Viviamo in tempi estremamente complicati con novità che ci sfidano a intraprendere nuove indagini e a tentare nuove comprensioni.
Importanti figure maschili – sia del secolo scorso o dell’attualità – sono state oggetto di accuse che, benché non ingiustificate, sono state spesso accompagnate, nella rete, da critiche estremamente feroci, tese a squalificare la loro autorità morale, intellettuale, religiosa, artistica.
Accusati
Vedo, per esempio, articoli sulla persona di Pablo Picasso qualificato come un abusatore: un uomo senza principi, narcisista, manipolatore, tipico rappresentante del patriarcato violento e misogino. Per altre figure, quali Paul Éluard e Guillaume Apollinaire, supposti erotomani e abusatori, l’analisi della personalità, senza dubbio giustificata, arriva a squalificare l’intera loro produzione artistica, perché si suppone che la violenza manifestata sia parte costitutiva del processo creativo.
Penso anche ad Heidegger e alla diffusa tendenza a squalificare tutto il suo pensiero filosofico a partire dalla sua adesione a Hitler e al partito nazionalsocialista.
Ora assistiamo alle investigazioni e alle critiche dell’operato dell’affermato artista e teologo gesuita Marko Rupnik. In ambito cattolico, si discute se sia etico e legittimo continuare ad ammirare i suoi mosaici presenti in santuari, cattedrali e chiese di tutto il mondo.
Si arriva alla licenza – che mi pare eticamente ingiustificabile – dell’uso di un pettegolezzo mafioso da parte di Pietro, fratello di Emanuela Orlandi, che ripete il racconto delle imprese notturne di papa Wojtyla, che sarebbe frequentemente uscito dal Vaticano, accompagnato da due monsignori polacchi, andando per Roma «non certo per benedire le case».
Da ultimo, almeno per il momento, il caso del grande intellettuale di Coimbra, Boaventura de Sousa Santos, accusato di “assedio sessuale” da tre alunne della facoltà di sociologia.
Tutto ciò è, per me, l’esito di analoghi regolamenti di conti nel verso del patriarcato tradizionale: la pedofilia nella Chiesa cattolica; il movimento Me Too, ontro la violenza e le molestie sessuali inflitte alle donne, soprattutto sul posto di lavoro.
Un sistema da minare alla base
Per capire un po’ di più la questione degli abusi, considero un articolo di André S. Musskopf, molto importante per far luce nel dibattito.
Costatazione fondamentale dell’autore è che «la maggioranza degli uomini continua ignorando volutamente che il fatto di essere uomini garantisce loro privilegi e che questa questione basilare, per sé stessa, si costituisce come un abuso, che si concretizza in forme diverse nelle relazioni personali e collettive».
Insomma, noi uomini siamo ciechi quanto alla necessità critica, etica e politica di riconoscere e smascherare il sistema patriarcale in cui ancora viviamo.
In questo senso, Musskopf insiste dicendo che gli uomini denunciati – anche quando le accuse possano rivelarsi infondate e gli accusati risultare innocenti – non possono assumere il ruolo di vittime. Infatti, nella strutturazione patriarcale della società, sono costitutivamente privilegiati, gerarchicamente privilegiati: «Quale uomo potrà dire che la sua semplice presenza in uno spazio in cui ci sono delle donne, specialmente se può ostentare un titolo (politico, universitario, religioso), non potrà interferire sulla forma che possono assumere le relazioni interpersonali e sul modo di prendere decisioni? Essere un abusatore – o partecipare della classe degli abusatori – non è qualcosa che dipende necessariamente dai nostri atti, ma da un sistema del quale siamo partecipi e che ci pone in questa posizione».
Sottoscrivo questa lettura radicale del patriarcato, ma, davanti agli esiti inevitabili di questo processo che rende evidente la crisi irreversibile in cui sono coinvolte le autorità maschili della politica e della religione, mi chiedo quali sono le possibilità interpersonali e politiche di costruire alternative alla distruzione del sistema gerarchico, claudicante, ma ancora funzionante.
Infatti, se l’autorità maschile non riesce più a convincere, quale indiscutibile potere carismatico, quali modelli pedagogici e organizzativi costruiremo per garantire legittimità e sicurezza alla vita sociale?
Reagire ad una visione disfattista
È necessario, prima di formulare alcune proposte, soffermarsi a considerare lo stile violento ampiamente presente nella rete, in cui la denuncia di politici, religiosi, intellettuali e artisti per i loro presunti o reali comportamenti pervertiti e corrotti sostanzialmente coincide con la diffusione della convinzione che tutto è negativo e che giustizia, verità e bontà sono solo illusioni: insomma, che la scommessa sulla possibilità di costruire l’umanità è destinata al fallimento.
