A Natale, si sa, una delle prime cose che vengono in mente è il presepio. San Francesco lo pensò nel Natale del 1223 per «fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme e, in qualche modo, intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato» (Fonti Francescane, 468).
Mentre egli intendeva restituire alla scena della Natività tutto il suo realismo, è accaduto che, col tempo, per uno di quegli strani paradossi di cui la storia è piena, le figure del presepio abbiano perso quasi ogni contatto con la dura realtà di ciò che è accaduto in quella notte santa: sono diventate personaggi inodori, incolori, insapori, pura “poesia” che rischia di finire nell’ingenuità indolore delle favole.
Il risultato può essere quello di vivere il Natale come una “festa” senza che se ne colga il senso pieno, senza che se ne capisca la radice e, peggio ancora, senza alcuna conseguenza nella nostra vita.
Con le riflessioni che proporremo nei giorni della novena si vorrebbe provare a rileggere alcuni brani dei “Vangeli dell’infanzia” (Mt 1–2 e Lc 1–2) per vedere come tre persone in carne ed ossa – Zaccaria, Maria e Giuseppe – hanno affrontato lo smarrimento che ha prodotto in loro l’annuncio inatteso dell’arrivo di un salvatore, e per considerare, poi, come tre categorie di emarginati, o di scarti, come i magi, i pastori, i vecchi, hanno accolto con felice stupore la notizia del suo strano arrivo che veniva a guarire la loro situazione.
La Bibbia non è una galleria di belle statuine in un mondo che non è il nostro, ma una storia di persone, fatte in tutto e per tutto come noi. Proveremo a ritrovarci in queste persone, entrando nelle loro emozioni, nei loro sentimenti, paure e gioie. Solo a questa condizione può scattare una salutare identificazione tra noi e loro, solo così riusciremo ad entrare nella realtà viva dei racconti evangelici, che è poi quello che Francesco d’Assisi ha cercato di fare con tutta la sua vita.
Lo scopo non è, dunque, quello di cancellare il presepio, ma di andare oltre la sua realtà di gesso o di cartapesta per cercare di ricostruirlo, in carne e sangue, in ciascuno di noi. L’augurio è che la condivisione di queste riflessioni ci aiuti ad attraversare insieme i nostri deserti.
17 dicembre: La voce nel deserto
«Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,1-3)
1. L’inizio della storia di Gesù, del suo farsi vivo da adulto, perché è di questo che si tratta – il Natale è solo la necessaria premessa –, è sorprendente. Una grande cascata di nomi che contano: l’imperatore, il governatore, i tetrarchi, i sommi sacerdoti: è il dispiegamento del potere, civile e religioso. Ma, dopo questa galleria di potenti, viene come un tonfo: dove va a finire la parola di Dio? Su nessuno di loro. Dove va dunque? Nel deserto! È un po’ come se colui che governa tutto, colui che può tutto, andasse a sprofondarsi nel nulla, nel silenzio, nel deserto.
E questo è il primo scenario che dobbiamo tenere davanti, nel quale, meglio, dobbiamo immergerci se vogliamo anche noi essere raggiunti da quella Parola.
Due domande che, alla fine, sono una sola: perché la Parola evita i potenti? perché sceglie come luogo in cui risuonare il deserto?
La risposta alla prima mi pare chiara. Una parola – quella di Dio soprattutto –, se viene proclamata, è perché venga ascoltata e accolta. Ne deriva che i potenti, almeno finché sono consci della loro potenza, non sono un terreno buono per l’ascolto. Proprio la loro potenza li rende pieni di sé, incapaci di ascoltare, incapaci di accogliere, chiusi nella loro autoglorificazione. Dio non perde tempo con loro. Dirà Gesù: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17).
La risposta alla seconda domanda è la conseguenza della prima: per ascoltare, bisogna fare il vuoto, bisogna sentire le ferite e gli interrogativi che ci portiamo dentro, bisogna, in una parola, entrare nel deserto.
Vuoto, ferite, domande parlano di sofferenza ma, per il vero, il deserto non è di solito un luogo dove passare le ferie.
Il deserto è il luogo della sete, e la sete è la migliore immagine del desiderio, quello soprattutto che nasce dallo scontento, dall’insoddisfazione, dall’inquietudine e dalle tante paure.
Oggi nelle persone che hanno una certa sensibilità spirituale è diventata di moda l’espressione “fare deserto”, con il che si intende prendersi una pausa, staccarsi dal lavoro e dall’agitazione di tutti i giorni, vivere un po’ in disparte, immersi in un silenzio che aiuti a riflettere.
È una cosa buona. Ma forse si dimentica che, senza andarlo a cercare, c’è anzitutto un deserto che ciascuno può sperimentare anche senza muoversi; il luogo in cui ci troviamo forse ci risparmia il viaggio, perché il deserto è dentro di noi.
È in questo nostro deserto che, paradossalmente, possiamo trovare l’occasione provvidenziale per ascoltare la Parola. Il deserto può diventare addirittura un luogo di grazia!
