Matteo Marabini è nato a Medicina, in provincia di Bologna ed è insegnante di storia e filosofia nella scuola superiore. È persona molto attenta e impegnata nell’ambito sociale, nel volontariato e nella Chiesa bolognese. Negli anni ’70 è stato responsabile del settore giovani di AC di Bologna. È stato amico ed è studioso di don Dossetti e della famiglia dossettiana.
L’ascolto dei canti in cui è evidente la sublimazione della guerra evoca in me due ricordi: il primo è un testo di Erasmo da Rotterdam che, fin dal titolo – Dulce bellum inexpertis –, racconta che la guerra è dolce solo per chi non l’ha mai vista in faccia; il secondo è l’incredibile spettacolo dello scorso 2 giugno, messo in scena a Roma, dove la sfilata delle forze armate e l’esibizione delle armi più micidiali erano accompagnate dalla banda che suonava il mormorio del Piave: «non passa lo straniero». E tutto questo con l’intento di festeggiare la Repubblica…
Potremmo aggiungere – per restare in tema – il nostro inno nazionale dove i «fratelli d’Italia» si cingono la testa con «l’elmo di Scipio» per «stringersi a coorte» e per giungere alla «vittoria» in nome della grande Roma: un inno che – se si guarda alle parole – è piuttosto difficile ascoltare come simbolo di una convivenza pacifica.
Allora tre brevi considerazioni che dicono tre costanti di lungo periodo della nostra cultura e della nostra storia.
1. La guerra come dato di natura
Se la guerra è pensata come un dato di natura, come la levatrice della storia, essa è inevitabile ed è la premessa e la condizione di un po’ di pace provvisoria.
Pertanto la grammatica condivisa delle relazioni tra uomini e popoli è la forza, la potenza, la vittoria, il culto narcisista della propria nazione, il rifiuto dell’alterità (appunto, «non passa lo straniero»).
Gli uomini, in tale prospettiva, si dividono in amici e nemici per cui non si può vivere senza un nemico. L’invenzione della “patria”, dei “confini” (oggi dei “muri”) non è che uno sviluppo di questo sguardo malato sulla vita.
2. Il divino convocato in guerra
Ma la guerra – al di là della retorica – è dura, spietata, impastata di sangue. E allora come convincere ad abbracciarla? La musica è stata asservita a questa funzione, a educare, a commuovere, ad appassionare, a incoraggiare e a eccitare. I ragazzi che, un secolo fa, venivano mandati al massacro, lo facevano al suono delle trombe e il ricordo dei caduti era avvolto nella quiete consolatrice della musica che favoriva la preghiera e dunque coinvolgeva il grande tutore di ogni guerra: il nome stesso di Dio.
Il divino veniva dunque convocato e il «Dio con noi» veniva scritto nei cinturoni dei soldati e i cristiani francesi e inglesi lo invocavano contro i cristiani tedeschi e viceversa e i cristiani italiani contro i cristiani austriaci e viceversa.
Il nome di Dio entra negli inni nazionali (tre volte è citato nel nostro) come garante dei «sacri confini», la morte in guerra diventa un «sacrificio» e i morti sono ricordati come «martiri» e si moltiplicano gli «altari della patria».
Oggi noi guardiamo con sconcerto e giusta indignazione i terroristi che si uccidono e seminano morte nel nome di Allah e vengono chiamati «martiri» e tuttavia dovremmo ricordarci che, per secoli, noi l’abbiamo fatto e abbiamo convocato la caricatura del Dio di Gesù Cristo come copertura blasfema della nostra violenza e della nostra menzogna.
3. La guerra come paradigma della società
Se la guerra è la levatrice della storia, se il divino stesso è trascinato ad esserne garante e protagonista, allora la storia e la vita sociale, anche nelle sue fasi non guerreggiate, è ad immagine e somiglianza di questa sua origine, di questo paradigma originario e generativo.
