Death Valley, California: infinite strade si perdono all’orizzonte, nel deserto; vento sferzante, tramonti violenti. Quattro ragazzi di Dublino: Bono, The Edge, Adam Clayton e Larry Mullen, conosciuti come U2, gruppo rock con molti estimatori e con successo crescente, vagano alla ricerca di qualcosa. Si fermano di fronte a un albero scheletrico, piantato nell’ arida sabbia, incredibilmente vivo. L’albero è comunemente conosciuto come l’Albero di Giosuè, The Joshua Tree. Sarà il titolo di uno dei dischi più belli e importanti della storia della musica contemporanea. Era il 1987, trent’anni fa.
Il mondo non respira bene. Margareth Thatcher governa in Inghilterra con pugno di ferro, il presidente degli Stati Uniti è Ronald Reagan, autore di una politica aggressiva in America Latina che causa disastri umanitari in Salvador e Nicaragua, in pieno clima di guerra fredda con l’Unione Sovietica.
L’anniversario è ancora più significativo per lo stesso respiro pesante che investe il mondo oggi. Politiche di esclusione e di divisione, venti populisti che soffiano anche dall’Europa, non ultima casa nostra, inducono a una riflessione i quattro irlandesi, sempre attenti al sociale e alla politica mondiale.
In una recente intervista, The Edge, chitarrista del gruppo, ha dichiarato che sebbene sia pronto, il nuovo album (Songs of Experience, atteso seguito di Songs of Innocence) non uscirà ora perché deve essere in buona parte ripensato. Le canzoni sono state scritte, infatti, prima delle elezioni americane e con Trump alla Casa Bianca il mondo non è più lo stesso.
Sembra proprio questo il motivo della scelta di celebrare con un tour mondiale, la prossima estate, The Joshua Tree, un album “connesso musicalmente e tematicamente”, secondo lo stesso The Edge, intriso di rabbia, inquietudine e ricerca spirituale.
Lo stesso Bono disse in occasione dell’uscita dell’Album: «Mi innamorai della letteratura americana nel momento in cui capii quanto fosse pericolosa la politica estera degli Stati Uniti. Così iniziai a vedere due Americhe: quella mitica e quella reale. Per questo The Joshua Tree doveva chiamarsi The Two Americas, ma poi vedemmo quell’albero spuntare attraverso il deserto».
Un disco che riporta il gruppo a una delle radici culturali irlandesi: l’immigrazione e il rapporto controverso con gli Stati Uniti, terra d’immigrati, nonostante qualche grave e preoccupante amnesia che oggi fa notizia.
L’album si apre con la celeberrima Where the street have no name (Dove le strade non hanno nome), celebrazione di uno dei miti americani, richiamo evidente a Kerouac e alla beat generation: la strada, il correre liberi dai bisogni superflui, il viaggio per il viaggio, una dimensione interiore. L’eredità culturale irlandese è, però, sempre presente: alla necessità della fuga dall’oppressione, si unisce un racconto udito da Bono su Belfast, dove è possibile capire a che confessione religiosa appartieni, e perfino quanto guadagni, dal nome della via dove vivi. Il titolo nasce dalla curiosità di sapere che effetto farebbe vivere in un luogo dove le strade non hanno nome, dove si è liberi di non essere incasellati in qualche forma. Il testo, oltre la celebrazione della strada come luogo simbolico della libertà, anche dai propri fantasmi, è suggerito da un viaggio reale: quello che Bono fece con sua moglie in Etiopia. Impossibile cancellare dalla mente persone che viaggiavano a piedi per chilometri, fino ad arrivare stremate a un campo di distribuzione viveri solo con la speranza, spesso frustrata, di poter mangiare. Vie senza nome. «Siamo sbattuti e sospinti dal vento/ Calpestati dalla polvere/ ti mostrerò un posto/ Su un altopiano deserto/ Dove le strade non hanno nome».
