La cronaca ci toglie il respiro con i suoi resoconti. Anche a non voler affondare il pensiero nelle pieghe più oscure delle notizie, la nuda ferocia dei fatti ci si palesa agli occhi in modo diretto, senza ombre.
È un’unica sceneggiatura che si replica all’infinito: donne, a volte poco più che bambine, uccise da ex mariti o ex fidanzati, bande di ragazzini violenti che seminano paura per le strade, giovani armati che ammazzano in preda alla follia, abusi, violenze, stupri, guerre.
I maschi sembrano essersi fermati lì, al livello pulsionale che trova espressione solo nella violenza e nella sopraffazione brutale o, tutt’al più, va a sublimarsi nell’autocompiacimento narcisistico del mansplaining, l’atteggiamento paternalistico – altra faccia del senso di superiorità patriarcale – di chi si sente sempre in dovere di spiegare il mondo a qualcuno: lascia stare, cara, te lo spiego io come funzionano le cose.
Basta! Quante volte verrebbe da alzarsi in piedi e gridare: basta! Possibile che l’unico copione che i maschi hanno imparato a interpretare sulla scena del mondo consista nel presentarsi come “di più”? Più forti, più bravi, più capaci, più importanti, più razionali, più audaci, più intraprendenti; capi di stato, capi di famiglia, capi di Chiese, capi e basta; sesso forte, pezzo grosso. Maschi, punto.
Maschi. Già, cosa vuol dire essere maschi? Tra i tanti punti di krisis del nostro presente, uno sicuramente riguarda l’identità e il concetto di “maschio”. E che i maschi abbiano cominciato a chiedersi, seriamente, cosa voglia dire essere maschi, e che questa domanda se la pongano anche i padri e le madri dei maschi, è una buona notizia, da accogliere con fiducioso sollievo. Perché “maschio” dovrebbe coincidere con l’idea di gerarchia, di superiorità, di primato? Di possesso, violenza, sopruso? Di dominio, prepotenza e abuso? Quale modello di maschilità e mascolinità vogliamo trasmettere ai nostri figli?
Se il mondo, oggi, si interroga su cosa significhi essere maschio, se dopo la “questione femminile” è palesemente arrivato il momento di mettere a tema la “questione maschile”, è anche perché, io credo, tra le increspature della Storia e dentro le nostre quotidiane storie di donne, ci è stato dato di incontrare, conoscere e amare dei maschi che hanno incarnato un altro modo di essere maschi.
Talvolta, a marcare la differenza, è bastato un volto, un incontro – un padre, un marito, un fratello, uno zio, un cugino, un figlio, un amico, un fidanzato, un insegnante, un allievo, un prete, un collega, magari soltanto il personaggio di un romanzo o di un film –: in quella differenza, lo sentiamo bene, è custodito un possibile pronto a dischiudersi per tutti.
Il ritorno di Giuseppe
Stelle, già dal tramonto
si contendono il cielo a frotte,
luci meticolose
nell’insegnarti la notteUn asino dai passi uguali,
compagno del tuo ritorno,
scandisce la distanza
lungo il morire del giornoAi tuoi occhi il deserto,
una distesa di segatura,
minuscoli frammenti
della fatica della natura
La poesia di Fabrizio De André anima la figura di Giuseppe nella meravigliosa canzone Il ritorno di Giuseppe dell’album La buona novella.
È il Giuseppe dei vangeli apocrifi, sposo vecchio di una Maria dodicenne, che accoglie con tremore la gravidanza inattesa della sposa bambina, ma è anche il Giuseppe dei vangeli canonici, l’uomo giusto che sa ascoltare la voce dei sogni e degli angeli e per questo diventa partecipe, a pieno titolo, del Mistero dell’Incarnazione.
Per non farmi sopraffare dalla cronaca, torno ad ascoltare De André e a rileggere le pagine iniziali del vangelo di Matteo. Esserci senza annientare, custodire senza schiacciare, amare senza possedere. Essere forti senza perdere la tenerezza, senza dimenticare la gentilezza. Fidarsi ed essere fedeli. Rispetto. Grazia. Silenzio. Quanto c’è da imparare sull’essere maschi.
