Le cronache di questi ultimi tempi sono farcite di morti ammazzati. La strage di Nizza, le vendette in Turchia, le uccisioni degli afroamericani prima e dei poliziotti poi negli USA… hanno occupato le prime pagine dei quotidiani e hanno dettato i palinsesti delle Tv. Senza contare la “normale” cronaca nera fatta per lo più di femmicidi, di ammazzamenti per futili motivi, di regolamenti di conti tra bande rivali…
Un autentico festival della morte, che ci obbliga a soffermarci e sostare accanto a ineludibili interrogativi.
Togliere la morte dalle mani del becchino
1. Perché pensare la morte? Immediatamente a ridosso di questa domanda va posto un paletto: la morte non può essere ridotta a una questione astratta, poiché è sempre un evento nominale, al di là del quale non esiste. La morte ha sempre un nome proprio da cui solo parzialmente si può prescindere per tracciare qualche linea generale di pensiero. Essa perciò rimane affidata sempre, in modo sostanziale, a un pensiero narrativo, anche se, evidentemente, non si chiude a una speculazione teorica.
«L’idea di morte, se teorizzata e pensata come un destino impersonale, finisce per non essere una realtà per nessuno, mentre essa permea l’esistenza umana, ed è possibile parlare di essa solo tramite l’osservazione che di tale fenomeno si fa degli altri. è l’esistenza stessa che viene coinvolta, non come evento accidentale privo di significato sulla vita, ma come possibilità suprema dell’uomo, insuperabile, “possibile a ogni attimo”, quindi certa, che pone l’uomo davanti a se stesso in modo autentico».[1]
Un’altra osservazione lapalissiana: se fossimo animali, non dovremmo pensare la morte. Ma noi siamo uomini e, per questo, l’argomento della morte ci spetta come tema proprio, nonostante che tutti gli esseri muoiano. è nota l’osservazione volterriana: «Solo la specie umana sa di dover morire, e lo sa solamente tramite l’esperienza».[2] L’elemento tipicamente umano non risiede unicamente nella consapevolezza del fatto della morte, ma anche nella consapevolezza della sua necessità: «Voltaire dice che si tratta di un’esperienza il cui contenuto reale non è solamente il fatto di morire, ma anche la certezza di dover morire».[3]
Di per sé, quella di cui parla Voltaire è solo «una necessità approssimativa», la sua espressione «si conformerebbe all’antropologia dominante della sua epoca, che considera e definisce l’uomo come un essere di ragione».[4] Tuttavia – osserva P.L. Landesberg – «sembra […] che l’espressione “tramite l’esperienza” contenga oggettivamente molto più di quanto Voltaire stesso pensasse chiaramente, e che questo contenuto più oscuro e più patetico ci conduca a una nuova ricerca».[5]
Perciò, possiamo dimenticare molte cose e molte di fatto le dimentichiamo, ma la morte resta sempre in cima ai pensieri e sul pianoro più scuro della memoria: non è né saggio né umano, né religioso né cristiano dimenticare la morte: è invece oltremodo importante per la sensatezza che dobbiamo dare al nostro vivere e la responsabilità con cui regolare le proprie cose e impostare le relazioni.[6]
2. Ripensare la morte. Dedichiamo tanto tempo alle cose che diciamo (e a come dirle: retorica), alle cose che facciamo (e come farle: tecnologie diverse), alle cose che progettiamo (e a come progettarle: futurologia), s’impone l’urgenza di abbandonare il mutismo e di riconciliarci con essa,[7] riprendendo a coltivare la fiducia che anche il problema della morte è, per grazia, risolvibile.[8] Questo comporta di non arrendersi mai ad essa[9] e di non averne più paura perché la nostra morte, come tutto di noi, finirà nelle mani di Dio.[10]
Riportare la morte nell’ordine del pensare è fondamentale, ma non è scontato che lo si faccia: purtroppo, l’uomo è capace di dimenticare i suoi obblighi più gravi, le sue date maggiori, le persone più care, i benefattori più generosi, i maestri più decisivi, Dio perfino: è anche capace perciò di dimenticare la sapienza di pensare la morte; egli si limita ad averne sporadici pensieri e spesso la espelle dal cerchio delle cose che contano. L’uomo insomma fa fatica a pensare la morte e ne ha perfino fastidio: in tanta parte la deposizione dell’idea di morte dipende dal fatto che egli oggi rimane avvinghiato nelle spire dell’effimero e nel vortice di un attivismo stressante che scoraggia i rientri prolungati dentro di sé e, di conseguenza, impedisce anche una seria meditatio mortis.
