Le osservazioni di un arcivescovo vaticano sul suicidio assistito, alimentate da una perfetta tempesta mediatica, con commenti di esperti e post sui social media, hanno messo in campo l’ultimo round delle guerre culturali in atto che dividono la Chiesa cattolica, dando all’ideologia la precedenza sulla realtà.
In una conferenza stampa il 10 dicembre, all’arcivescovo italiano Vincenzo Paglia, che dirige la prestigiosa Pontificia Accademia per la Vita, è stato chiesto da un piccolo gruppo di giornalisti se fosse opportuno che un sacerdote possa accompagnare una persona che sceglie di sottoporsi al suicidio assistito.
Il pretesto per la domanda era un documento di 30 pagine pubblicato dalla conferenza episcopale Svizzera, dove il suicidio assistito è legale. Il documento afferma che ogni sacerdote cattolico «ha il dovere di lasciare fisicamente la stanza del paziente durante l’atto suicida».
Paglia ha risposto: «Nella nostra prospettiva nessuno va abbandonato», prima di aggiungere immediatamente: «Noi siamo contro il suicidio assistito perché non vogliamo fare il “lavoro sporco” della morte, ci pensa già la morte a farlo. Accompagnare e tenere per mano chi muore credo sia un grande compito che ogni credente deve promuovere. Come ogni credente deve promuovere un contrasto alla cultura del suicidio assistito», ha detto.
I giornali italiani e la stampa cattolica hanno tratto il massimo dalla risposta di Paglia: «I sacerdoti possono “accompagnare” i suicidi assistiti»; «L’arcivescovo Paglia afferma che i sacerdoti possono essere presenti al suicidio assistito»; «Funzionario vaticano: tengo per mano la persona che muore per un suicidio assistito». Sono solo alcuni esempi dei titoli.
Ma ascoltando l’audio delle dichiarazioni di mons. Paglia si comprende come l’arcivescovo stava dicendo qualcosa di più sottile rispetto a quanto hanno riferito i giornalisti presenti e quelli che non lo erano. «Credo che sia un tema che va oltre le leggi», ha detto mons. Paglia «perché abbiamo bisogno non tanto di nuove leggi in una società individualista, abbiamo bisogno di un supplemento di amore, di un supplemento di corresponsabilità».
Secondo l’arcivescovo, il suicidio «resta una grande sconfitta» che richiede un «accompagnamento responsabile». Soprattutto, ha detto, «il suicidio è sempre una grande domanda d’amore inevasa. (…) Una società che corre verso una prospettiva di giustificazione del suicidio o in una prospettiva di lasciare soli quelli che non sono bravi, è una società crudele. Per questo sono convinto che mai nessuno deve essere abbandonato, in qualunque situazione si trovi».
Quando i giornalisti hanno insistito per una risposta più definitiva, mons. Paglia ha detto ancora: «Non voglio dare una regola. La scelta è sempre di chi è lì in quel caso», aggiungendo che la sua intenzione è «eliminare l’ideologia da queste situazioni».
Poiché il compito della Pontificia Accademia per la Vita è affrontare le questioni bioetiche, dall’aborto all’eutanasia, l’Accademia stessa ha sperimentato la sua giusta dose di controversie. Creata da Giovanni Paolo II, l’Accademia ha arruolato esperti qualificati per assistere la Chiesa cattolica nella protezione della vita e della dignità umana. Nel 2016 Papa Francesco ha rivisto le appartenenze ed il focus dell’Accademia, nominando 45 nuovi membri per avere una prospettiva più interreligiosa e globale. Ha anche spostato l’accento del think tank vaticano: dal considerare le questioni di vita dal concepimento alla morte naturale, per includere e affrontare gli impatti delle migrazioni, l’editing genetico, l’intelligenza artificiale.
La decisione del papa ha provocato un contraccolpo da parte di coloro che l’hanno interpretata come una riduzione dell’impegno per contrastare l’aborto e l’eutanasia. Paglia, percepito come un forte alleato papale, è stato preso di mira dai conservatori. Il trattamento riservato alle affermazioni di Paglia dovrebbe essere inserito nel contesto della più ampia battaglia contro l’Accademia e la sua dirigenza.
