Se mio padre fosse vivo, l’anno prossimo compirebbe cento anni. Ne aveva diciannove quando, nella primavera del 1943, ricevette la chiamata alle armi. Dal ’43 al ’45 se ne andarono così due anni della sua giovinezza, sacrificati alla guerra.
Di quel tempo lontano in cui mio padre era poco più che un ragazzo mi rimangono delle fotografie, alcuni racconti, molte silenziose reticenze e una testimonianza, coerente negli anni, di fedeltà al ricordo di chi, da quella guerra e da tutte le guerre, non era potuto tornare.
Fino alla fine della sua vita, mio padre non mancò mai di partecipare alle cerimonie commemorative del 25 aprile e del 4 novembre, reggendo il gagliardetto degli ex combattenti e reduci. Una partecipazione composta e priva di retorica, senza enfasi, senza esaltazione. «La guerra è una cosa brutta», mi diceva.
E, nel nostro dialetto che suona così perentorio e privo di smancerie, la bröta roba della guerra mi si è palesata davanti agli occhi fin da bambina come una verità apodittica, che nessun tentativo mistificatorio avrebbe potuto in qualche modo abbellire, giustificare o legittimare.
Ho parlato molte volte di guerra e di guerre con mio padre. «Un uomo con un fucile in mano non è più un uomo», mi diceva. C’era in quella frase tutta la forza di una verità vissuta nella carne – parole dolenti che scendevano come un sudario a coprire l’orrore sperimentato in sé e su di sé.
Le parole di mio padre sono ritornate, da molti mesi ormai, ad accompagnare i miei pensieri e le mie riflessioni. Le sento risuonare dentro come una nota profonda, un basso continuo, mentre ascolto e leggo notizie dai fronti di guerra di questa terza guerra mondiale a pezzi, la cui evidenza è ormai sotto gli occhi di tutti.
The Unwomanly Face of the War
Ho terminato in questi giorni la lettura di un libro di Svetlana Aleksievič dal titolo The Unwomanly Face of the War, in italiano La guerra non ha un volto di donna.
La scrittrice bielorussa, Nobel per la letteratura nel 2015, in questo romanzo documentario, che ha tutta l’intensità di un memoriale, ha raccolto la testimonianza di centinaia di veterane sovietiche della Seconda guerra mondiale.
Un milione di donne soldato prese parte alle azioni belliche dell’Armata Rossa: cuciniere, lavandaie, infermiere, ma anche fanti, carriste, aviatrici, tiratrici scelte. Un milione di donne. Eppure, a guerra finita, la loro presenza nel conflitto e la loro voce vennero sbrigativamente cancellate dalla trama delle narrazioni ufficiali.
Una volta terminata la Grande Guerra Patriottica, i ruoli di genere dovevano tornare a essere ben definiti: gli uomini al lavoro, le donne dentro le case, ad occuparsi di figli e marito – niente, più niente a che fare con eroismo o valore militare. Senza contare, poi, che menzionare la presenza delle donne soldato nell’Armata Rossa avrebbe significato dover ricordare i motivi per i quali l’Unione Sovietica si era trovata costretta a chiamare alle armi le donne – le pesantissime perdite, milioni di vite umane, subite dall’esercito sovietico fin dai primi anni del conflitto.
La narrazione autorizzata della Grande Guerra Patriottica, declinata esclusivamente in chiave celebrativa, doveva presentare la Vittoria ripulita da ogni nefandezza, priva di sozzure, luccicante di medaglie, limpida e gloriosa, gonfia di onore e di epico eroismo. Non poteva esserci spazio per altre narrazioni.
Alla rappresentazione istituzionale, ufficiale e “maschile”, sostanzialmente indiscussa, della Storia e della guerra, Svetlana Aleksievič contrappone le storie, piccole e vere, delle singole persone, con tutte le loro debolezze, le loro viltà, le loro sofferenze, i loro dubbi e i loro interrogativi.
