Qualcuno si sarà chiesto se nel titolo ci sia un errore nella data perché, da che mondo è mondo, il 23 gennaio è un giorno come tutti gli altri. Al massimo, i più informati sapranno che oggi è la memoria – dai più sconosciuta – dello sposalizio di Maria e Giuseppe diffusasi nel XV secolo grazie alla predicazione di Jean Charlier de Gerson (1363-1429) gran cancelliere dell’università di Parigi.
Ma che c’entrano tutti i battezzati con questa memoria? Tutt’al più, come molti articoli divulgativi ripetono, sarà l’occasione per riaffermare la bellezza del matrimonio cristiano.
Invece il mistero che hanno vissuto Maria e Giuseppe riguarda ogni battezzato: sia i coniugi, sia quelli che scelgono il celibato come consacrazione o i tanti che lo vivono come condizione non scelta. Tutti sono descritti nella relazione sponsale e verginale di Maria e Giuseppe, relazione che potremmo definire «simbolo storicamente compiuto di ogni vocazione».
Stati di vita
L’intuizione a cui faccio riferimento, ancora poco indagata teologicamente, è un dono di Giovanni Paolo II, disseminata tra le tante perle che la sua «teologia del corpo» racchiude. Il 24 marzo del 1982 nella catechesi del mercoledì il pontefice polacco disse:
«Il matrimonio di Maria con Giuseppe (in cui la Chiesa onora Giuseppe come sposo di Maria e Maria come sposa di lui), nasconde in sé, in pari tempo, il mistero della perfetta comunione delle persone, dell’Uomo e della Donna nel patto coniugale, e insieme il mistero di quella singolare “continenza per il regno dei cieli”: continenza che serviva, nella storia della salvezza, alla più perfetta “fecondità dello Spirito Santo”».
Si apre un mondo di significato! Soprattutto in riferimento alla cosiddetta divisione in «stati di vita». Probabilmente i più non sanno neppure cosa significhi la locuzione «stati di vita», ma chi ha almeno un po’ di dimestichezza con le materie teologiche e canonistiche capisce che si sta parlando della classica distinzione chierici, religiosi e laici.
Questa classificazione non solo ha un gusto un po’ retro – oggi che si vogliono eliminare tutte le differenze, pure quelle incise nella carne – ma è oggettivamente una tripartizione che non regge l’urto della realtà. Basta prendere in considerazione la situazione di un fedele che appartiene a un istituto secolare o di uno che, sentendosi chiamato al celibato per il Regno, vuole vivere all’interno di un movimento ecclesiale, per capire come la divisione in chierici, laici e religiosi non sia più capace di descrivere la complessità del reale.
Per non parlare della condizione di molte donne e uomini, chiamati impropriamente single (nessuno è «solo» nel Corpo di Cristo che è la Chiesa), i quali risultano dei «fuori stato», come dei pària ecclesiali.
Il dono sponsale di sé
La relazione di Maria e Giuseppe è la chiave che apre una porta nuova nella riflessione teologica circa la differenza delle vocazioni nell’unico battesimo.
È importante chiarire subito che non si vuole indicare la relazione tra Maria e Giuseppe come esempio di vita dei coniugi o dei celibi, viste come vocazioni singolari, perché su questa terra né gli sposi sono chiamati a rinunciare all’unione carnale, né i celibi sono chiamati a vivere una relazione esclusiva e preferenziale. Il rapporto verginalmente sponsale di Maria e Giuseppe è un unicum irripetibile e irriproducibile: sarebbe un grave errore e produrrebbe forti malintesi scomporlo, applicandone alcune caratteristiche ai coniugi e altre ai celibi.
Se tutti coloro che vivono la vita in Cristo ricevuta nel battesimo sono uniti a Lui come sposi e come vergini, ovvero come persone che hanno un legame unico (sponsale) e integrale (vergini) con Cristo, allora Maria, Giuseppe e la loro relazione, superando le singole forme di vita cristiana, offrono a tutti elementi fondativi per vivere il matrimonio o il celibato.
Maria e Giuseppe realizzano in piena libertà il dono sponsale di sé, dono di cui ogni persona celibe o coniuge è chiamata a godere. La pienezza di ogni forma di vita è Cristo che «è tutto in tutti» (Col 3,11), ma il simbolo storicamente realizzato dei due modi di vivere questo mistero sulla terra è il rapporto sponsalmente verginale di Maria e Giuseppe, relazione che mostra qualcosa del modo escatologico di essere «tutto in tutti».
Non è un caso se siamo stati pensati e voluti nella differenza sessuale, come non è casuale che viviamo la vita cristiana come celibi o coniugi. Tutto, anche il biologico, ha un significato teologico.
A «immagine e somiglianza» dell’Unitrino
Ma perché siamo sessualmente differenti? Perché siamo celibi e coniugi? Certamente non è immaginabile provare a rispondere in un articolo di poco più di novemila caratteri – per i più interessati rimando alla mia tesi dottorale che a breve verrà pubblicata –, ma quantomeno è possibile condividere il nocciolo della questione.
La prima cosa da chiarire è perché siamo stati creati come uomini e donne. È una delle domande più semplici che ci siano, e, quindi, una delle più difficili a cui rispondere. Solo che così è mal posta.
Sì, perché ho imparato che una riflessione teologica non considera Dio come uno scolaretto che deve rispondere alle nostre domande – quasi dovesse giustificarsi –, ma si pone in ascolto dell’unico Maestro e, a partire dalla realtà che ci precede, resta in ascolto di cosa quella realtà manifesta del Mistero di Dio.
