Se qualcuno conservava ancora una qualche speranza, dal 3 maggio ha dovuto abbandonarla: il Rapporto Istat sul futuro demografico italiano non lascia scampo. L’Italia sarà sempre più vecchia – e questa non è una novità –, ma questa volta i demografi hanno azzardato una previsione per il 2065: la popolazione calerà di 6,5 milioni scendendo a 54,1 milioni di abitanti contro gli oltre 60 del 2017. I media hanno fatto subito due conti: è come se “evaporassero” le province di Milano, Torino e Bologna, tutte insieme.
C’è anche qualche dato positivo: il primo è riferito all’aspettativa di vita (anche se non basta il “quanto”, bensì il “come”, cioè la qualità) che sale, per la prima volta, sopra i 90 anni per le donne, precisamente a 90,2, e a 86,1 per gli uomini.
L’altro è collegato al tasso di fecondità, previsto al rialzo: da 1,34 a 1,59 figli per donna nel periodo 2017-2065, ma «l’incertezza aumenta lungo il periodo di previsione», spiega l’Istat, e quindi diciamo che è un dato positivo a metà.
Certo è che le future nascite non saranno sufficienti a compensare i decessi: se nel 2024 il saldo tra morti e nati sarà -200mila unità, lo scenario andrà peggiorando via via; nel 2044 saremo a -300mila e nel 2053 a -400mila.
Le probabilità che la popolazione del Sud possa aumentare rispetto a oggi, secondo l’Istat sono pari a zero, anzi il centro-sud subirà uno spopolamento, del resto già in atto (se le aziende del nord faticano a trovare lavoratori, e nelle scuole mancano insegnanti di matematica, fisica, informatica, chimica, biologia, economisti e sociologi si aspettano una nuova migrazione sud-nord pari o forse superiore a quella degli anni ’50).
Altra certezza: come hanno già calcolato in tanti – pensiamo alla Fondazione Leone Moressa di Mestre –, le pensioni degli italiani anziani saranno ovviamente pagate con i contributi di chi, più giovane, lavora, quindi avremo bisogno anche noi, come accade nel resto d’Europa, dei nuovi cittadini arrivati da lontano, leggi immigrati.
Già oggi metà della popolazione italiana ha più di 45 anni. Si prevede un picco di invecchiamento che colpirà l’Italia nel 2045-50, quando la quota di ultrasessantacinquenni sarà vicina al 34%.
La parola ai geriatri (controcorrente)
In questo scenario la parola non è solo ai demografi, ai sociologi, agli economisti, ma agli addetti ai lavori, a quanti cioè si occupano di “riempire di qualità” la vecchiaia di tanti cittadini operando per migliorare la loro salute: i medici geriatri e i responsabili di case di riposo.
Occorre però distinguere tra invecchiamento (un aumento di anni in funzione del tempo della mortalità) e l’aspettativa di vita (il numero di anni vissuti mediamente da un gruppo di persone con caratteristiche in comune, ad esempio la nazionalità). I geriatri si occupano quindi di invecchiamento e della salute degli anziani.
Un invito a ridefinire il concetto stesso di “anziano” è venuto dal presidente di una APSP (Azienda pubblica di servizio alla persona) trentina in un intervento sul settimanale diocesano di Trento (nell’ambito della fortunata rubrica “La salute dopo gli anta” attiva da anni).
Il dott. Renzo Dori, presidente della RSA “Margherita Grazioli” di Povo, sobborgo di Trento, osservava: «Non ha molto senso considerare anziana una persona che ha di fronte a sé venti e più anni di vita pressoché priva di patologie e disabilità. Forse dovremo riconsiderare le fasi della vita e quelle in particolare che vengono dopo la maturità, rappresentata dall’essere adulti e produttivi, per guardare ad una terza fase che Laslett definisce “della realizzazione personale” a cui poi segue la quarta, quella segnata dalla dipendenza vera e propria, della decadenza fisica e poi della morte».
Cosa sarebbe questa “realizzazione personale”? «La maggiore disponibilità economica rispetto ai giovani, costretti ad una vita lavorativa segnata dal precariato, di fatto indebolisce il ruolo di questi ultimi rispetto ai primi. Si determina una sorta di nuova “conflittualità” generazionale dove l’anziano mantiene e difende le proprie prerogative, il proprio “status” a dispetto di una generazione di giovani resi spesso “anziano-dipendenti».
