Il perdurare della pandemia ci sta facendo sperimentare al di là di ogni avversità l’importanza di incontrarci, di vederci, di toccarci, di abbracciarci. Quello che prima ritenevamo normale, magari scontato, oggi diventa desiderio, sogno ancora irraggiungibile.
È un periodo difficile, ma non per questo vuoto di significati. Anzi, la situazione contingente ci permette, paradossalmente, di entrare ancora più intimamente in contatto con Cristo: “connessi con Lui”. È un’occasione che il Signore ci offre per disporci a condividere la sua passione, ossia la totale consegna di sé.
Potremo così imparare a consegnarci alla Sua volontà, e a constatare i fermenti di vita nuova, frutto della sua risurrezione, che oggi già alimentano la vita della Chiesa e del mondo, al di là delle privazioni che stiamo sperimentando. “Niente è impossibile a Dio” aveva dichiarato l’angelo a Maria e “niente accade senza che Dio lo permetta”, scriveva Madelaine Delbrêl. Anzi è sicuro – in un’ottica di fede – che tutto questo tornerà “a Sua gloria”[1].
Valorizzazione della crisi come tempo di sfida
Noi siamo nel tempo del Risorto e la Sua luce non può che confermarci la vittoria sulla morte e sul dolore per cui dobbiamo essere certi che, anche in questa dolorosa e drammatica situazione, Gesù è vivo e sta accanto a noi per aiutarci a trovare un senso in tutto questo. Sicuramente è difficile trovare uno spiraglio di novità, di vita nuova in questo contesto di privazioni della libertà e limitazioni nella comunicazione interpersonale, ma è importante che questa situazione non passi inutilmente. A riguardo Papa Francesco ha commentato che: “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi”[2].
È un tempo in cui si può guardare avanti con fiducia senza tener conto di quanto accaduto, “come nulla fosse” oppure prendere coscienza della situazione ed evitare la fuga verso utopie consolanti e irraggiungibili. Sicuramente il modo più giusto per affrontare la realtà è non sottrarsi ad una necessaria riflessione: la co-essenzialità del limite alla nostra dimensione di essere umani e, per altro verso, l’osservazione delle miserie del tempo presente, che nonostante tutto ha avuto impatti significativi anche sulla nostra dimensione interiore.
Se l’urgenza dei molteplici problemi del presente e quelli ampliati dalla pandemia ci impedisce di guardare lontano e di scavare nella nostra interiorità, dove si attingono quelle risorse necessarie per progettare e programmare insieme un futuro migliore, la storia ci insegna – come è accaduto durante e dopo le guerre – che proprio durante o all’indomani di grandi tragedie la nostra civiltà è stata capace non poche volte di rialzarsi e concepire i progetti e le visioni migliori, impegnandosi ad attuarli con libertà di spirito e leale collaborazione.
Urge, allora aiutarsi vicendevolmente nella ricerca dei segni di speranza, dentro la complessità di questo tempo che dobbiamo assolutamente decifrare, seppure con grande fatica. In quanto credenti, infatti non possiamo tralasciare questa occasione di ripensamento missionario della nostra pastorale e del nostro agire ecclesiale, oltre che l’occasione preziosa di un confronto sereno con gli uomini e le donne del nostro tempo che, a volte, attendono proprio da noi qualche risposta o una corretta interpretazione degli eventi.
Tutto ciò stimola in noi, continuamente, un lavoro interiore e comunitario di preparazione per una più feconda e serena ripartenza, a tutti i livelli. perché “le promesse di Dio rimangono pazientemente stabili e restano segretamente custodite da coloro che in esse sperano, da uno solo che in esse continui a sperare, nonostante le disastrose vicende di cui si è spettatori”[3].
Tutto è connesso
Intanto la tecnologia c’è ed è conosciuta ormai da tutti. Non è stato facile e non è sempre facile, ma è stata proprio la tecnologia a permetterci di comunicare in questo periodo in cui, tra l’altro, continuiamo ancora oggi a fruirne. È una modalità dalla quale non si può prescindere se si vuole mantenere un minimo di contatto con gli altri; nessun ambito aggregativo può farne a meno: prima fra tutti la scuola oltre al mondo del lavoro, il mondo ecclesiale, le varie amministrazioni, ecc.
Nell’uso dei mezzi tecnologici è entrato in gioco in modo potente un fattore personale non esclusivamente riducibile ai soli termini anagrafici. Nel valutare la confidenza e la facilità con cui i nuovi strumenti vengono utilizzati, la differenza tra le nuove generazioni (i cosiddetti nativi digitali) e le generazioni meno giovani è decisiva, ma non la sola.
Va infatti aggiunta un’altra differenza che riguarda la sfera personale e cioè il livello di disponibilità individuale verso il nuovo e la più o meno accentuata capacità di chiedere e ricevere aiuto da chi è più abituato alle tecnologie. Su questo terreno, nella situazione di estrema necessità che si è creata durante la pandemia, le generazioni più giovani (per così dire, i nipoti, o addirittura gli alunni affianco ai docenti più anziani) hanno spesso guidato quelle più anziane.