Nel tentativo di trasformare il tutto in un dramma politico, i resoconti hanno perso quelli che erano forse gli aspetti più interessanti della risposta di Paglia, che ribalta la prospettiva su come la Chiesa cattolica ha storicamente affrontato le questioni del fine vita. Il rifiuto di Paglia di insistere sull’applicazione uniforme del diritto ecclesiale riflette l’approccio a questioni complesse che ha preso piede sotto Francesco.
«Mi sembra di ricordare che sono un prete, non un giudice», ha detto don Tullio Proserpio, cappellano presso l’Istituto Nazionale Tumori di Milano e consulente per l’Accademia per la Vita. «Un sacerdote è chiamato ad accompagnare la persona in qualsiasi situazione, compresa una situazione in cui ovviamente può non condividere», ha detto, aggiungendo che un sacerdote dovrebbe comunque essere specificamente invitato dal paziente ad accompagnarlo per un suicidio assistito – ma non succede troppo spesso.
Proserpio lavora in un ospedale che ha un programma dedicato a bambini e adolescenti malati terminali. Durante l’intervista la sua voce era ancora commossa e rotta, dopo aver saputo che era morto un ragazzo di 18 anni a cui teneva. I media, ha detto, «continuano a copiarsi a vicenda, mentre viviamo situazioni di vita e di morte. Ciò che manca alla maggior parte delle discussioni sulle situazioni di fine vita è una comprensione della situazione sul campo».
Tale sfumatura contrasta nettamente con le opinioni del cardinale olandese Willem Eijk, un conservatore, in un paese in cui il cattolicesimo sta lentamente morendo. «Il sacerdote non deve essere presente quando viene eseguita l’eutanasia o il suicidio assistito», ha detto Eijk in un’intervista alla Catholic News Agency pubblicata il 17 dicembre. «In questo modo la presenza del sacerdote potrebbe suggerire che sta appoggiando la decisione oppure suggerire che l’eutanasia o il suicidio assistito non sono moralmente illeciti in alcune circostanze».
Eijk, un ex medico che fa parte della Pontificia Accademia per la vita, esemplifica il modo in cui un approccio ecclesiale conservatore e legalistico fatica ad adattarsi nell’era di Francesco. Eijk ha anche parlato contro papa Francesco quando quest’ultimo ha cautamente aperto alla comunione con coppie divorziate o risposate nell’esortazione Amoris laetitia.
I critici del coinvolgimento pastorale nel suicidio assistito si appoggiano alla ricerca che mette in discussione le motivazioni alla base delle richieste. Nel 2016 uno studio condotto dalla rivista dell’American Medical Association nei Paesi Bassi, dove l’eutanasia e il suicidio assistito sono legali dal 2001, ha trovato una correlazione tra depressione e ricerca di suicidio assistito.
«Non ho le soluzioni», dice Prosperio, sul modo migliore per assistere i moribondi o coloro che desiderano suicidarsi. Per trattare con le persone alla fine della vita, egli tiene a mente il brano biblico in cui Dio chiede a Mosè di togliersi i sandali davanti al roveto ardente, perché si trova su una terra santa. Per lui questo è vero quando avvicina una persona malata.
Quattro anni fa una ragazza malata terminale gli disse che aveva perso la fede dopo che il suo parroco aveva detto che la malattia le era stata data da Dio come una prova. Proserpio racconta di aver offerto scherzosamente alla ragazza un adeguato insulto con cui rispondere. Lei rispose che era inutile perché non parlava più con i preti. «Ma io sono un prete», disse. «Lo so», rispose lei, «ma tu sei qui. Sai cosa attraversiamo». E don Proserpio ha accompagnato la ragazza fino alla morte avvenuta due anni fa.
Come promemoria, mentre accompagna i molti malati che vengono in ospedale, ha con sé nel breviario un estratto da un discorso che papa Francesco ha fatto ai vescovi brasiliani nel luglio 2018. «È importante individuare e garantire una formazione adeguata», disse il papa, «per mettere le persone in grado di entrare nella notte senza essere sopraffatte dall’oscurità e perdere la direzione; in grado di ascoltare i sogni delle persone senza esserne sedotti e condividere le loro delusioni senza perdere la speranza; in grado di simpatizzare con i fallimenti degli altri senza perdere la propria forza e identità».