Un esempio su tutti: in un Paese come il nostro tristemente noto per la carenza di asili nido (di fatto ben presenti solo al nord) che si accompagna ancora ad un troppo basso tasso di occupazione femminile (e mancano i contributi pensionistici…), solo il 18% dei bambini non viene mai affidato ai nonni, mentre oltre un 40% lo è in modo continuativo e intenso, per cui gli anziani diventano una risorsa, spesso insostituibile, anche dal punto di vista del sostegno economico. «Ai nonni quindi non è assegnata solo una funzione affettiva – scrive Dori –, ma anche di ammortizzatore economico e di supplenza dei servizi pubblici per l’infanzia carenti o troppo onerosi».
Si diventa “vecchi” solo quando si avverte la «perdita di alcune capacità sia fisiche che intellettive», ma questa soglia mediamente si è spostata molto più in là nel tempo e si avvicina ormai agli 80 anni. Da quel momento «tutto è più complicato, e difficilmente si riuscirà a pareggiare il conto fra quanto si è dato e quanto si avrebbe bisogno di ricevere in termini di attenzione, servizi, accoglienza, rispetto e dignità».
Si invoca la necessità di promuovere una «nuova coscienza» sociale in cui l’allungamento della vita implichi una nuova dimensione della vecchiaia, un’età da ridisegnare con nuovi livelli di responsabilità anche fra le generazioni. In altre parole, riscoprire la «dignità» di invecchiare.
Il dott. Gabriele Noro, gerontologo e geriatra (attuale titolare della rubrica su Vita Trentina che già fu di un suo illustre collega, il dott. Giovanni Mattivi), si spinge oltre e sottolinea con decisione la «necessità di un cambio dei paradigmi non solo ideologici ma anche organizzativi come conseguenza del nostro invecchiamento».
«Considerare anziano un 65enne oggi è anacronistico: a questa età moltissime persone stanno fisicamente e psicologicamente bene, se hanno qualche piccolo acciacco lo tollerano senza troppi drammi e si trovano di fatto nelle condizioni in cui poteva trovarsi un 50enne una quarantina d’anni fa. Il fenomeno trasformativo è cominciato già “dagli anni Cinquanta” ed è destinato a farci arrivare in pochi anni ad un’aspettativa media di vita molto elevata. Ricordo un’indagine presentata alla London School of Economics: due ultrasessantacinquenni italiani su tre dichiarano di non sentirsi affatto “anziani”. Quattro su dieci pensano che la vecchiaia inizi davvero solo dopo gli ottant’anni. Peraltro, una ricerca dell’Università svedese di Goteborg dimostrava che i 70enni di oggi sono più “svegli” dei loro coetanei di 30 anni fa: ai test cognitivi e di intelligenza ottengono risultati migliori, probabilmente perché sono più colti, più attivi e meglio curati rispetto al passato. Ma chi sono, allora, i veri anziani? Gli ultraottantenni? Spostare la vecchiaia dopo gli 80 anni è forse troppo ottimistico, ma senza dubbio abbiamo guadagnato una decina d’anni…!».
Cosciente di essere quasi provocatorio, Noro afferma: «I settantenni di oggi sono i cinquantenni di una volta!»
Lo spartiacque dei 75 anni… non prima
I dati Ocse ci rivelano che nel 2050 gli ultra 65enni saranno 74 ogni 100 persone di età compresa tra 20 e 64 anni: se nel 2050 l’aspettativa di vita salisse di tre anni, la spesa sanitaria aumenterebbe del 50%. Questa tendenza già in atto ha reso necessario un innalzamento dell’età pensionabile – spiega il geriatra –, che invoca un cambio di prospettiva, vale a dire «la possibilità di fare dell’invecchiamento della popolazione un modo per preservare la salute e, al tempo stesso, i conti pubblici».
Il dott. Dori ha una proposta: «Ci si può domandare se sia possibile disegnare un nuovo sistema di regole di tipo legislativo, contrattuale, sociale, comportamentale, che favoriscano l’impiego degli anziani in particolari attività lavorative, diverse per impegno e per modalità rispetto a quelle della cosiddetta vita attiva, in modo che vengano incentivati a proporsi e ad accettare di essere coinvolti. Tanto più che la famiglia media del nord Italia è così composta: un figlio, un papà e una mamma, quattro nonni e due bisnonni. Pensare che 6 componenti su 9 della famiglia media siano del tutto inattivi, fa intuire come questa mancata valorizzazione delle risorse negli anziani possa pesare sull’economia del Paese».