E sono anche altri viaggi a ispirare Bono che visita El Salvador, rimanendo colpito dalla povertà e dalla dignità delle persone. La camminata si trasforma in terrore quando aerei militari sorvolano il villaggio di capanne di fango e bombardano. Gente inerme che urla e tenta di scappare. Stessa scena si ripete in Nicaragua. Forze che si oppongono alla possibile svolta socialista dei paesi latinoamericani, forze sostenute dall’America. Bono e sua moglie rimangono miracolosamente illesi mentre, con un associazione umanitaria, tentano di portare aiuto ai contadini dei due paesi. La rabbia impotente e il disgusto per l’amministrazione americana del tempo si riversano in una canzone: l’intensa e dura Bullet the blue sky (Spara al cielo blu). Tra urla, esplosioni, proiettili («la pioggia pungente») il testo lascia spazio a due citazioni bibliche: le locuste che richiamano la punizione di Dio per il rifiuto dell’uomo, e la lotta tra Giacobbe e l’Angelo. Bono stesso avrà modo di specificare che quello che aveva visto in America Centrale rappresentava la volontà di Dio sopraffatta dall’uomo. Prima del crescendo finale, il testo rende un accorato omaggio agli innocenti, a chi subisce la storia senza nessuna protezione: «E in mezzo ai campi/ il cielo è squartato/ guarda la pioggia attraverso una ferita aperta/ che piomba su donne e bambini/ che corrono/ nelle braccia/ dell’America».
Il disco è una raccolta di canzoni divenute leggendarie come I still Haven’t Found What I’m Looking for (Non ho ancora trovato quello che cerco). La ricerca inesausta il tema ricorrente, il deserto luogo per antonomasia dell’assenza di vita e nel contempo del possibile incontro con la vita, con Dio.
Il testo è leggibile su due livelli: il primo è una canzone d’amore di un uomo per la sua donna: ho scalato le più alte montagne/ ho corso attraverso i campi/ solo per stare con te; l’attenzione poi si sposta, il “tu” iniziale si riferisce a Dio. Una sete inesauribile, un bisogno di credere che non permette mai di fermarsi «Credo nel Regno che verrà/ Allora tutti i colori sfumeranno in una cosa sola…/ ma io continuo a correre», fino a giungere a una tormentata professione di fede: «Tu hai rotto i lacci/ Tu hai sciolto le catene/ hai portato la croce della mia vergogna / E tu sai che ci credo».
Una delle grandi narrazioni irlandesi, l’emigrazione, fa capolino In God’s Country. Nel 1845 la carestia che colpì l’Irlanda fece in cinque anni oltre un milione di morti. Per fuggire dalla fame sei milioni d’irlandesi emigrarono, cinque dei quali negli Stati Uniti, il «Paese di Dio».
Ancora l’Irlanda, ancora una dolorosa esperienza personale di Bono in Running to Stand and Still (Correre per restare fermi). Anni Sessanta , Ballymun, Dublino Nord, sette torri di cemento alte 42 piani, tentata soluzione all’incremento demografico della città. Un mostro architettonico che presto si rivelerà un problema: una zona disagiata, poverissima che favorì la crescita esponenziale della criminalità. La canzone narra di una delle tante vite perdute tra quelle torri: una donna con l’esistenza segnata dalla droga che trascina nel baratro anche il marito, costretto ad andare mensilmente ad Amsterdam per rifornirsi e spacciare. «Vedo sette torri ma solo una via d’uscita/ devi piangere senza lagnarti, parlare senza comunicare/ urlare senza inveire/ sai che ho preso il veleno dalla sorgente avvelenata/ e poi mi sono fatta trasportare via da qui… /E negli occhi scoppia il temporale/subirà il gelo dell’ago/corre per restare ferma». L’attenzione del gruppo si sofferma su chi non ha alternativa, una strada sola da percorrere, e la indica come una insopportabile povertà.