Dovrebbe valere per questi soggetti la raccomandazione di Gesù di Nazareth, che ci ripete: Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei (Gv 8,1-11) o l’antropologia di Lutero, che definisce il fedele «simul justus et peccator», ovvero l’antica saggezza proverbiale brasiliana: «Se hai il tetto di vetro, non scagliare sassi sui tetti degli altri».
Quanto detto, evidentemente, si riferisce alla necessità di lasciarsi orientare nei rapporti personali e politici dal discernimento etico e non dal preconcetto, dall’odio e dall’inimicizia.
Quanto detto, quindi, non esclude la necessità di trattare gli abusi e gli abusatori in via diritto penale e in via diritto canonico. Valga, però, il richiamo indirizzato a chi detiene il potere politico e religioso sull’insufficienza dei necessari provvedimenti giuridici, se desideriamo affrontare davvero e radicalmente l’abuso costitutivo del patriarcato.
Sia quindi benvenuta la crisi mortale delle gerarchie patriarcali, perché ci offre la possibilità di sperimentare metodi di esercizio collettivo del potere di decidere strategie e priorità nelle istituzioni e nei movimenti della società civile.
Democrazia, collegialità, sinodalità
Ci sono tre parole chiave per descrivere la fattibilità dei processi organizzativi alternativi: democrazia, collegialità, sinodalità.
Anche in questo caso dobbiamo appellarci a soggetti che riescono a convertirsi a metodi democratici effettivi, oltre i limiti angusti della formale – e non reale – democrazia occidentale.
Bisogna scommettere su uomini e donne che siano profondamente convinti della letalità delle istituzioni autoritarie, quando uno solo comanda, mentre il resto caninamente obbedisce: e così sappiano costruire metodi e criteri, cammini collegiali nell’amministrazione delle organizzazioni sociali.
La collegialità esige che in ogni circostanza le informazioni siano contemporaneamente processate dai membri del collegio. Cosa difficile da digerire da parte di molti nostalgici della monarchia, che, infatti, monopolizzano le informazioni per garantire il potere di chi sa e di chi decide. Soggetti – questi – che riescono a sabotare i processi collegiali, assumendo il ruolo di chi decide senza consultare i colleghi e le colleghe.
Sinodalità, dunque: un appello ecclesiologico di papa Francesco per costruire, con Gesù di Nazareth, comunità fraterne e sororali, per camminare oltre l’egemonia clericale. Anche questo è un percorso necessario, ma obiettivamente difficile perché in opposizione a tradizioni secolari che configurano il potere del clero come funzione sacra.
Così la sinodalità è oggetto di contestazione e di resistenze ritardatarie da parte di molti vescovi e preti. E pure da parte di settori significativi del laicato, perché non riesce a comprendere le incertezze e le sfide del presente. E preferisce rifugiarsi nelle presunte sicurezze del passato.
Personalmente nutro poche aspettative sulla capacità (e forse anche sulla volontà) della gerarchia ecclesiastica di auto-riformarsi. L’esempio degli abusi sta lì a dimostrarlo, tanti discorsi e profluvi di disposizioni normative ma alla prova dei fatti i limiti restano evidenti (vedi imbarazzante gestione del Rupnikgate). Non basta cambiare le norme (queste sono sempre “manipolabili”), occorre cambiare prassi e, per usare un eufemismo, la “forma mentis” del clero e dei vescovi. Ma per questo ci vuole un cambiamento di paradigma identitario e culturale, cosa che richiede tempo e una ferrea e condivisa determinazione. Se però i fatti mi daranno torto al riguardo, sarò ben felice di riconoscerlo
Penso che per sradicare il sistema di abusi non sia necessario semplicemente superare il patriarcato. Per superare il sistema di abusi, penso che sia necessario oltre alla sinodalità, anche la provvisorietà degli incarichi e un sistema di controllo terzo antiinsabbiamento.
e non solo, quando vi è stato un decreto Vaticano, o addirittura specifico del Santo Padre, bisogna provvedere subito affinché il soggetto non svolga le sue attività come se niente sia successo! e il mondo mediatico e delle diocesi venga informato che certe difese da vittima del sistema sono fumo negli occhi, vista l’impossibilità di fermare certe attività. Ogni riferimento vale.
L’attuale struttura clericale, che ha generato il sistema degli abusi, non è identificabile con i conservatori, i progressisti o i tradizionalisti. Vorrei dire che già Benedetto XV con la promulgazione del Codice di Diritto Canonico nel 1917 aveva posto pene severissime per i preti abusatori ma tutto è continuato come niente fosse. Le regole vanno applicate senza fare sconti.