Da geriatra, Dori individua nei 75 anni l’età che, in media, rappresenta uno spartiacque: non si ha solo l’ipertensione, o il cancro della prostata, o il diabete, o la cardiopatia ischemica, bensì in genere si hanno tutte e quattro insieme queste patologie. «La normalità, cioè, si chiama “multi-morbilità”, nel senso che ognuno di noi a quell’età sarà portatore di tre, quattro, cinque patologie diverse, che creano un unicum. In aggiunta, la solitudine nella vecchiaia porta dei peggioramenti inducendo vere e proprie patologie somatiche».
La parola ai biologi ricercatori (con qualche sorpresa)
Che il tema dell’invecchiamento sia di scottante attualità ha avuto un’ulteriore conferma dall’UniStem Day 2018 del marzo scorso, un’iniziativa ormai decennale che coinvolge numerosi atenei di tutta Europa con l’intento di “raccontare storie di scienza” alle giovani generazioni e ai non addetti ai lavori (come a dire: la ricerca scende in piazza).
«L’invecchiamento è una cosa talmente normale che nessuno si chiede perché avvenga e, anzi, viene considerato alla stregua della consunzione di un artefatto, come si consuma un paio di scarpe, un vestito, un’auto» affermava a Trento Alessandro Cellerino, docente di fisiologia alla Scuola Normale di Pisa (e in aprile vincitore del “Thüringer Forschungspreis” – primo italiano nella storia del premio – per la mappatura del genoma del Nothobranchius furzeri, un pesce che ha durata di vita di qualche mese) rivelando come una ricerca inglese basata sull’età stimata a partire da fotografie di volti o delle mani offriva dati impensati: il volto di chi aveva il più basso rischio cardiovascolare veniva percepito come più giovane e lo stesso accadeva per un basso tasso glicemico.
I biologi ci ricordano come gli animali in natura non siano soggetti all’invecchiamento, come viene inteso per gli umani, semplicemente perché… muoiono prima!
Ma perché si invecchia? Perché le biomolecole sono soggette a danneggiamento progressivo. Danni avvengono fin dalla nascita, ma l’organismo è perlopiù in grado di ripararli, una capacità che, nel tempo, viene meno e le condizioni dell’omeostasi finiscono per tendere a zero.
Non è possibile invertire la rotta? In realtà, qualcosa si può fare: dieta e farmaci sono in grado di modificare l’invecchiamento. Un team di ricerca americano ha studiato per 25 anni due gruppi di macachi alimentati rispettivamente a 885 chilocalorie/giorno e a 445 chilocalorie/giorno: quanti avevano assunto meno chilocalorie erano vissuti più a lungo senza sviluppare patologie di rilievo.
Il fattore di rischio – l’unico fattore di rischio che non possiamo eliminare – è allora dato dall’età. Questa è responsabile dell’insorgere di patologie cardiovascolari, polmoniti, cancro e patologie neurodegenerative, come l’Alzheimer.
Di grande interesse – i biologi non parlano mai di speranza per non creare false illusioni, purtroppo spesso indotte dai media – sono gli studi attualmente in corso su alcuni organismi animali che, a prima vista, sembrerebbero quasi immortali.
Turritopsis nutricula è una medusa (diametro circa 4 mm) che viene considerata un organismo “re-birth”, ossia capace di rinascere nel senso di invertire il proprio ciclo biologico (da medusa adulta allo stadio giovanile di polipo) quindi di non morire mai. Il mutamento è dovuto al ringiovanimento di cellule che, da altamente specializzate, ritornano allo stadio di cellule non specializzate, tipiche della fase giovanile.
Ma questa capacità sembra tutt’altro che esclusiva degli organismi inferiori. Una tartaruga delle Galapagos (“battezzata” Harriet) venne raccolta da Charles Darwin (XIX secolo) e quindi portata allo zoo di Adelaide per morire nientemeno che nel 2006.
Nel 2000 in Alaska è stata rinvenuta una balena con un arpione conficcato in corpo: nel metallo era incisa la data di fabbricazione a metà dell’800!
Sempre in Alaska è endemico uno squalo che vive in media 550 anni raggiungendo la maturità riproduttiva a 150.
Invecchiamento e ringiovanimento
È possibile, in un certo qual modo, “bloccare” l’invecchiamento per gli esseri umani? È pensabile giungere ad alterare l’inevitabile decadimento quasi operando un paradosso biologico? (sappiamo dalla fisica che si tratterebbe solo di un ritardo, in quanto tutto l’universo è soggetto al II Principio della termodinamica).