E lei volò fra le tue braccia
come una rondine
e le sue dita come lacrime
dal tuo ciglio alla gola
suggerivano al viso
una volta ignorato
la tenerezza d’un sorriso,
un affetto quasi imploratoE lo stupore nei tuoi occhi
salì dalle tue mani
che, vuote intorno alle sue spalle,
si colmarono ai fianchi
della forma precisa
d’una vita recente,
di quel segreto che si svela
quando lievita il ventreE a te, che cercavi il motivo
d’un inganno inespresso dal volto
lei propose l’inquieto ricordo
fra i resti d’un sogno raccolto
Carissima Anita,
grazie per la tua riflessione.
Che brutta cosa questo maschio che usa violenza!
È una storia lunga quella della violenza che arriva fino a noi. Guerra, potere, violenza e sopraffazione sono state a lungo oggetto di racconto sui libri di storia e tante volte contornate da mille motivazioni e quello che è grave da mille giustificazioni. Quando cominceremo a chiamare col nome vero la violenza e dare il nome giusto a chi la usa, forse solo allora cominceremo ad accantonarla definitivamente.
La violenza è un crimine e chiunque la usa, a qualsiasi livello si trovi ad usarla, è un verme non uomo. Se i libri di storia fossero stati scritti in questa giusta prospettiva i cosiddetti maschi avrebbero ben poco di cui vantarsi. Purtroppo abbiamo ancora molti grandi maschi della storia da smascherare.
Ci sono però molti, molti grandi esseri umani non vermi che hanno portato e portano avanti veramente la storia. Tutti quelli che aborriscono la lite, la violenza, che ricuciono i rapporti tra popoli e persone dopo le lacerazione delle violenze e delle guerre.
Abbiamo sotto gli occhi due grandi conflitti, trattati con le categorie di sempre: delitto e castigo, aggressori ed aggrediti, stragi e vendetta.
È molto grave per un essere umano assistere a tali evenienze, averle sotto i propri occhi e lasciare che siano guidate dai signori delle armi e delle guerre che ancora oggi tengono sotto scacco il genere umano. Nessuno osa ancora chiamare vermi chi usa disumana violenza, sono ancora strateghi e grandi capi. Se però il mondo volesse smascherare tali personaggi non si fermerebbero le guerre?
Se si considerasse ogni episodio a sé, senza incaute generalizzazioni, se si provasse a capire i fatti nella loro interezza, se si evitasse di fare propaganda alla donna-angelo, se la si finisse di sfruttare le vittime per fare pubblicità al matriarcato, soprattutto se ci si rendesse conto che la vera soluzione universale contro l’omicidio è nella fede, perché in ogni caso tutte le risposte che tentano di trovare un perché comune a tutti gli episodi, sono sempre insufficienti data la differenza di ciascun caso, allora se ne verrebbe a capo. Ma non è questo che vuole la società di massa, che per ogni vittima gode dello spettacolo dei giornalisti e non si contenta di nessuna ragione…
Mauro Pastore
‘La soluzione all’omicidio è nella fede’ è un’affermazione che ha poco senso: che fede? La buona fede? La vera fede? E tutti i credenti che si sono macchiati di questo crimine?
L’esempio di Abramo che per fede si astenne con suo figlio, non ti dice nulla? Quelli che si rimettono completamente a Dio non uccidono e possono sperare in un aiuto a difendere la propria vita. O pensi forse che avere fede in Dio sia inutile per la vita? Ovviamente dicevo della fede in Dio, anzi in particolare in Cristo.
Mauro Pastore
Credo che il problema sia accettare di condividere il potere. Oggi essere maschi significa essere a servizio di qualcosa non avere il potere. Questo è inaccettabile per molti uomini anche giovani che non vogliono mettersi a servizio di qualcosa. Difficile ripensare la propria “mansione” come servizio alla moglie, alla famiglia. Questa condizione di servizio è sempre stata femminile. L’uomo comandava. Questo passaggio difficoltoso credo possa essere agevolato da un Gesù che indossa il grembiule per lavare i piedi. Un servizio che nessun maschio ebreo avrebbe fatto ma che era compito di donne e schiavi. Gesù ci dice: mettiti a servizio degli altri se vuoi dare senso alla tua vita. Il vangelo è l’arma migliore contro il patriarcato e contro il maschilismo. Va preposto in questo senso.