Sempre i poveri, gli umiliati dalla storia sono al centro dell’ accorata Red Hill Mining Town, dedicata ai minatori inglesi, impietosamente licenziati, tra il 1984 e il 1985, dalla signora Thatcher che vuole ridurre la produzione del carbone, chiudere le miniere e arginare la potenza dei sindacati. Dopo un anno di lotta i minatori perdono. Ma gli U2 non si soffermano sul rilevante aspetto politico, privilegiano invece quello umano, la dignità del lavoro, il tentativo disperato di non perderlo. Bono s’immedesima nel dramma personale di chi si trova disoccupato, senza risorse con una famiglia da mantenere: «Il bicchiere è tagliato/ la bottiglia asciutta/ il nostro amore si raffredda nelle caverne della notte/siamo feriti dalla paura/lacerati dal dubbio /posso perdere me stesso/ma senza di te non posso vivere/perché sei tu che mi aiuti a tener duro». Questa canzone, considerata da molti un capolavoro, verrà eseguita per la prima volta dal vivo proprio in occasione del prossimo tour.
Il tormento e la ricerca si affacciano anche su questioni personali, come descrive la celeberrima With or without You (Con e senza di te) una canzone dichiaratamente d’amore ma lontano da cliché sdolcinati. Il testo affronta il turbamento, l’indecisione su come comportarsi con la propria moglie, ma anche con i propri amici e nella vita in generale. La paura di restare chiuso in schemi limitanti, la necessità di correre per essere vivi; di andare, per tornare. La consapevolezza che in ogni percorso d’amore alle gioie si affiancano inevitabili dolori e ferite. La coscienza che non si può vivere «con o senza di te».
Una seconda persona che man mano acquista peso e si allarga come significato: si riferisce alla moglie, ai propri amici – il gruppo aveva passato una forte crisi prima dell’album – ma anche, ancora una volta , a Dio.
Il disco presenta ancora altre sorprese: la ballata dylaniana Trip to Your Wires (viaggio attraverso i cavi); la dura e coraggiosa Exit (Uscita) che affronta con coraggio il lato oscuro in cui potrebbe cadere ognuno di noi; la toccante One Tree Hill (Una collina un albero), uno dei non pochi capolavori del gruppo mai divenuti troppo famosi, che cita il poeta cileno Victor Jara per ricordare un caro amico di Bono, morto in un incidente motociclistico.
Mothers of Disappeared (Madri degli scomparsi) chiude il monumentale album. Ancora una volta tinte forti che dipingono un ritratto dedicato ai desaparecidos, con la storia di Martinez Cabrera, fermato nel corso di una manifestazione in El Salvador, mai più tornato a casa dalla moglie e dai tre figli, che non seppero più nulla di lui.
Qualche critico ha definito The Joshua Tree un album in bianco e nero, ricco di contrasti e inquietudini. Tutta la trama dei testi, accompagnati da una dirompente e splendida musica, invita a non chiudere gli occhi, a sentire i mali del mondo come propri, alla necessità di sfidarsi per superarsi, ad accettare le sfide con coraggio.
Una trama che fa emergere un disegno centrale: le persone, le relazioni, la solidarietà.
Per ultima, neanche troppo celata, la ricerca di un senso, per tentare di riempire, sono parole di Bono, quel vuoto a forma di Dio.
Grande sintesi. Fa venire voglia di riascoltarlo per l’ennesima volta.
Oggetto: Gli U2 sono davvero un gruppo musicale di grande spessore spirituale … da non dimenticare
Where the street have no name (Dove le strade non hanno nome)
per me questa realta e’ “L’AUTOSTRADA” . che uso nei giorni dove vorrei trovare delle risposte!! ma che puntualmente non trovo.. Quel vuoto a forma di Dio!!! per me e’ solo l’infinito dell’autostrada..senza Dio.. Tanto lui non ci sara’ mai, Peccato che Bono non ha capito che quelle strade, sono le strade dei DIMENTICATI ecco perche’ non hanno nome.
Un articolo meraviglioso