Uno dei temi di maggiore attualità che la costituzione dogmatica sulla Chiesa del concilio Vaticano II, la Lumen gentium, ha rimesso al centro dell’attenzione è quello del senso di fede. Al numero 12 del testo si afferma che esso consiste in un dono dello Spirito Santo, cioè in un carisma, offerto ad ogni credente, attraverso il quale egli, pur sotto la guida del magistero dei vescovi, comprende più pienamente la fede della Chiesa e più pienamente la esprime nella vita.
Dunque, se il compito della Chiesa è quello di trasmettere la fede ad ogni persona in ogni luogo e in ogni tempo, dando così vita alla Tradizione, esso è svolto da tutti i suoi membri. Il compito specifico del magistero è semplicemente quello di supervisionare questo processo, perché nessun credente si allontani dall’autentica fede in Gesù, quella trasmessa dagli apostoli.
Questo tema ha delle implicazioni molto rilevanti sul piano dell’evangelizzazione, in quanto fonda sul piano teologico il fatto che ogni cristiano sia chiamato a comunicare il Vangelo reinterpretandolo a partire dalla propria personale esperienza di fede, la quale è, a sua volta, inevitabilmente caratterizzata dalla propria umanità (cioè, dal proprio genere, dalla propria età ecc.) e dalla propria cultura.
Dunque, il Vangelo che è effettivamente trasmesso dai credenti non è mai un insieme asettico di verità o di norme etiche, ma è un’esperienza personale di fede in Gesù che, pur radicata nella fede ecclesiale, porta l’impronta della propria storia e del proprio cammino. Evidentemente, però, per evitare di andare fuori strada, è necessario che ogni credente confronti la propria interpretazione dell’esperienza cristiana con quella degli altri credenti, in particolare con quella dei ministri ordinati che rappresentano nella Chiesa il riferimento autorevole.
Si tratta, dunque, di rendere conto del proprio modo di intendere il Vangelo all’interno della propria comunità, in un contesto relazionale di dialogo sereno e rispettoso nel quale altre persone, e soprattutto il pastore, possono fare osservazioni e suggerire eventuali rettifiche.
Poiché, però, la fede professata non è mai disgiungibile da quella vissuta, è necessario, in qualche modo, rendere conto anche del proprio comportamento alla propria comunità. Certo, non si tratta di confessarsi in pubblico, cioè di mettere in piazza degli aspetti intimi della propria vita e delle proprie scelte, pratica che serve solo ad umiliare le persone e a creare dei legami di malsana dipendenza con coloro che vengono a conoscenza dei loro errori.
Si tratta, però, di avere uno stile di vita sostanzialmente trasparente, cioè di essere persone senza maschere, che non hanno una doppia vita ma che sanno essere semplicemente se stesse in ogni contesto. Proprio questo stile trasparente consente di rendere conto del proprio agire alla propria comunità, perché mette i propri fratelli e sorelle di fede nella condizione di vedere quello che si è, di cogliere ciò che non va bene e di suggerire possibili correttivi.
Tutto questo vale anche per i ministri ordinati. Purtroppo, la visione di Chiesa indotta dal medioevo e rafforzata con la Controriforma ha spinto a pensare che la Chiesa sia strutturata come una piramide, cioè in modo gerarchico, per cui chi sta sopra (i ministri) non può e non deve rendere conto a chi sta sotto (i laici). Così il rapporto del pastore con la sua comunità è stato pensato in termini unidirezionali: questi deve insegnare alla sua comunità e guidarla, ma questa non deve permettersi di fare osservazioni sul suo comportamento – almeno ufficialmente! –, perché questo metterebbe in discussione la sua autorità.
Anche se la prospettiva teologica è profondamente mutata, vi è ancora oggi il rischio che i ministri ordinati finiscano per non rendere conto a nessuno del loro stile di vita, se non al proprio diretto superiore, il quale però è spesso sufficientemente distante da non poter rappresentare un confronto effettivo.
Qualcuno potrà ingenuamente invidiare questa condizione, vedendo in essa un’autonomia che non è possibile vivere in molti altri contesti. In realtà, quando non si ha nessuno a cui rendere conto, non si vive affatto una maggiore libertà e serenità, ma solo una profonda e pericolosa solitudine, nella quale una persona che abbia una minima maturità affettiva e che non abbia quindi paura delle relazioni si percepisce come oggetto del disinteresse generale e, in fondo, abbandonata a se stessa e ai suoi guai. Anche da questa solitudine può nascere quell’autoreferenzialità, sia sul piano personale che su quello pastorale, che poi non è possibile scalfire neppure con le più raffinate o stringenti norme giuridiche.
Il modo di reagire a questa situazione probabilmente non è quello di costruire legami molto coinvolgenti sul piano affettivo con una cerchia ristretta di persone, fossero anche i collaboratori con cui si è a più stretto contatto o alcune famiglie selezionate della propria comunità. Il rischio, infatti, è quello di sceglierle in base all’affinità che si sente nei loro confronti, e che quindi esse siano più propense a dare conferme che a suggerire piste di conversione. Soprattutto, poi, vi è il forte rischio che il positivo desiderio di un confronto si trasformi in una malsana logica di dipendenza reciproca, particolarmente nociva per chi vive il carisma del celibato per il regno dei cieli e fonte di gravi problemi per la vita di una comunità.
Occorre allora che i credenti, compresi i ministri ordinati, assumano stili di trasparenza capaci di rendere contro del loro agire alle loro comunità, in contesti relazionali rispettosi sia della coscienza personale che dei diversi ruoli ecclesiali, ma pure ampi e inclusivi. La salute spirituale – e forse anche psicologica – dei credenti, soprattutto dei pastori, dipende anche da questo.