Il campo della ricerca prende il nome di Ageing and Rejuvenating (invecchiamento e ringiovanimento), anche se un biologo che se ne occupa come Stefano Biressi, ricercatore Telethon a Trento, sottolinea che «siamo molto lontani da una vera e propria rigenerazione, in quanto solo alcuni processi sarebbero bloccabili e “revertabili”». E, in più, è necessario che ritardare l’invecchiamento non si accompagni all’insorgenza di tumori in quanto sembra che ogni trattamento di natura rigenerativa comporti un alto rischio.
I due Premi Nobel per la Medicina 2012, i notissimi John B. Gurdon e Shinya Yamanaka (l’inglese sir Gurdon è intervenuto anche al simposio vaticano del 2013 sulle cellule staminali, ndr) hanno scoperto la possibilità di “riprogrammare” le cellule adulte riportandole alla condizione giovanile di staminali embrionali: da cellule adulte a cellule pluripotenti indotte (e questo, tra l’altro, permetterebbe di abbandonare ogni riserva di carattere etico).
Ora l’invecchiamento è la sostanziale riduzione di tutte le funzioni vitali, ma dobbiamo tener presenti due dati: la diminuzione avviene molto più precocemente di quanto non siamo soliti immaginare (per la pelle inizia verso i 16 anni, ma nel complesso del corpo si può parlare attorno ai 30 anni); la diminuzione avviene in contemporanea ed è altamente difficile scollegare i diversi processi.
I geni che controllano l’invecchiamento sono sostanzialmente gli stessi nelle diverse specie (e non c’è da stupirsi se condividiamo il 50% dei geni totali con la banana e oltre il 98% con lo scimpanzé). Così un gene mutante recettore dell’insulina è stato ritrovato sia in un verme nematode, nella (solita) drosophyla e negli organismi centenari.
Fra i nostri tessuti umani, quello che invecchia con maggior rapidità è il sistema muscolare: nei giovani esiste una grande capacità rigenerativa, frutto delle apposite cellule staminali, ma negli anni questa si perde.
Un esperimento significativo avviato alla Stanford University era spiegato da Manuela Basso che guida il laboratorio di neurobiologia al CIBIO di Trento (in particolare, lo studio delle patologie neurodegenerative): un pool di topi trasfusi con sangue giovane si manteneva più attivo. Esiste forse un fattore biologico nel sangue? Probabilmente si tratta ancora una volta di cellule staminali.
Perché la ricerca sull’invecchiamento?
Quanti vivono e lavorano al di fuori dei laboratori di ricerca spesso s’interrogano sul perché di alcune scelte. In questo caso: perché mai impiegare risorse su invecchiamento e ringiovanimento?
Un dato parla chiaro: nel 2050 oltre un miliardo di persone nel mondo sarà affetto da una patologia neurodegenerativa devastante come il morbo di Alzheimer, un numero impressionante che rinvia subito alle risorse che dovranno essere dirottate per la loro “cura”. Sappiamo che il rischio dell’insorgenza della patologia aumenta con l’età (oltre gli 85 anni di età il rischio è al 50%): basterebbe questo dato per spiegare il motivo delle ricerche in corso.
Ma in Italia esistono dei centri di eccellenza che si occupano del tema dell’invecchiamento a livello più ampio, come il Centro di Medicina Rigenerativa “Stefano Ferrari” di Modena diretto dal prof. Michele De Luca (specializzato nella cura delle grandi ustioni epiteliali per mezzo di cellule staminali) o a Bologna il team di ricerca guidato dall’immunologo Claudio Franceschi, uno dei massimi esperti mondiali, che ha ottenuto sostanziosi finanziamenti dall’Unione Europea per un progetto sul morbo di Parkinson (altra patologia strettamente collegata all’avanzare dell’età con esperimenti interessanti avviati in Australia con terapia da staminali).
Ma le ricerche sono a livello globale: per restare in Europa, diversi team di ricercatori sono al lavoro all’University College di Londra, alla Cambridge University e al Karolinska Institutet di Stoccolma.
Mentre gli esperimenti procedono ad ampio raggio, non si può dimenticare la massima che ormai circola tra geriatri e ricercatori: «più che semplicemente vivere più a lungo, è di gran lunga più augurabile il “vivere meglio” e più a lungo».
«Mi piacerebbe che una volta si desse il Nobel agli anziani» è stato l’auspicio di papa Francesco nel corso della sua visita a Pietrelcina nel marzo scorso. Per ricordarci che il tema della qualità della vita non può essere affrontato solo nei laboratori, ma riguarda tutta la società.