I termini “guerra” e “pace” evocano una galassia di significati (e di emozioni) che devono essere per quanto possibile chiariti; un passo necessario per aprire un dialogo ed essere “costruttori di pace” nella realtà in cui ci tocca di vivere.
Sgombriamo subito il campo da un possibile fraintendimento: quando parliamo di “guerra” non indichiamo genericamente il male presente nella realtà, la conflittualità potenziale o reale che esiste nelle vicende umane. La guerra è un fenomeno storicamente determinato. Nasce nel momento in cui il conflitto passa da fatto privato/familiare di contenuto socio-economico (in questo caso si chiama “razzia”) a fatto collettivo e in qualche misura pubblico, capace di coinvolgere tutti coloro che fanno parte di una determinata comunità, al servizio di un progetto di dominio (o contrapponendosi al progetto di dominio altrui).
Ma anche se si accetta questa delimitazione, è evidente che la parola “guerra” è stata ed è usata per indicare un insieme di comportamenti di sconcertante variabilità: la qualità e la quantità delle persone coinvolte, i fini che ci si propone, i modi di combattimento, gli armamenti e i campi di battaglia sono variati e variano in modo tale che non basta aggiungere un aggettivo o una specificazione per chiarire di che cosa si sta parlando. Chiunque guardi anche solo superficialmente alla storia umana degli ultimi tre millenni non può che trovare insoddisfacente perfino la definizione del generale von Clausewitz (1780-1831), che definiva la guerra “atto di forza che ha lo scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà”.
Con le guerre nascono anche i tentativi di arginarle e di porvi termine. Un “argine” denominato con termini diversi, che comunemente consideriamo intercambiabili ma che invece hanno significati profondamente diversi. Di fronte a un evento che rischia di essere di lunga durata o addirittura permanente c’è l’eirene: la tregua, lo spazio tra le guerre, variamente sacralizzato e celebrato (dai giochi olimpici alla “pace di Dio”). Di fronte alla necessità di porre fine al conflitto prima che esso assuma carattere distruttivo c’è la pax: il trattato (imposto dal vincitore, ma accettato dallo sconfitto) che esprime l’ordine che la guerra ha permesso di raggiungere e che alla guerra mette fine. E poi – ma su tutt’altro piano – c’è lo shalom, che è l’“avere a sufficienza”, l’appagamento, la pienezza, la risposta alle domande più profonde dell’uomo; nella rivelazione biblica si tratta di un dono che l’uomo può solo ricevere da Dio e non conquistare; non ha dunque a che fare – in linea di principio – con la guerra, che è invece azione solo umana.
Il serissimo problema della guerra giusta
Agostino scrive quando l’Impero romano ha ormai da tempo assunto come proprie le insegne cristiane e discute seriamente il problema di come e quando la guerra possa essere considerata accettabile, “giusta”. Parte da una definizione di pace che è ancora la pax in senso romano: pace è tranquillitas ordinis, è ordinata concordia. Questa pace è l’obiettivo che lo Stato deve avere; anzi, il fatto che il governante si ponga questo obiettivo o meno diviene criterio critico del potere stesso. Si deve fare la guerra solo per raggiungere la pace; solo l’ottenimento della pace giustifica la guerra («esto ergo etiam bellando pacificus»), e l’obiettivo condiziona anche le modalità di conduzione del conflitto.
Il concetto di “guerra” si sposta in questo modo al livello giuridico: non è uno scontro tra avversari ma il confronto tra giudice e imputato, volto al ristabilimento di un ordine violato, perché solo l’avvenuta violazione di tale ordine giustifica l’intervento armato. Un giudice non può però scendere sullo stesso piano dell’imputato: a un’azione ingiusta che viola l’ordine deve contrapporsi un’azione giusta e ben regolata. Per Agostino una guerra giusta deve avere: (a) una causa iusta (il fatto che la pace sia stata turbata); (b) una recta intentio (non devono esserci il piacere di recare danno, il desiderio di vendetta, l’odio, la sete di conquista); (c) una auctoritas legitima (a proclamare e condurre la guerra non può che essere colui che Dio ha posto a capo della comunità umana).
Si tratta dunque di una dottrina che nasce non per giustificare la guerra (come talvolta superficialmente si dice), ma per condannare quegli atti di violenza che si pongono al di fuori di questo quadro; una dottrina che contesta la prospettiva imperiale e si pone invece, anche nel momento in cui intende servirsi della violenza, al servizio della pacifica convivenza.
La riflessione di Tommaso, nel XIII secolo, si pone in questo solco, ma porta due significativi cambiamenti. Cambia l’ordine di elencazione: al primo posto c’è ora (a) l’auctoritas principis, in un’epoca che sta ancora lentamente superando la fase anarchica dei secoli centrali del medioevo (nessuno, dunque, può farsi giustizia da solo). Seguono poi (b) la causa iusta e (c) la recta intentio; a queste tre Tommaso aggiunge (d) il debitus modus, il “come” si conduce una guerra. Tommaso condanna infatti il saccheggio, la rappresaglia, il tradimento (il teologo non conosceva le armi da fuoco!).