2. Ma, alla fine, come possiamo descrivere questo deserto? Prendo la frase dal salmo 63 (62) che la liturgia ci fa recitare alle Lodi (alle Lodi!) ogni domenica mattina. Questo è l’inizio:
«O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco,
ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne
in terra deserta, senza strade, senz’acqua» (Volgata)
Sete e desiderio, dell’anima e del corpo, sete che si sveglia in noi e con noi appena ci svegliamo, sete che ci tortura, giorno più giorno meno. È quando ci troviamo in tre situazioni ben espresse dal salmo nelle tre immagini che evocano il deserto:
1) la parola stessa, anzitutto, dice assenza di presenze, di compagnia,
2) dice assenza di strade, di indicazioni di percorso;
3) dice assenza di acqua, come dire un luogo dove è impossibile la vita. Provo a riassumere il deserto in tre parole chiave: solitudine, smarrimento, sterilità. Con alcune precisazioni:
solitudine non vuol dire essere fisicamente soli, ma essere privi di affetti, non sentirsi né amati, né stimati, né accolti;
smarrimento indica il non sapere che pesci pigliare di fronte a qualche cosa che ci disturba, che senso dare a certe nostre giornate, a fatti che mettono in crisi le nostre relazioni;
sterilità è la sensazione di perdere tempo, di non combinare niente, di non essere utili a nessuno.
Sono quelle situazioni in cui diciamo: questa non è vita!
Cosa c’entra – dirà qualcuno – tutto questo con il Natale, che siamo abituati a pensare come giorno della gioia, della festa, degli affetti familiari? Ma allora mi domando: perché l’Avvento si distingue con il colore viola, che non è certo il colore della festa e della felicità? Ricordiamo che la festa è tanto più tale quando viene a colmare un’attesa, quando risponde a un desiderio a lungo coltivato. E dunque questo tempo, inclusa la Novena di Natale, dovremmo viverlo come momento in cui accogliamo le nostre esperienze di solitudine, smarrimento, sterilità come occasioni in cui tornare a far risuonare in noi la Parola, come scuola ove imparare a far fiorire il deserto! L’autore del salmo, che cerca una via d’uscita, dice:
«Perciò nel santuario ti ho cercato,
per contemplare la tua potenza e la tua gloria» (Sal 63,3)
Significa che uno debba “andare in chiesa” per trovare la risposta ai suoi deserti? Anche, ma non necessariamente. Il “santuario” è lo spazio interiore dove entrare in contatto con Dio, dove sentir risuonare la sua Parola. Se questo non accade, lo stesso andare in chiesa a recitare alcune formule non serve gran che. Anzi, può essere che Dio ci dia appuntamento proprio nel “deserto”, nel vuoto e nella sofferenza. E lì ascoltiamo la sua Parola. Eccola:
«Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato;
le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!». (Lc 3,14-6, citando Is 40, 3-5)
C’è qui la risposta alle tre situazioni che fanno il deserto.
Alla nostra radicale solitudine risponde l’offerta della compagnia di Dio: il Signore viene! Una compagnia che è amicizia, perché egli sarà “Dio con noi”, Emanuele.
Al nostro smarrimento risponde l’invito a preparare una strada, e a quelli che incontra Gesù dirà: “segui me!”, è lui la via. La Parola ci dice che si tratta di un percorso spianato che si ottiene eliminando i due rischi opposti: l’orgoglio fatuo dei potenti (i “monti”: cf. Is 2,11-17) e la rassegnazione triste di chi non spera e non sogna più (i “burroni”: cf. Is 35), un percorso che diventa, oltre che piano, “diritto”, il che si ottiene dopo aver vinto le tortuosità della falsità, dell’ipocrisia, dell’inganno con cui prendiamo in giro noi stessi e gli altri.
E, alla fine, la Parola ci offre la vittoria sulla sterilità di una vita che sembra persa e da buttare, perché «ogni carne vedrà la salvezza di Dio», ogni uomo, se vuole, troverà la strada sulla quale dare senso alle cose che fa, alle situazioni in cui si viene a trovare, anche le più difficili e le meno promettenti.
3. Come dunque prepararci al Natale? Seguendo il solito percorso che comprende due stadi: uno sguardo sincero su noi stessi, e un impegno a correggere quello che ci fa distrarre, ci fa uscire di strada, che non risponde in modo vero ed efficace ai tre bisogni che costituiscono il nostro deserto. Dobbiamo disporre il nostro animo a correggere ciò che va corretto, a spianare la strada, a raddrizzare la direzione, a coltivare la speranza di rinascere.
Nel vangelo di Luca (3,10-14) troviamo che la gente che era accorsa ad ascoltare il profeta Giovanni, risponde con l’atteggiamento giusto: Che cosa dobbiamo fare?. Tre risposte per tre categorie di persone.
Alla folla: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto».
Ai pubblicani: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Ai soldati: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
La prima risposta ci dice che la migliore vittoria contro la solitudine è la condivisione: il principio della gestione dei beni non è più “uso io quello che ho perché ne sono il padrone”, ma “la legge diventa il bisogno di chi ho davanti”.
La seconda risposta integra la prima: non l’ingordigia deve regolare l’uso dei beni, ma la sobrietà, la moderazione, non la tangente pretesa da chi usa così il suo potere.
La terza è un’integrazione della seconda, perché il sapersi accontentare impedisce di usare la forza di cui si è dotati (qui esemplificata nei soldati) come forma di prepotenza e di esosità. Sembra di parlare della luna. Ma sono proprio questi atteggiamenti riprovevoli, egoismo, ingordigia e prepotenza, che rendono il mondo un deserto, non quello buono che ci rende capaci di accogliere la parola di Dio, ma quello perverso che guasta la terra e rovina la vita della gente.
Se si vuole evitare la desertificazione della terra, e del proprio cuore, è necessario che, prendendo coscienza dei deserti che sono in noi, troviamo la strada per attraversarli, quella indicata da Giovanni Battista, quella percorsa da Gesù, che è la Via, e su questa aiutarci gli uni gli altri a far spuntare dei fiori.