La storia ha segnato alcune popolazioni con marchi indelebili e le ha poste ai margini del contesto sociale, come ancora oggi la famiglia dei Rom, o romanì come si chiama pure la loro lingua.
Vittima designata per la “conclusione finale” nei campi di sterminio nazista, ha subìto un genocidio di cui nessuno fa memoria e ora fatica a lasciare i campi di baracche dove sembra condannata senza appello anche nelle nostre città.
Eppure c’è speranza anche per i Rom, che non sono neppure nomadi e che nelle nostre città attendono di essere riconosciuti nei loro diritti di essere umani, prima che di cittadini, dato che dei circa 150 mila presenti sul territorio italiano il 60% sono ragazzi nati qui e che qui vorranno vivere.
«Una shoah dimenticata – la definisce Santino Spinelli, linguista, musicologo e già docente di lingua e cultura romanì all’università di Trieste – di Rom e Sinti e per loro non c’è mai stato un riconoscimento né mai chiesto che venissero pagate le colpe commesse nei loro confronti. Tanti errori che hanno generato mostri e mistificazioni ancora oggi, nel 2017».
La situazione
Per avere qualche idea più precisa abbiamo interpellato la Comunità di Sant’Egidio che a Milano, con altre realtà territoriali, da diversi anni opera in baraccopoli Rom con il preciso scopo di aprire percorsi di affrancamento da situazioni di degrado e di miseria insistendo particolarmente sull’educazione scolastica dei minori per avviare nuove condizioni di vita e di integrazione sociale.
«I Rom a Milano non sono mai stati molti – spiega Stefano Pasta, coordinatore per la Comunità di Sant’Egidio degli interventi a favore dei Rom (info: santegidio.rubattino@gmail.com) – anche se la percezione diffusa è diversa; risiedono in 7 campi regolari, in alcune baraccopoli non di grandi dimensioni e in varie situazioni».
Le baraccopoli sono salite spesso alle cronache cittadine per i continui sgomberi che costringevano gli abitanti a spostarsi in altri punti dell’hinterland. Infatti, una legge del 2007 aveva proclamato lo “stato di emergenza”, al pari di una catastrofe, in cinque regioni italiane tra cui la Lombardia, a seguito della presenza dei Rom, aprendo a sgomberi e distruzioni dei campi, fino a 40 volte in tre anni.
«Samuel, un ragazzino delle elementari, ha dovuto cambiare scuola otto volte in tre anni; Cristina – racconta Pasta – ha subìto lo sgombero della sua baracca 20 volte in un anno». La loro colpa era di non avere alternativa alla totale povertà. Nel 2011 la Corte costituzionale decretò incostituzionale lo “stato di emergenza” e quindi si interruppe il fenomeno intimidatorio, restò però il fatto che non viene considerato un problema sociale che ci siano famiglie che hanno solo una baracca per vivere, ma un fenomeno culturale, come a dire che, per queste persone, il vivere male è la loro ambizione di vita.
Le risposte
La presenza di Sant’Egidio in Rubattino – periferia Nord-Est di Milano, dove c’era una baraccopoli fino al 2009, senza acqua, né servizi, né raccolta dell’immondizia, ma con molti topi – inizia dieci anni fa a seguito della tragica morte di una bambina di 4 anni annegata nella roggia vicino a Chiaravalle.
«Con suor Ancilla della vicina comunità del Nocetum – spiega Pasta – siamo stati coi genitori affranti dal dolore e abbiamo pregato nella vicina Certosa dell’Abbazia. Contatti e amicizia si sono sempre arricchiti da quel momento e, insieme, abbiamo affrontato tanti problemi: dai documenti per i ragazzi che sono di seconda, terza e quarta generazione, nati in Italia, da genitori slavi, di quei Paesi che si sono smembrati dalla Jugoslavia,e che risultano pertanto apolidi; mentre i romeni, che sono comunitari europei, possono stare in Italia ma per usufruire di servizi sociali devono avere la residenza e un contratto di lavoro, perciò senza residenza niente servizi sociali.
E qui intervengono molte realtà di soccorso sociale e parrocchie che suppliscono dando la propria residenza. Il diritto alla scuola vige per tutti, dai 6 ai 16 anni, ma non è detto che una mamma analfabeta che vive in una baracca lo sappia e ne usufruisca per i propri figli. E questo è il nostro primo approccio per agevolare l’istruzione scolastica dei bambini. Ora sono 17 i ragazzi che sosteniamo nelle classi superiori e per molti altri sono esempio trainante di integrazione e di partecipazione alla vita di cittadinanza».
Per 60 famiglie è iniziato un altro tempo: sono inserite in contesti abitativi normali, alcune “in transito”, ospiti di una parrocchia, come quella di San Martino in Greco, dove l’esperienza di integrazione è molto bella, altre in locali concessi in uso da amici a basso prezzo, altre anche con prezzi di mercato con il sostegno di borse di studio, fino ad arrivare alla piena autonomia in una casa popolare, o delle cooperative edili, o acquistate con mutuo. È un percorso lungo collegato alla piena integrazione lavorativa.
Insieme si può cambiare e crescere nella responsabilità di cittadini.
[Da Il Segno, mensile della diocesi di Milano, giugno 2017]