«Secondo me, non c’è nulla da distruggere, fuorché l’idea di Dio nell’umanità; ecco di dove occorre cominciare! È di qui, di qui che si deve partire, o ciechi, che non capite nulla! Una volta che l’umanità intera abbia rinnegato Dio (e io credo che tale epoca, a somiglianza delle epoche geologiche, verrà un giorno), tutta la vecchia concezione cadrà da sé, senza bisogno di antropofagia, e soprattutto cadrà la vecchia morale, e tutto si rinnoverà. Gli uomini si uniranno per prendere alla vita tutto ciò che essa può dare, ma unicamente per la gioia e la felicità di questo mondo. L’uomo si esalterà in un orgoglio divino, titanico, e apparirà l’uomo-dio» (I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. II, 680-681).
Le riflessioni che Fëdor Dostoevski cuciva per i protagonisti de I fratelli Karamazov valgono per i giorni nostri, in cui, in maniera drammaticamente creativa, l’umanità, invece di veder apparire l’uomo-dio, si ritrova a fare sfoggio, senza bisogno di antropofagia, del crollo della vecchia morale, per cui tutto si rinnova, ma a prezzo di inenarrabili crudeltà: i teatri di guerra sono numerosi (la terza guerra mondiale a pezzi!) e in molti di essi sembra che persino per l’attività diplomatica il massimo possibile sia un rallentamento delle ostilità o l’indizione di qualche tregua umanitaria, più che una vera strada di riconciliazione.
Viviamo in un mondo polarizzato, in una società divisa e contrapposta. La pace che manca a livello personale difetta anche a livello collettivo e globale, al punto che, con frequenza sempre maggiore, ci si chiede se sia vicina anche la fine della cristianità e se la fede riuscirà a sopravvivere a tanto orrore, quasi a conferma delle parole del filosofo Carlo Michelstaedter che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, sarcastico e provocatorio, scriveva in La persuasione e la retorica: «Se Cristo tornasse oggi, non troverebbe la croce ma il ben peggiore calvario d’un’indifferenza inerte e curiosa da parte della folla, ora tutta borghese e sufficiente e sapiente, e avrebbe la soddisfazione di esser un bel caso pei frenologi e un gradito ospite dei manicomi».
Occorre, probabilmente, cambiare prospettiva e sguardo. Secondo papa Giovanni XXIII, si deve cercare più ciò che unisce che quello che divide: «Il diritto, ad esempio, di ogni essere umano all’esistenza è connesso con il suo dovere di conservarsi in vita; il diritto ad un dignitoso tenore di vita con il dovere di vivere dignitosamente; e il diritto alla libertà nella ricerca del vero è congiunto con il dovere di cercare la verità, in vista di una conoscenza della medesima sempre più vasta e profonda» (Pacem in terris, 1963, n. 14).
E questo rimane vero pure nella situazione attuale. Papa Francesco, con la sua enciclica Fratelli tutti (2020), ha aggiunto un tassello prezioso. Cioè, l’idea che la fratellanza universale debba ispirare la visione di un futuro comune: senza di essa, senza rispetto e tutela per l’ambiente, non ci sarà un futuro. O meglio, il futuro continuerà a fare a pezzi i popoli e distruggere l’ecosistema: «In questo scontro di interessi che ci pone tutti contro tutti, dove vincere viene ad essere sinonimo di distruggere, com’è possibile alzare la testa per riconoscere il vicino o mettersi accanto a chi è caduto lungo la strada? Un progetto con grandi obiettivi per lo sviluppo di tutta l’umanità oggi suona come un delirio. Aumentano le distanze tra noi, e il cammino duro e lento verso un mondo unito e più giusto subisce un nuovo e drastico arretramento» (n. 16).
Insomma, occorre coltivare il seme della speranza pure dentro un mondo a pezzi. Tanti sforzi vanno in questa direzione, ed è opportuno ricordarlo per non cadere in un pessimismo distruttivo, incapace di vedere il tanto bene che, nonostante tutto, fiorisce.
Bisogna rompere la campana di vetro che tiene imprigionati dentro la personale sofferenza e produce rancore, odio e sete di vendetta.
Il popolo di Dio è smarrito, la barca dell’umanità naviga nella tempesta, ma il Padre è sempre all’opera, ama stare con le persone umane e abitare anche in questo mondo che pare non volerlo o, peggio ancora, non esserne interessato.
Oggi si cerca la felicità fuori dalle chiese e dalla Chiesa, proiettandosi in una realtà che non è più intrisa di relazioni, ma è social e tutta virtuale, ma, come nei tempi terribili dei campi di sterminio e della Shoah, e in ogni altro momento buio e doloroso della storia, Dio è lì dove è sempre stato, in mezzo agli uomini e alle donne, nelle pieghe più o meno luminose della loro esperienza terrena.
Cantava Umberto Saba: «Melanconia mi fu sempre compagna./ Ebbi solo da lei mie tante e care/ gioie; quel bello ella m’ha fatto amare/ che le mie ciglia di lacrime bagna./ Amo il lido del mare e la campagna/ solitaria; da un libro poche e rare/ legger parole, e molto meditare/, con una voce che in aere si lagna» (Il melanconico, p. 284).
Anche nella melanconia, emergono le gioie della natura e la meditazione. E questo è l’orizzonte della Chiesa, che non può che stare (sempre più) là dove Dio ama stare, là dove la vita si svolge e la gente vive, soffre, lotta, pecca e ama.
Insomma, è proprio nel buio, nella fatica, nel dolore e nel disordine della vita che Dio si manifesta con la sua misericordia e la sua luce redentiva.
E la pace che manca in terra, per esservi, non può significare solo assenza di guerra, ma deve rivelarsi anche come stato d’animo costante che orienti verso la giustizia, l’amore, la libertà.
Pace è un tessuto lacerato, da ritessere. Con l’aiuto di tutti e di ciascuno. «Il genere umano», affermava lo scrittore Elie Wiesel nel ricevere il premio Nobel per la pace nel 1986, «deve ricordare che la pace non è il dono di Dio alle sue creature; la pace è il dono che ci facciamo gli uni con gli altri».
Buon anno, di pace autentica.