Ecco perché parole come competizione, successo, vittoria, primato, forza, superiorità sono un lessico famigliare e positivo della nostra società.
La guerra – pertanto – è davvero «la prosecuzione della politica con altri mezzi» (Carl Schmidt), anzi oggi dovremmo dire la «prosecuzione dell’economia con altri mezzi», ed è quindi pienamente rilegittimata come possibile opzione, sia nella sua versione più terribile, quella nucleare, sia nella sua versione di ordinaria distruttività che anche noi italiani stiamo praticando da anni in giro per il mondo.
Soltanto, le abbiamo cambiato nome e l’abbiamo chiamata «missione di pace», «missione umanitaria», «guerra per la democrazia», «guerra contro il terrorismo» e, da ultimo, «guerra contro i trafficanti di esseri umani» e «difesa avanzata» per difendere i nostri confini che negli ultimi giorni abbiamo scoperto trovarsi addirittura nel Niger…
Sono soltanto le varianti di una gigantesca menzogna che da quasi trent’anni ci avvolge, rispetto a cui il nostro spirito critico è atrofizzato e il dolore che seminiamo per il mondo (dall’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia…) è rimosso e neppure vogliamo accogliere chi fugge da quanto abbiamo seminato.
Il Vangelo e la guerra
Se la guerra, dunque, è la “normalità”, produrre e disseminare armi in ogni parte del mondo, dissanguare i bilanci pubblici per la spesa militare è talmente “normale” che oggi in Italia non viene messo in discussione da nessuna proposta politica che si presenti agli elettori. Semplicemente non se ne parla.
L’unico che tenta di spezzare questa coltre di “buon senso” stolto e cieco è papa Francesco, in evidente solitudine (gli episcopati europei sono timidissimi nell’appoggiarlo) e con una crescente opposizione dentro e fuori la Chiesa.
Eppure il cuore del Vangelo – e anche oggi lo abbiamo ascoltato – è che «il regno di Dio è vicino» ossia che nella storia e nei cuori degli uomini è operante questa forza rigenerante, questo dinamismo di risveglio e di giustizia che Gesù di Nazareth ha vissuto e ci ha narrato come il progetto, il sogno, l’urgenza di Dio: un Dio sottratto alla proiezione umana che lo raffigura come «Il Vendicatore», «Colui che punisce e castiga», «che addestra alla guerra e alla battaglia», «che stermina i nemici», e narrato invece come il Padre «che vuole misericordia e non sacrifici», che «fa piovere e sorgere il sole sui giusti e sugli ingiusti» che tutela la convivenza del grano e della zizzania, che invita a «rimettere la spada nel fodero», che «perdona settanta volte sette».
Rispetto a quella domanda, che in una sua celebre canzone Francesco Guccini poneva: «potrà mai l’uomo vivere senza ammazzare?» il Vangelo risponde di sì: l’uomo, anzi «la belva umana» – come lo chiama Guccini – ha la possibilità di uscire da questo gorgo di morte.
Essere «pescatori di uomini» non significa fare proseliti, ma trarre fuori dal gorgo della morte la nostra umanità.
E che questo orientamento di vita non sia così quieto e comodo ce lo suggerisce un detto di Gesù: «non sono venuto a portare la pace, ma la spada», ossia questa scelta non è una idilliaca passeggiata, è a caro prezzo, ma è l’unica scelta che ci renda umani.
Si possono declinare alcune vie di questo orientamento esistenziale? Ne propongo – e mi limito a enunciarle – cinque:
1. Vedere la storia dal basso
Vedere e cogliere la vita e la storia dalla parte dei vinti, degli esclusi, delle vittime. La “storia ufficiale” che studiamo a scuola non è questa e la narrazione della storia attuale da parte dei potenti e dei loro imperi mediatici non è certo in questa prospettiva, per questo è fallace e superficiale, «ciechi che guidano altri ciechi».
Vedere gli uomini per quel che soffrono, ancora prima che per ciò che fanno, può essere un criterio conseguente.
