «piuttosto residui di maschilismo».

Questa uscita ha poi generato un dibattito, che abbiamo inizialmente seguito su Revolution, che ha già coinvolto il filosofo Massimo Cacciari, ma anche il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, il quale ha portato avanti una tesi già espressa in passato: che il patriarcato sia finito e che al massimo rimane il maschilismo.

Ne ha anche parlato, con idee simili a quelle di Travaglio, il sociologo Luca Ricolfi a Piazzapulita.

Quando Cacciari dice che il patriarcato nel suo senso storico è finito dice una cosa vera sul piano del diritto, che non è priva di conseguenze, ma che non è completa, perché lascia aperto l’ampissimo spazio, i cui confini sono ambigui, delle norme informali.

Quello che mi ha sorpreso è che non si sia sottolineato l’aspetto fondamentale delle norme non sancite dalla legge: il fatto che queste norme costituiscono una sorta di contratto implicito riguardante comportamenti che parti della popolazione si attendono essere seguiti dalle persone sulla base del sesso.

Questo è il punto dirimente che rende una credenza diffusa una norma implicita che esercita pressioni sui comportamenti delle persone avvantaggiandone alcune e svantaggiandone altre.

Il patriarcato è da sempre in crisi? 

Cacciari si è espresso sul patriarcato più volte negli ultimi tempi. Mi sembra abbia detto principalmente due cose: che il patriarcato è da sempre in crisi e che oggi non si possa parlare di patriarcato.

Quando ascoltiamo Cacciari dire che il patriarcato è da sempre in crisi, non dobbiamo rimanere a questa affermazione circoscritta, che da sola potrebbe voler dire tante cose. Dobbiamo cercare di capire perché Cacciari dice che il patriarcato è da sempre in crisi, quali sono le ragioni per sostenere questa tesi.

Ora, Cacciari è sicuramente molto bravo nella comunicazione pubblica. Però è anche uno studioso di grandissima cultura e certamente, dietro ad affermazioni apparentemente semplici, nasconde giustificazioni, magari sbagliate, che semplici non sono.

Ecco, il caso del patriarcato da sempre in crisi è uno di questi. Per chi sia filosoficamente avveduto, la parola «crisi» è subito segnale della cornice teorica che Cacciari usa per giungere alla conclusione affermata. Ne spiega anche il contenuto.

Per Cacciari, dire che il patriarcato è da sempre in crisi vuol dire la stessa cosa che dicevano i marxisti quando dicevano che il capitalismo è da sempre in crisi.

Vuol dire che il patriarcato è un insieme di norme sociali, alcune formali (come la patria potestà) e altre informali, che non sono mai state univocamente definite e immuni da contestazioni.

Anzi, sono un terreno di lotta continua e di continua rinegoziazione dei confini di queste norme.

Come si diceva quando Cacciari era un giovane comunista, la famiglia patriarcale costituiva un terreno di contraddizioni, un terreno in cui diversi attori, alcuni dominanti (gli uomini) e altri oppressi (le donne) entravano in tensione. E da questa tensione, da questa ricontrattazione dei ruoli e delle norme, si ha la crisi del patriarcato. Crisi che, per chi accetta questa linea di analisi, è come quella del capitalismo: sempre tendenziale e mai determinata.

Se guardiamo l’evolversi del patriarcato (o del capitalismo) ci sembra di osservare un pattern che ci porta a credere che avrà fine, anche se non possiamo dirlo con certezza.

Certo, questa analisi apre una problematica metodologica enorme, che credo infici la validità dell’analisi fatta, ma argomentare questo punto vorrebbe dire mettere in mezzo problemi di analisi dei dati storici e dei modelli teorici per studiarli troppo ampia e troppo tecnica per un breve pezzo. Per cui la segnalo, ma non la sviluppo.

Però, Cacciari non ha detto solo questo. Ha detto anche che il patriarcato come cultura che stava alla base della patria potestà è finita. Questa affermazione apre un altro problema riguardante la metodologia implicitamente usata da Cacciari che voglio affrontare.

A me sembra che Cacciari muova da una lettura della cultura per trarre conclusioni sul mondo. Gli esempi che porta, per esempio, sono letterari. Mesi fa, da Lilli Gruber, citava come esempi Shakespeare e Madame Bovary. Pochi giorni fa, da Giovanni Floris, citava Kafka.