Il vasto silenzio intorno alla morte, che investe tanti saperi e tante plaghe della cultura alta e bassa, si manifesta anche nell’invecchiamento del pensare filosofico che esclude da troppo tempo il tema della morte dalle sue attenzioni. Non mancano, da ultimo, spiragli di ripresa della riflessione su di essa in filosofia[11] e a livello interdisciplinare.[12]
Non una volta soltanto è stato notato che la filosofia e la religione sono sempre e dovunque considerate come due saperi specifici sulla morte, sebbene per dirne, talora, cose opposte: si ricordi che per Arthur Schopenhauer «la morte è il genio ispiratore della filosofia» e «tutte le religioni e tutte le filosofie sono un contravveleno alla certezza della morte».[13] Ma bisognerà accontentarsi di riconoscere alla morte il ruolo ispiratore del filosofare, magari su plaghe tematiche diverse da essa (questioni di vita individuale o anche problematiche comunitarie e politiche…), mentre su di essa si dovrebbe solo tacere? è così?
3. Pensare nell’idea della morte. Non è possibile accettare un agnosticismo della morte: non si vive in una accettabile sensatezza pensando fuori dell’orbita della morte. Basta forse una posizione atea per vivere senza l’orizzonte di morte? Da parte dei cristiani si richiede un delicato discernimento anche nei confronti dell’ottica laica che, su questo tema, rovescia quella cristiana conservandone però qualche tratto significativo.
La ragione, quando non è frenata da pregiudizi, ed è aperta alla ricerca, si orienta al mistero e bussa alla sua porta non con atto d’indigenza umiliante, ma nello slancio a volersi elevare fino a oltrepassarsi. La ragione non si umilia a cercare il mistero, né si umilia la fede a cercare la ragione: di là degli esiti di queste ricerche, l’espandersi della fede verso l’orizzonte della ragione e lo sforzo ascensivo della ragione verso i cieli della fede sono movimenti che si mostrano in sé motivati, dinamici e potenti.
4. Per dire la morte serve la “parola”, non la “chiacchiera”. Pensare la morte non può significare solo e anzitutto parlare della morte, sebbene il poter parlare della morte con sensatezza è già un’affermazione filosofica importante: la sua rilevanza è già un grosso frammento della sua verità. Tuttavia, è pur vero che ogni cosa che l’uomo riuscirà o ardirà dire su di essa è un pensiero fumoso e inautentico. In particolare si tenta di «sfuggire il caso serio della “mia” morte, chiacchierando su quella degli altri»;[14] così oggi si fa tanto rumore intorno alla morte per non sentirne la voce che ci chiama per nome.
È un punto d’onore del cristianesimo saper dire la morte al singolare: in ciò esso esprime e impegna una delle sue genialità più specifiche. Questo è misteriosamente sorprendente perché l’attenzione alla singolarità (il cui oscuramento è giudicato come un vero pericolo[15]) è curata da una religione che fa della communio la sua verità distintiva, perché la ritiene anzitutto una verità e un nome del Dio trinitario.
è impressionante come a un granitico e cinico mutismo sulla morte oggi corrisponda un altrettanto cinico parlare della morte di pari proporzioni. Essa è stata privata della dignità e dell’onore, svestita, con impudicizia, dei veli della riservatezza e della segretezza, non considerando che perfino gli animali li trattengono: alcuni di essi, prima di morire, si staccano dal branco, s’allontanano dal loro ambiente per andare a morire altrove. Anche l’uomo talora lo fa.
La morte è evento che ha la sua terribilità, ma oggi l’uomo l’ha moltiplicata, involgarendone l’evento con discorsi gridati e con immagini agitate in modo meno che degno; in tal modo la dignità dell’evento precipita al basso della banalità e della brutalità del puro fatto.
5. Morte e riservatezza. Non bisogna dimenticare – neppure per un poco – che non esiste uno che sia davvero in grado di trattare la morte in modo perfetto: a cominciare da questa meditatio mortis, ognuno che scrive o parla su questo tema lo fa senza averne diretta esperienza; i morti invece, che ne hanno, non ne scrivono, non ne parlano e non la rappresentano. Tuttavia, anche prima dell’esperienza mortale, ogni vivente è capace di una sorta di anticipazione della morte nella propria esistenza, specialmente dinanzi alle spoglie mortali di un amico, di un congiunto e, in modo del tutto singolare, dinanzi al cadavere della propria madre.