Allora, forse, si può intravvedere una luce: è l’essere «a immagine secondo la somiglianza» dell’Unitrino a comportare la differenza sessuale, quale riflesso dell’amore trinitario, proprio in quanto relazione etero. Sì, perché nell’ordine creaturale, la massima distinzione possibile non si può recepire se non nella più grande differenza esistente, quella sessuale.
Certamente, ogni relazione interpersonale è segnata da una differenza, ma ritenere il rapporto personale superiore rispetto alla sua espressione corporea, significa ricadere di nuovo nella vecchia e sempre attuale dicotomia spirito/corpo.
L’impossibilità di realizzare l’imago Dei da soli, fuori dal rapporto con la persona del sesso opposto al proprio, riguarda ogni forma di vita cristiana, anche il celibato. Questo mi pare non sia stato ancora preso in seria considerazione, tranne quando si devono affrontare le crisi vocazionali.
La seconda domanda è: essere celibi e coniugi manifesta qualcosa dell’Amore di Dio? Sembra proprio di sì, visto che fin dai tempi dei profeti Dio ha espresso l’unica Alleanza sponsale e verginale con Israele proprio attraverso il loro matrimonio o il loro celibato.
Ma quando il compimento dell’Alleanza si è fatto carne, Gesù Cristo è stato accolto in una relazione uomo-donna unica, irripetibile e irriproducibile. Sì, perché con Maria e Giuseppe avviene una svolta: il matrimonio e il celibato, che significavano l’unica Alleanza infranta o ritrovata, non sono più vissute in modo disgiunto, come nei profeti, ma trovano il simbolo storicamente compiuto della loro realizzazione. È, quindi, la loro relazione lo scrigno a partire dal quale poter contemplare e comprendere meglio il mistero del matrimonio e del celibato.
Fecondità pluriforme
Prima di chiudere il pezzo indico un’ulteriore riflessione circa la fecondità che ogni vocazione desidera, fecondità che nella relazione di Maria e Giuseppe si è realizzata biologicamente in modo totalmente spirituale.
Lo Spirito Santo ha reso fecondo il dono sponsale di Maria e Giuseppe, definendo così il cuore del mistero nuziale: l’esperienza dell’incontro tra l’amore di Dio e l’offerta della propria umanità. La fecondità del celibato e quella del matrimonio derivano, in entrambi i casi, dalla pienezza di vita che lo Spirito apporta alla loro offerta. L’amore di Dio riversato nei cuori per mezzo dello Spirito Santo porta a fecondità l’offerta dei coniugi e dei celibi, realizzandola in modi differenti.
I celibi sono chiamati a non sposarsi perché la comunione d’amore tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, a loro partecipata, è vissuta, per vocazione, senza mediazioni esclusive. I celibi diventano fecondi nel misterioso incontro tra l’offerta del loro desiderio di comunione e l’azione generativa dello Spirito Santo. L’assenza del coniuge è segno della presenza di Dio e l’incontro tra questa assenza/presenza è il talamo nel quale lo Spirito genera figli a Dio. L’azione feconda dello Spirito, passando dal bios del celibe, raggiunge tutti coloro che permettono alla provvidenza di Dio di esserne graziati.
I cristiani che vivono il celibato non per vocazione, ma per condizione, chiederanno la grazia di poter trasformare la loro situazione in scelta personale. Con questo non intendiamo dire che ogni vissuto celibatario debba diventare una vocazione al celibato per il regno, ma che il dono sponsale di sé al modo celibatario possa essere vissuto da queste persone come scelta personale. L’incontro tra l’offerta dell’assenza, non scelta del coniuge, e la presenza di Dio nello spazio di questa offerta sarà anche per loro il talamo nel quale lo Spirito genera figli a Dio.
I coniugi sono chiamati a sposarsi perché sperimentano che l’unione esclusiva delle loro persone è per vocazione il loro modo di gustare e testimoniare la comunione d’amore tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il sacramento del loro incontro è lo spazio della loro fecondità: visibile nei figli e nelle figlie procreati nella carne o accolti nella relazione, invisibile nell’azione che lo Spirito compie attraverso la loro comunione.
Il mistero della relazione di Maria e Giuseppe non è riducibile agli angusti confini del devozionismo. Infatti, se contemplato seriamente, può dare oggi indicazioni teologicamente importanti alle grandi sfide che stiamo vivendo. In un’intervista pubblicata su L’Osservatore Romano il 27 luglio scorso mons. Piero Coda, proprio in riferimento al rapporto uomo-donna, affermava:
«La nostra arretratezza nel leggere questo fenomeno viene erroneamente attribuita alla fissità anacronistica di una idealizzazione della “sacra famiglia”. Che in verità rappresenta piuttosto un modello che, liberato dalle incrostazioni devozionali che gli abbiamo ritagliato addosso, riluce come lo scrigno delle relazioni umane fondate sull’affettività, la libertà e solidarietà. Non scordiamo che Gesù non solo assume la sua umanità da Maria ma la matura anche dalla relazione con Giuseppe. Queste considerazioni valgono non solo per la famiglia, ma anche per le comunità di vita religiosa: che non sono meno in crisi delle famiglie. La famiglia di Nazareth è modello per tutti, chi è sposato e chi vive la verginità, entrambi nella logica dell’avvento del Regno».