Però, la cultura è quanto emerge da un costante processo di selezione della produzione comunicativa. Processo di selezione che nasconde alla vista quanto non è degno di essere rappresentato.

Ora, quando Cacciari dice che la cultura patriarcale è finita non lo dice appellandosi a dati per così dire grezzi. Lo dice appellandosi a testi. Testi però che sono lo specchio degli interessi che muovono le persone che operano questi filtri. Testi disparati, sia chiaro.

In questo mondo filtrato, forse è vero quello che dice Cacciari. Però, quando si denuncia il persistere di una cultura patriarcale, si denuncia il persistere di norme di comportamento patriarcali proprio in quelle parti della società che sono state scartate via dalla selezione culturale che mette in mostra alcune cose e ne oscura altre.

È dunque maschilismo? 

I discorsi di Cacciari, Ricolfi, Travaglio e Valditara non sono però sugli stessi piani. Quando Cacciari dice che il patriarcato nel suo senso storico è finito dice una cosa vera sul piano del diritto, che non è priva di conseguenze, ma che però non è completa, perché lascia aperto l’ampissimo spazio, i cui confini sono ambigui, delle norme informali.

Quando Ricolfi, Travaglio e Valditara dicono che si parla di maschilismo riducono il tutto a comportamenti diffusi ma che non hanno la forza della legge.

Quello che mi ha sorpreso è che nelle repliche (come quella puntuale e ben argomentata di Michela Ponzani al minuto 2:55:22 di Piazzapulita) a queste affermazioni non si sia sottolineato l’aspetto fondamentale delle norme non sancite dalla legge. l fatto che costituiscono una sorta di contratto implicito di comportamento che parti della popolazione si attendono essere seguite dalle persone sulla base del sesso.

Questo è il punto dirimente che rende una credenza diffusa una norma implicita che esercita pressioni sui comportamenti delle persone avvantaggiandone alcune e svantaggiandone altre.

Valditara, Travaglio e Ricolfi dicono che al massimo ci sono retaggi di maschilismo. Però, quando si dice al massimo c’è maschilismo, non si coglie l’aspetto fondamentale delle norme che ho appena citato. Ossia, che la cultura maschilista ha la forma del contratto implicito di cui ho appena detto.

Per cui, se c’è maschilismo diffuso, questo non vuol dire che al massimo ci sono battutacce.

Vuol dire qualcosa di più profondo e più grave: che i rapporti sociali sono, almeno in alcune parti della società, ancora imbevuti di aspettative che sono le stesse o molto simili a quelle in vigore quando la legge tutelava la famiglia patriarcale. Aspettative in cui si assegnano ruoli precisi alle persone in base al sesso e che favoriscono sistematicamente uno dei due sessi nell’acquisizione del potere e, dunque, nella capacità di influire sulla società e indirizzarla verso i propri bisogni e desideri.

Quindi, non si tratta di farne una disputa verbale. Se per Ricolfi (dal minuto 2:53:25) l’idealtipo «patriarcato» non è una categoria analitica utile, benissimo. Ma qui non si tratta di idealtipi monolitici. Si tratta di identificare un sistema di norme (eterogenee e variabili) di comportamenti che sono determinati socialmente dal sesso delle persone.

Poi si può discutere su come affrontare il problema, ma non si può relegare un sistema di norme implicito alla categoria del maschilismo, perché la categoria del maschilismo fallisce di sottolineare la dimensione collettiva del contratto implicito all’origine del fenomeno. Ossia, il fatto che questo si poggi su comportamenti che tutti si aspettano gli uni dagli altri. Non su di atteggiamenti che tutti hanno, ma che nessuno si aspetta che l’altro lo segua necessariamente.

Questa è la differenza fondamentale che rende una credenza diffusa qualcosa di simile a un contratto implicito. Per cui, se violo la norma di comportamento attesa colgo di sorpresa gli altri e posso aspettarmi sanzioni che vanno dallo sberleffo all’esclusione. Ed è da questo effetto di contratto implicito, a cui seguono implicite sanzioni sociali, che deriva la forza di questo codice di comportamento.