Fermo restando questo scenario, durante l’età moderna vi sono alcune significative evoluzioni. Per cominciare, svanisce l’istanza che avrebbe almeno teoricamente potuto pronunciarsi sulla “giustizia” di una guerra: dopo le guerre di religione del Cinquecento, la funzione arbitrale delle Chiese diviene problematica. Nasce invece un embrione di diritto internazionale che teoricamente si fonda sul diritto naturale (etsi Deus non daretur) e che di fatto è basato sul “concerto” tra le principali potenze, che si contrappongono via via le une alle altre per garantire l’equilibrio delle forze. Nella dottrina della “guerra giusta”, due questioni acquistano rilievo, e sono quelle due che già Tommaso aveva messo in evidenza: l’auctoritas principis (la decisione di farla spetta solo al sovrano) e il debitus modus (le guerre che si susseguono tra il 1648 e il 1790 sono infatti relativamente “limitate”), mentre passano in secondo piano la iusta causa e la recta intentio; il giudizio su questi aspetti è di fatto affidato, a posteriori, ai vincitori.
È al termine di questo periodo che si colloca la più ampia riflessione sul tema, quella di Immanuel Kant, per il quale la pace perpetua è ragionevolmente necessaria e ragionevolmente possibile; dato che l’umanità è una comunità giuridica posta al di sopra degli Stati, si può uscire dalla barbarie ed entrare in un’epoca che non conosca più la guerra.
La Nazione prima di tutto
Ma nell’età degli Stati nazionali, soprattutto nel XIX e nel XX secolo, l’orizzonte ultimo non sono certo la comunità umana sopranazionale o la federazione dei popoli: l’unica fonte della sovranità (e l’unico motivo per vivere e per morire) è il corpo collettivo nazionale. Il campo internazionale diviene l’agone in cui quest’ultimo lotta per la supremazia o per la sopravvivenza; e per tali fini qualunque mezzo è considerato lecito.
Anche le scienze che pretendono di descrivere la natura umana ritengono che il conflitto sia innato (si pensi a una certa volgarizzazione dell’evoluzionismo); la guerra diventa evento naturale, etico, persino poetico (si pensi al Futurismo). Il conflitto diviene allora potenzialmente totale e si pone al di là di qualunque tentativo di dettargli legge; lo stesso “concerto delle nazioni” serve solo a garantire periodi di pace che sono “tregue”, utili alla preparazione di nuovi scontri. E dal momento che la guerra è legittima o inevitabile, gli aspetti più crudi del conflitto suscitano meno orrore.
Così descriveva questa nuova fase, nel 1932, Benedetto Croce, scrivendo la Storia d’Europa nel secolo XIX: «La guerra, il sangue, le stragi, le durezze, la crudeltà non erano più oggetto di deprecazione e di ripugnanza e di obbrobrio, ma come cose necessarie ai fini da conseguire, si facevano accettevoli e desiderabili, e si rivestivano di una certa attrazione poetica, e perfino davano qualche brivido di religioso mistero, per modo che si parlava della bellezza che è nella guerra e nel sangue e dell’eroica ebbrezza che solo per quella via all’uomo è dato celebrare e godere». Chi in quel contesto voleva essere operatore di pace doveva rovesciare la prospettiva e rifiutare l’omologazione nazionale: cosa tutt’altro che facile o indolore. Ma se non si riconosce un supremo interesse dell’umanità, ogni orrore diviene lecito.
Dopo Hiroshima: fuori dall’età del ferro?
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, di fronte al rischio nucleare, una guerra di distruzione totale divenne tecnicamente possibile e, insieme, “impossibile”, nel senso di “contraddittoria” rispetto a qualunque fine imperialista ci si volesse proporre. Nacque l’equilibrio del terrore e, con esso, la teoria della guerra giusta divenne insensata. L’umanità fu costretta a pensare come limitare la forza distruttrice che aveva a disposizione.
Fu una trasformazione epocale: l’idea della guerra come fatto totale, permanente e “naturale” perse plausibilità perché era divenuta equivalente alla distruzione totale. Le organizzazioni internazionali si diedero lo scopo di «proteggere le generazioni future dal flagello della guerra»; nacque un’opinione pubblica che, su scala planetaria, elaborò vari progetti di futuro che non prendevano in considerazione la prosecuzione della contrapposizione nazionale. Per qualche decennio sembrò possibile indicare uno scenario di uscita dall’“età del ferro”: padre Zanotelli giunse a prefigurare la nascita di un tabù della guerra simile al tabù dell’incesto (come spariscono i popoli che non rifiutano il matrimonio tra consanguinei, così è destinata alla rovina una civiltà che non è capace di superare il conflitto indiscriminato).
Gli ultimi decenni hanno reso evidente che la strada da percorrere è ancora lunga. Aver accantonato la prospettiva della guerra di distruzione totale non ha portato dovunque la pace; le guerre si contano ancora a decine, anche se non sono certamente riconducibili alla stessa categoria, né possono essere facilmente assimilate a quelle del passato.
Tra le novità c’è l’indebolimento non solo delle nazioni, ma degli Stati stessi, e conseguentemente la difficoltà di individuare quale sia il princeps che con la sua auctoritas potrebbe garantire almeno la pace interna: è quasi un riaffacciarsi di un certo “ordinamento signorile” di stampo medievale, che rende la situazione fluida e di difficile leggibilità. Novità assoluta è la possibilità – almeno teorica – di porre sotto i riflettori della cronaca i fatti che avvengono, anche se ciò non sempre e necessariamente contribuisce a limitare e circoscrivere i conflitti.
Di volta in volta i costruttori di pace devono chiedersi quali siano i mezzi per operare, senza potersi rifare alle esperienze di un passato che aveva altri capisaldi. Di giorno in giorno si pone il problema di come proclamare una eirene, di come stabilire una pax. Dopo di che, lo shalom è sempre dono di Dio.
Pubblicato su “Il Margine”, n. 8/2015.