Il pensiero va agli effetti che la pandemia ha prodotto sulle nostre vite. Ma cosa accade (e accadrà) alle categorie di coloro che sono senza risorse?
Mentre perdura la strage di persone morte per il Covid-19 e molte altre sono a rischio, il pensiero va agli effetti che la pandemia ha prodotto sulle nostre vite personali e di gruppo. Le considerazioni sono molte: come un terremoto, un monsone, un maremoto sta lasciando sul terreno macerie.
È utile spendere una parola per chi è sfinito, senza più risorse; oltre ai disagi che la maggior parte delle persone soffre. C’è chi è disarmato e senza appigli.
Il primo pensiero va ai poveri: sono molti. In Italia ogni anno l’ISTAT ne pubblica le statistiche. Numeri secchi e impressionanti ma che influiscono poco sulle politiche sociali. Un ambito che fa un passo avanti e due indietro. Per la scuola e la sanità sono garantire risposte, anche se non perfette. Per l’assistenza briciole di attenzione e di risorse.
Si scopre oggi che esistono famiglie che non hanno denaro per fare la spesa. Dopo anni di grande abbondanza. qualcuno sta ritornando alla fame. Quella vera, quella raccontata dai nostri nonni durante la guerra e il dopoguerra.
Non esistono dati di chi non ha nulla o, dopo il virus, non ha più nulla. Un mondo parallelo, sotterraneo, fatto di mille accorgimenti e sotterfugi. Nella categoria si possono conteggiare molti: disoccupati, precari, lavoratori in nero, anziani, clandestini. È il mondo variegato dei non abbienti. Il linguaggio burocratese li chiama “incapienti”: meno di 600 euro al mese di reddito o di pensione. C’è chi non ha nemmeno 600 euro.
Le parole – e le promesse – spese nel tempo per le persone e le famiglie in difficoltà sono state molte; il virus ha detto che occorre metterci mano. Il come è certamente difficile, ma le disuguaglianze non possono scendere fino ad arrivare al livello della fame o dell’elemosina del piatto di minestra.
Un pensiero tristissimo va ai nostri nonni e nonne morti per coronavirus. È vero che molti vivevano grazie alle cure delle famiglie e della medicina. La crudeltà della solitudine con la quale sono morti fa riflettere su come li abbiamo trattati.
Le stragi nelle case di riposo fanno ripensare agli schemi fino ad oggi adottati per la cosiddetta economia di scala: 50, 100, fino a 200 persone negli istituti, per risparmiare.
I morti hanno pagato due volte: essere stati abbandonati ed essere morti anticipatamente.
La nostra Italia sta invecchiando: occorrerà pensare bene su questo fenomeno grave e complesso. Ammucchiare gli anziani fuori di casa è un’atrocità per chi vive gli ultimi tratti della vita e combatte per sopravvivere.
L’ultimo pozzo nero nasconde chi non deve essere scoperto. Non solo i senza dimora, ma anche i lavoratori stranieri stagionali, le badanti con permesso di soggiorno scaduto, il sottobosco degli imbroglioni, i tossici e i loro fornitori, le donne che soffrono di violenza: chiunque ha paura di essere fermato per strada dalla polizia.
Il virus dopo aver messo a nudo le fragilità di una società pure opulenta, può essere occasione non solo della lettura del disastro, ma di stimolo a rivedere il cammino del progresso sociale che fino ad ora i paesi evoluti hanno percorso.
È ancora lunga la strada del welfare. Occorrono strumenti nuovi, seguendo l’evoluzione della demografia, ma anche dei costumi e del sentire sociale. Sarebbe un’occasione sprecata ricominciare con l’obiettivo di ritornare semplicemente dove eravamo.