Fallire di vederlo, dire che si parla di maschilismo e non di patriarcato, non è una opzione concessa in un dibattito pubblico, perché concerne una distinzione di base che non può essere mai ignorata: quella tra norme formali, sancite dalla legge, e norme materiali, seguite indipendentemente dal loro riconoscimento giuridico.

E questa distinzione non è un’opzione di analisi disponibile solamente a chi venga da una tradizione di movimenti di sinistra, di teoria critica, o di posizioni post-marxiste.

Piuttosto, è una posizione che dovrebbe essere colta, accolta e discussa, da chiunque sia inserito nell’arco costituzionale del liberalismo. Ossia, in quel sistema di norme che vuole garantire attraverso la legge uguali protezioni e opportunità alla persona. 

Cosa sarebbe questa ideologia? 

C’è poi la dimensione ideologica che viene continuamente sbandierata dalla destra. Valditara (a partire da 0:40) ha addirittura contrapposto la dimensione ideologica, che caratterizzerebbe le rivendicazioni femministe contemporanee, alla Costituzione. Contrapposizione questa che implica che chi fa parte di movimenti femministi starebbe agendo al di fuori della Costituzione. Questa è l’affermazione che avrebbe dovuto suscitare maggiori polemiche.

La parola «ideologia», che viene detta come una critica, dice solamente una ovvietà positiva: che le rivendicazioni femministe sono sostenute da un sistema di teorie, la cui origine tra l’altro è variegata.

Credenze e teorie a cui la destra al governo si oppone perché hanno spesso origine nelle teorie critiche, nella filosofia post-strutturalista francese, e in diverse scuole post-marxiste. Sono teorie di sinistra.

Per questo motivo, quando Valditara e altri si oppongono sbandierando l’ideologia, altro non stanno facendo che mascherare il fatto che la loro opposizione è politica.

Anche perché verrebbe da chiedersi quale sia una posizione politica che non abbia base ideologica, sostenuta da teorie e opinioni più o meno coerenti. L’unica che mi sembra possibile è la risposta istintiva agli eventi.

Ora, se questo è il tipo di politica che il governo ha in mente, una in cui rispondono agli eventi senza pensare e d’istinto, sarebbe bene che ce lo facessero sapere.

L’aspetto dell’origine della giustificazione e della concettualizzazione contemporanea delle istanze femministe è chiaramente un terreno ampissimo di discussione, anche e soprattutto accademica. Ma va sottolineato che, se è vero che molto trae la sua origine da posizioni post-marxiste e di teoria critica, questo è un merito che va loro dato, indipendentemente dal giudizio teorico che le si dà.

Se quasi nessun altro ambiente si è preoccupato di analizzare e concettualizzare esperienze ed istanze ignorate, non c’è da sorprendersi se le uniche concettualizzazioni disponibili hanno origine lì.

Non si può certamente dare una colpa a chi per anni, anche quando i temi erano meno dibattuti, si è occupato, andando dietro alla difficoltà della ricerca accademica, dei temi femministi e li ha affrontati anche nel contesto più ampio dei movimenti.

Semmai, ci si dovrebbe chiedere perché gli ambienti liberali non hanno ampiamente discusso e cercato di rendere prioritarie politiche che attuassero le analisi che pure venivano condotte, come quelle che hanno portato Claudia Goldin a vincere il premio Nobel per l’Economia.

Bisognerebbe chiedersi perché si è creduto che il problema fosse risolto nel momento in cui il diritto era stato cambiato, e che per questo motivo non c’era bisogno di concettualizzarlo e di adattare le strutture di incentivi messe in atto dalle leggi in maniera tale da favorire veramente quell’uguaglianza di cui parla la carta.

Dunque, chi come me crede che l’impianto teorico dietro le teorie post-marxiste o post-strutturaliste sia profondamente inadeguato per analizzare e intervenire sul mondo, non può nascondersi dietro questa obiezione metodologica e non ascoltare le istanze che vengono dai movimenti, relegandole alla categoria della lotta di parte.

Piuttosto, deve accogliere queste istanze e mostrare che non sono patrimonio esclusivo di una parte politica, ma istanze che possono essere sostenute all’interno di un terreno comune a qualsiasi posizione liberale. Queste sono istanze che parlano di diritti e i diritti sono patrimonio comune della comunità politica.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 26 novembre 2024

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