E così, allo sgretolarsi del muro di silenzio che aveva tenuto imbrigliata per decenni la voce delle donne, tutta un’altra storia, tutta un’altra guerra, emerge da questi racconti. Una guerra in cui l’amore per la patria, per quanto forte e appassionato, non fa mai sconti all’orrore e al dolore per ciò che è accaduto.
Scorre, nelle pagine della scrittrice bielorussa, la stessa linfa dolente che attraversa Il mondo dei vinti e L’anello forte di Nuto Revelli. Quando a parlare sono i sommersi e i vinti della storia, l’altro volto della guerra è un volto insensato e ingiustificabile, un volto su cui la retorica delle celebrazioni ufficiali, con il suo corredo di armamentari bellici, vessilli e medaglie, con la sua contabilità vittoriosa che azzera e annichilisce il valore della singola vita umana, non può permettersi e non può permetterci di posare gli occhi.
Un uomo con il fucile in mano potrà essere un bravo soldato, ma non è più un uomo. Anche se nessun discorso ufficiale e, men che meno, nessun costruttore di armi lo dirà mai.
Una postilla: l’arazzo della storia
Nel III canto dell’Iliade, Ettore, figlio del re di Troia Priamo e fratello di Paride, propone una tregua ai due eserciti contrapposti, in modo che siano Paride stesso, per parte troiana, e Menelao, per parte achea, a combattere fra loro per decidere la sorte della guerra, evitando ulteriori spargimenti di sangue. Presi gli accordi e suggellati i patti, Paride e Menelao si affrontano in duello.
Dal loro combattimento sortirà un nulla di fatto, e Achei e Troiani torneranno a combattersi ancora, fino al ventiquattresimo e ultimo libro dell’Iliade; ma c’è un breve passaggio, all’interno di questo libro III, su cui vale la pena soffermarsi:
La trovò nella sala: tesseva una tela grande,
doppia, di porpora, e ricamava le molte prove
che Teucri domatori di cavalli e Achei chitoni di bronzo
subivan per lei, sotto la forza d’Ares (Iliade III, 125-128).
Mentre Paride e Menelao si preparano al duello nella piana davanti alle mura di Troia, lo sguardo del narratore ci porta all’interno della città, dentro la sala del palazzo di Paride, dove ora dimora Elena, causa e motore della guerra. Elena è al telaio e tesse e ricama un grande arazzo: il racconto della guerra vista dai suoi occhi di donna.
Che cosa vedeva, Elena, che cosa pensava? Qual era la sua versione della storia? Non lo sappiamo, Omero non ne parla. Ci lascia soltanto questi quattro versi che parlano di una donna che guarda la guerra e la racconta con i fili intrecciati del suo ricamo.
L’arazzo della storia ricamata e raccontata da Elena è andato perduto. Allo stesso modo sono scomparsi infiniti altri racconti ricamati, scritti e cantati dalle donne, nel tempo breve – una manciata di secoli soltanto – che è la storia umana, in questa aiuola che ci fa tanto feroci.
Carissima Anita, grazie della tua riflessione.
«Un uomo con un fucile in mano non è più un uomo». Un uomo con il fucile in mano potrà essere un bravo soldato, ma non è più un uomo…nessun discorso ufficiale e, men che meno, nessun costruttore di armi lo dirà mai.
Che amarezza nel cuore a studiare storia che esalta il sub umano a discapito dell’umano. Fin dai primordi continua questa mistificazione: tra Caino e Abele si definisce Abele il perdente e Caino il vincitore, se si dicesse che Abele è un uomo e Caino ancora no, molti protagonisti di guerre e violenze verrebbero smascherati e tutti ci accorgeremmo di non avere a che fare con uomini, ma con “vermi” e da vermi non avrebbero tanto appeal come invece ne hanno quando vengono chiamati “magni”…
Una volta raddrizzata la storia capovolgendola apparirà anche chiaro che vera protagonista misconosciuta della storia è ogni persona che si è impegnata in percorsi senza fucili in mano e senza violenza, la donna in questo è da sempre stragrande protagonista e di storia e di Umanità…