Occorrerebbe forse affrontare l’ambiguità semantica della parola memoria per cogliere meglio il senso della Giornata dedicata al ricordo della Shoah. A volte, infatti, della memoria abbiamo un’idea parziale, quasi si trattasse della soffitta nella quale conservare roba vecchia. O – ciò riguarda soprattutto gli studenti – viene associata allo sforzo, talora sterile e fine a se stesso, di trattenere il più possibile “in magazzino” nozioni e dati. La memoria, dunque, come museo o archivio.
Basterebbe leggere qualche pagina di Aristotele, invece, per coglierne il nesso, poniamo, con la fantasia e con l’immaginazione; quindi con la capacità di intravedere possibili scenari futuri o di leggere nelle pieghe dell’oggi.
Altro equivoco: Giornate del genere intese come momenti nei quali dar prova di eloquenza e di abilità retorica, anche nel senso nobile dell’espressione. Occasioni per tirar fuori il meglio di sé, a scuola come nelle istituzioni, in tv o sui social come sulla carta stampata.
Rischi che, nel mio piccolo, ho superato accostandomi e confrontandomi intensamente, fin nelle viscere, con il capolavoro di un autore ebreo come André Neher: L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz. Quando, a onor del vero, il pensatore si sofferma con tanta intensità sulle dimensioni del silenzio proprio a partire da quello dei lager: il silenzio dei campi di sterminio, nei quali “tutto si è svolto, compiuto, consumato, per settimane, mesi e anni, nel silenzio assoluto, ai margini e alla deriva della storia”, il silenzio di chi vedeva, sapeva e taceva, il silenzio, per chi crede, di Dio.
Il silenzio, tra l’altro, caratterizza le nostre invocazioni, le nostre preghiere: per dirla con Neher, l’unica forma possibile di preghiera è, al limite, il silenzio.
Ed esso pone ancor più in risalto lo scandalo, la pietra d’inciampo. Il silenzio turba, inquieta, nasconde e, al tempo stesso, può dischiudere orizzonti, farci aprire gli occhi. Si tratta, non a caso, di un aspetto insostituibile del dialogo: provo a far spazio a ciò che mi dici ascoltando in silenzio, come farai tu fra un minuto. E, a proposito di memoria, non dovremmo dimenticare che nelle regioni del Medio Oriente nelle quali si sta versando tanto sangue, sono state scritte pagine intere di sana convivenza tra musulmani, ebrei e cristiani. Convivenza intesa come collaborazione, non solo come rispetto formale.
Memoria, dunque, non corrisponde a distogliere lo sguardo dal presente, dal Libano o da Gaza. La Shoah ricorda a ciascuno, singolo o gruppo, le possibilità terrificanti del male; dove si può approdare seguendo le logiche dello sterminio. La tragedia è costitutiva dell’esistenza degli individui e dei popoli, ma la Shoah ne mostra l’esito estremo, ai limiti del dicibile.
Ecco, la memoria, che sia nutrita dalle parole o dal silenzio riflessivo, o da entrambi, prova a custodire e a rendere patrimonio condiviso della civiltà e dell’umanità ciò che è oltre ogni immaginazione, oltre ogni dire, e che pure è reale, terribilmente reale.