Quest’ultima notazione ha senso rigoroso: la morte della madre, più di ogni altra, è in grado di creare l’anticipazione della morte. Siccome il legame di vita con la madre è il rapporto essenziale, la sua interruzione è la più dolorosa e la più forte, la più evocativa e la più duratura, in assoluto la più rivelativa del senso della vita e della stessa morte.
Una conferma di tutto questo è data dal fatto che la madre – quando è una vera madre – desidera morire lei in luogo del figlio e – se credente – chiede addirittura a Dio di riprendersi lei, anziché veder morire il figlio.
Confronto saggio con la morte
1. La faccia brutale della morte. Le tragedie del Novecento con le loro policrisi (le due guerre mondiali, i genocidi, la Shoà, il sovvertimento della geografia politica nella sua ultima fase) hanno condizionato anche la riflessione filosofica e teologica su Dio. Il Dio “tappabuchi”, che appariva or qui or lì in filosofia e in teologia, ha finito per cedere sotto i gravami di un secolo dall’identità incerta e contraddittoria. Il Dio amorevolmente “debole” non può esimersi dal condividere la vita delle sue creature e, quindi, neppure l’esperienza ineffabile della morte – il paolino “ultimo nemico” – nel tentativo estremo di svuotarla dall’interno.
E questo, se così si può dire, lo potrà fare soltanto questo Dio “silenzioso” e “nascosto” che però, sub contraria specie, manifesta un’amorosa ricerca della sua creatura prediletta che, per lui, anche se spesso orribilmente sfigurata, conserva una traccia del volto originario sul quale quello dell’uomo è stato modellato (cf. Ef 1; Col 1). Attratto da quella sembianza, Dio, il Vivente, non può tollerare la morte dell’uomo.
Comunque, paradossalmente, la morte rappresenta la vera prospettiva della vita: dalla fine, e perciò da essa, viene la luce per autenticare, dal punto di vista valoriale, ciò che c’è, ciò che si è avuto, ciò che si vuole ancora. Il varco della morte è un movimento essenziale per dare ordine e senso alla vita: in esso si dà come «il montaggio fulmineo di una vita» (Pier Paolo Pasolini).
Questa naturalità della morte, che si esprime nell’ordinare e nel riordinare la vita, oggi non è più considerata: nel pensiero antico invece è sapientemente assimilata l’idea che dalla terra veniamo e alla terra ritorniamo, cosicché l’oscurità della morte e la brevità della vita non sono di certo motivo di gioia, ma nemmeno di scandalo. Saggezza e buonsenso aiutavano gli antichi ad accettare il destino, spesso crudele, ritenuto la fine inevitabile di un tempo dato in modo misurato a ogni essere vivente. La sorpresa della morte, nella visione di tale epoca, in fondo consiste nell’intervallo di tempo più o meno ampio fra la nascita e la fine.
Oggi siamo testimoni di una denaturalizzazione della morte. La civiltà industriale, quella post-industriale e informatica hanno distrutto i ritmi della vita naturale: la morte è pianificata all’interno di progetti di genocidio; la medicina tecnologica compie continui “miracoli”, dentro una inesausta modifica dell’esistente, in vista di una vita lunga e di buona qualità.
Mentre la vita, per così dire, si dilata, la morte invece si fa nascosta e celata, viene allontanata dalle case, affidata agli ospedali, esclusa dal lamento pubblico delle antiche veglie e consolata solo con un pianto pudico e al massimo velato. In tal modo la morte è anche deritualizzata e consegnata alla gestione dei soli soggetti interessati all’accadimento della morte che, immersi in un vortice di dolore e da esso disorientati, vengono privati di un elemento che aiuti a inquadrarne l’evento dentro coordinate conosciute e condivise.
2. La morte è anche buona. Una domanda: può essere buona la morte? A tale domanda è difficile dare una risposta inequivoca. Nel mondo biblico, nel quale si cerca di trovare una responsabilità dell’uomo nel darsi della morte, appare non di rado l’idea della bontà della morte. L’esemplificazione più plastica è data dalle descrizioni delle lunghe esistenze di molti personaggi biblici, che vanno incontro a una morte buona che chiude una vita ricca di anni, gratificante e benedetta da un’innumerevole discendenza. Così Abramo muore sazio di vita e si unisce ai suoi antenati; ma è anche paradossalmente vero che una morte violenta e ingiusta possa essere interpretata come buona, come Gesù insegna con la sua morte sacrificale, offerta al Padre come Figlio essenziale e agli uomini come Fratello necessario.