Si provi a pensare a tutta la narrazione delle guerre in corso e della “grande fuga” dei migranti se adottassimo questa attitudine e questo sguardo.
2. Svegliarsi dal grande sonno
Svegliarsi dal torpore e dal sonno dell’intelligenza e dello spirito che produce la “stupidità”, una sorta di ipnosi dello spirito critico che porta al ristagno del pensiero, all’acquiescenza, alla passività, all’indifferenza, a quella sorta di asfissia e di cinismo che è una porta spalancata per tutte le derive dell’umano, in particolare per il razzismo.
Oggi assistiamo inerti e assuefatti al ritorno delle “vite senza valore” (come definire altrimenti le migliaia di migranti lasciati annegare e lasciati tranquillamente senza nome, senza sepoltura e senza rimpianto?) e la diseguaglianza è codificata nelle leggi, nella disparità del diritto, nel giogo umiliante che è a tutt’oggi la legislazione italiana ed europea sulle migrazioni.
Stiamo commemorando con sdegno le «leggi razziali» di 80 anni fa e non ci accorgiamo delle «leggi razziali» di oggi.
3. La liberazione dagli idoli indiscussi
È urgente un percorso di liberazione da alcuni “idola”, dogmi indiscutibili, autentiche idolatrie che si sono installate nel senso comune.
Solo a titolo di esempio ne cito alcuni:
– L’interesse nazionale: può essere tutelato il nostro interesse e il nostro benessere prescindendo da quello degli altri popoli? Noi ne siamo convinti, ma per farlo e per tutelare l’apartheid europeo mandiamo gli eserciti a bloccare le vie di fuga dall’Africa e alziamo muri su muri.
– La crescita: è il dogma indiscusso e universalmente condiviso. E, proprio in nome della “crescita”, da trent’anni facciamo guerre per controllare le fonti energetiche e ora l’assalto si dirige verso le due grandi casseforti ancora poco esplorate: l’Africa e l’Amazzonia.
– Il nostro stile di vita: «Non ci faranno cambiare il nostro stile di vita»: questo è lo slogan ripetuto dopo i recenti assalti terroristici in Europa. E invece sì, è necessario cambiare il nostro stile di vita e non perché ci terrorizzano e ci uccidono, ma per una scelta di giustizia. Oggi è urgente una grande educazione all’autolimitazione, alla sobrietà, alla condivisione.
4. Discernere i segni di novità nel nostro tempo
Cinquanta anni fa Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio avvertiva che, perdurando l’iniqua distribuzione dei beni della terra, ci sarebbe stata una ribellione dei popoli impoveriti e umiliati. Credo sia necessario dirci che oggi è questo che sta avvenendo: finora è una ribellione fatta con i piedi e con le barche, ma la “collera” potrebbe presto trovare altre modalità.
Dobbiamo dirci che è un movimento di giustizia, non di invasione e che chiede una giusta restituzione di rapine antiche e recenti.
«Aiutiamoli a casa loro» – diciamo ipocritamente –, mentre li stiamo ancora spogliando di terre e di risorse e mandiamo gli eserciti a sigillarli “in casa loro”.
Ci aiuteranno invece loro a casa nostra (e già milioni di immigrati lo stanno facendo): sono il segno di una divina misericordia nei nostri confronti.
Ci salvano dalla disumanità, dalla chiusura in noi stessi, dalla solitudine, dalla sterilità, dall’assenza di futuro.
5. Educarci a diventare umani
Occorre educarci a ciò che custodisce e libera la nostra umanità: la mitezza, la libertà dall’odio, il perdono, il silenzio, la bellezza, lo stupore per la vita, la gratitudine.
Potremmo dire educarci a ciò che ha valore. Il noto e bellissimo testo di Erri De Luca – il cui titolo è, appunto, “Valore” –, ci può orientare e aiutare.
“Valore”
«Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca. Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano. Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’è il Nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore. Molti di questi valori non ho conosciuto».