Una formazione attenta è essenziale per chi desidera fornire cure palliative e accompagnamento per pazienti molto malati. Mentre la formazione teologica è della massima importanza, la caratteristica principale di un cappellano, ci ha detto Proserpio, è «essere profondamente umano e umano. La fede cristiana è profondamente umana. Ed è qualcosa che spesso dimentichiamo».
Articolo pubblicato dalla agenzia Religion News Service il 24 dicembre 2019, col titolo: Archbishop’s remarks on assisted suicide stir culture war skirmish at the Vatican (qui il testo originale). Traduzione dall’inglese di Fabrizio Mastrofini.
Questo articolo considera solo la prospettiva della persona che sceglie il suicidio assistito o l’eutanasia, e non considera minimamente il fatto che compiendo questo atto sta dando un pessimo esempio a chi gli sta attorno, o meglio, sta dando scandalo, e potenzialmente sta incitando altre persone a compiere lo stesso gesto. E la presenza del sacerdote accanto a lui al momento della morte potrebbe far capire ad altri fedeli che questo gesto non è poi così grave
Lei pensa che un malato al termine, con tutto quanto questo implica (paura della morte, paura di quel che lo attende, disperazione per la perdita degli affetti, disperazione per il dolore che immagina in chi resta, etc..) si possa occupare dello “scandalo” dato nel desiderare che tutto finisca più rapidamente? Parla come una persona che non ha mai vissuto situazioni sui generis; se così è la sua idea è comprensibile e vedrà che la muterà, se così non è la invito ad una riflessione più profonda su quei tratti del suo percorso. Il sacerdote, come qualcuno ricorda, non è un giudice; per quello c’è Dio e non c’è proprio bisogno di nessun altro piccolo, fragile e insignificante omuncolo. Meglio prendersi meno sul serio ed ammettere che quando ci scontriamo con il dolore lo affrontiamo come possiamo; in ogni caso il Regno dei Cieli, se esiste, avrà delle porte apribili da chiavi che non immaginiamo.
oh, anche io ho vissuto situazioni di buio, più volte ho pensato al suicidio in questi anni, e mi ero anche preparato a farlo. e la paura di dare scandalo fino a questo punto (perchè non tanti miei gesti malvagi ne ho dato tanto) è stata una delle ragioni per cui ho desistito
per il resto il non preoccuparsi dello scandalo è sintomo di profondo egocentrismo, del vedere solo i propri propri problemi (per cui comunque è lecito chiedere e ricevere aiuto dagli altri, e noi dobbiamo dare aiuto) e non preoccuparsi degli altri
Chiaramente non credo opportuno entrare nel suo vissuto personale, ma apprezzo la sua sincerità. Ritengo personalmente, e spero per lei, che la sua scelta di persistere sia stata dettata da fatti diversi dal non dare scandalo. Mi ripeto, ma in parole differenti: a chi vive una sofferenza profonda non si può domandare di immolarsi ad un sacrificio per un presunto bene comune. Per quale forma di santità? E’ umano non domandarlo, è umano non aspettarlo; siamo fragili. In un suicidio, assistito o non, non credo ci sia scandalo, quanto semmai un dolore non più contenibile; chi può giudicare le azioni conseguenti? L’aspetto pedagogico, poi, è discutibile; ci può essere emulazione, è vero, ma anche repulsione. Su questi temi, mi spiace, ma non esiste una regola. Ciascuno interpreta con la propria sensibilità, i propri strumenti, il vissuto emozionale ed il proprio bagaglio esperienziale. La saluto con cordialità.
Quindi continuare a vivere e’ diventato inmolarsi al sacrificio? Lo dico perché ci sono passata anche io e anche peggio.
Bho per me la Chiesa di oggi non ha più u nulla da dire, sarà triste ma è così.
Ok però Paglia ormai si è capito che è esperto di cerchiobottismo: del tipo, siamo contrari però….
Dicesse apertamente come la pensa e tanti saluti.