Da sempre c’è stato anche chi ha percepito la morte come sollievo da una vita di dolore e in sé come accadimento privo di senso; ma forse, anche per l’età contemporanea, alle prese con nuovissime questioni etiche poste dallo sviluppo delle scienze, s’affaccia l’idea bizzarra di una morte intesa come buona in quanto non prefabbricata ma confezionata su misura per ogni singola persona (si tratterebbe di una rispettosa morte “di sartoria” contrapposta a una morte anonima da pret-a-porter).
Tuttavia, anche oggi, accanto a una morte “buona”, c’è una morte ritenuta “cattiva” che sembrerebbe, in verità, prevalere nettamente sulla prima soprattutto nella percezione comune. Già anticamente la morte del giovane e del giusto aveva di fatto costituito un problema per molti versi insolubile. L’inaccettabilità della morte cresce quando il suo darsi è aggravato da condizioni particolarmente disumane. Così oggi tra le forme di morte meno accettabili vi sono quelle dei bambini, quelle degli uomini più giusti e amati che non si vorrebbe mai lasciare, quelle delittuose e particolarmente efferate.
Non si dovrebbe distinguere tra morte e morte, poiché essa è scandalo e mistero sempre, non solo quando colpisce in modo acceso la sensibilità; tuttavia più l’esistenza è segnata da assurdità, più la morte ne aggrava la comprensione aprendosi, di conseguenza, il varco verso un’esistenza diversa, ultramortale. Difatti, l’idea di una qualche vita oltre la morte (su questa stessa terra o nell’ambito di una realtà ultraterrena) trae origine proprio dall’impossibilità in molti casi di rintracciare la realizzazione di un criterio della giustizia nell’ambito delle singole esistenze.
La morte, talvolta preceduta da indescrivibile e incomprensibile sofferenza, continua a non potersi giustificare, ed è vano il tentativo di ricercare nella morte, come evento chiuso in sé, un qualche senso, magari illudendosi di trovarlo soltanto nelle tracce talvolta positive lasciate da tale evento nella vita di chi resta.
[1] R. Zanchetta, L’evento della morte nella realtà e nella cultura odierna. Aspetti antropologici e sociologici, in Rivista teologica (Morte e sepoltura tra cultura e fede), 95/5 (2006) 674.
[2] Voltaire, Dictionnaire philosophique, in Oeuvres completes, III, Garnier Frères, Paris 1879, p. 376.
[3] Voltaire, Dictionnaire philosophique, in Oeuvres completes, III, p. 376.
[4] P.L. Landesberg, Il silenzio infedele. Saggio sull’esperienza della morte, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp. 18-19.
[5] P.L. Landesberg, Il silenzio infedele. Saggio sull’esperienza della morte, p. 19.
[6] Cf. Seminario di Brescia (Quaderni del), Di fronte alla morte, Morcelliana, Brescia 2009.
[7] Cf. Gabriel de Saint Victor, La morte conciliata, Il Messaggero, Padova 2009.
[8] Cf. F. Hadjadj, Farcela con la morte, Cittadella, Assisi 2009.
[9] Cf. G. Greshake, Vita più forte della morte, Queriniana, Brescia 2009.
[10] L. Basset, La morte fa paura agli uomini, non a Dio. Un nuovo legame con chi non c’è più, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2009.
[11] Cf. V. Melchiorre, Al di là dell’ultimo. Filosofie della morte e filosofie della vita, Vita e Pensiero, Milano 1998; D. Monti (a cura), Che cosa vuol dire morire. Sei grandi filosofi di fronte all’ultima domanda, Einaudi, Torino 2010.
[12] Cf. Aa.Vv., Morte. Fine o passaggio, a cura di I. Dionigi, Rizzoli, Milano 2007; P. Cascavilla – M. Illiceto, Dialogo sulla morte, Il Messaggero, Padova 2009.
[13] A. Schopenhauer, Die Welt, I, § 54; II, c. 41. Citazione in: G. Faggin, Morte, in Enciclopedia Filosofica, IV, Sansoni, Firenze 1967, p. 823.
[14] A. Bonora, Morte, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, (edd.) P. Rossano, G. Ravasi, A. Girlanda, San Paolo, Cinisello B. (MI) 1988, p. 1012.
[15] Cf. K. Rahner, I pericoli nel cattolicesimo di oggi, Paoline, Alba 1961.