Questa esperienza sta rivelando aspetti inediti e di grande valore in riferimento al dialogo tra le generazioni e la valorizzazione dei giovani. Si tratta di un dato importante, che sicuramente aiuta a ridimensionare posizioni pregiudiziali e a inquadrare più correttamente i termini della riflessione.
Abbiamo capito che si devono abbandonare gli schemi del comportamento a cui siamo abituati da tempo immemorabile e che, a fatica, riusciamo a lasciarci alle spalle. Gli strumenti ci sono ormai per tutti – salvo qualche eccezione – anche se in Italia non primeggiamo tra coloro che conoscono ed utilizzano le risorse digitali. Il virus, però, è stato capace di metterci subito sul terreno e al lavoro per entrare più rapidamente in questa rete quanto mai necessaria e irrinunciabile.
Siamo tutti connessi e “tutto è connesso”, quindi ci troviamo in una situazione nuova che mette in luce rapidamente i comportamenti e le scelte di tutti: l’impegno o il disimpegno dei singoli e le ricadute positive o negative sugli altri. Una situazione che, paradossalmente, muove più profondamente le coscienze, poiché il dovere di proteggere se stessi, nella rete, appare ancora più legato all’impegno di responsabilità verso gli altri.
Problemi di connessione
D’altro canto bisogna dire che a ben guardare, nonostante l’agilità e la rapidità dei contatti sulla rete, soprattutto con quelle persone che prima risultavano irraggiungibili, ugualmente abbiamo “problemi di connessione”. Anche se non si tratta di quelli generati da internet. Sono le paradossali difficoltà di comunicazione intra-famigliari che vengono allo scoperto o che si acuiscono in contesti di eccessiva vicinanza nelle mura domestiche. Per cui può verificarsi che un bambino, un adolescente o un giovane siano presenti solo fisicamente nelle mura di casa ma, di fatto, lontani dal cuore dei propri cari perché trascurati dagli stessi, magari proprio a causa dello stato generale di frustrazione. Il più delle volte sono soli con il proprio Tablet, con il computer o con lo Smartphone.
Si fa strada facilmente l’illusione della realtà, in un mondo virtuale che allontana dagli altri e soprattutto da chi ti sta più vicino. Ecco perché non bisogna assolutamente perdere quest’occasione per stare di più con gli altri, a cominciare dai propri cari, privilegiando l’ascolto e la vicinanza rassicurante e gioiosa. In situazioni critiche hanno evidenziato tanta povertà relazionale e un difficile dialogo intergenerazionale.
Le notizie che riceviamo registrano situazioni a dir poco allarmanti, derivate dalla solitudine, dall’isolamento sociale forzato, dall’aumento delle malattie legate al disagio mentale e da tante altre nuove povertà. Sono soprattutto i malati, gli anziani, i giovani, gli adolescenti, le persone con disabilità, le famiglie ridotte in povertà dalla crisi economica, le categorie che particolarmente ci interpellano. In questo contesto, dopo quasi un anno di lockdown, sono ancor più i bambini a pagare il prezzo più alto. E’ stato loro tolta la possibilità di stare con gli amici, per cui le occasioni di gioco di gruppo sono pressoché inesistenti e la solitudine aumenta.
In alcuni casi l’unico modo per stare con gli altri è l’utilizzo dello Smartphone che troppo precocemente è stato loro consegnato. Da un punto di vista psicologico è noto che un bambino troppo piccolo non è in grado di sostenere certi dinamismi insiti alle attività virtuali e, di conseguenza, non riesce facilmente e mentalmente a operare una distinzione netta tra virtuale e reale. Se poi a questo si aggiunge un disagio famigliare o una qualche sofferenza personale, gli esiti possono essere veramente devastanti. Può accadere che un gioco online si trasformi in una tragedia mortale come è accaduto recentemente a Palermo e a Bari.
Viviamo un tempo assurdo che “ci sta rinchiudendo nelle nostre paure”, ha affermato l’arcivescovo di Bari, mons. Giuseppe Satriano – incapaci come siamo di affrontare la vita con il coraggio di educare, mettendoci in gioco e offrendo opportunità qualificate che sostengano e tutelino il cammino dei più fragili, dei più piccoli, tra noi”[4].
All’interno delle criticità che attraversiamo, allora è necessario rimanere uniti, “connessi” appunto, al fine di affrontare le diverse fragilità in modo che nessuno sia lasciato solo di fronte allo scombussolamento psicologico, economico e spirituale che stiamo sperimentando.
Uniti a Cristo per creare comunione
Il nostro compito di cristiani è testimoniare la gioia del Risorto[5] restando uniti, anche in mezzo a tante sofferenze. Dovremmo essere una presenza di amore e di speranza per tutti anche per i dubbiosi e gli incerti. Ma dove trovare le forze? Dove attingere il coraggio e la gioia di testimoniare? Mentre “la connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità”[6], la connessione con Dio, invece, nella preghiera, libera il cuore da ogni pesantezza spirituale e morale e lo rende capace di comunicare con tutti al di là di ogni limite o difetto di connessione.
L’ascolto della Parola di Dio ci guarisce e ci rende capaci di uscire da noi stessi per affrancarci non solo dal Covid ma anche da quel “virus mortifero dell’indifferenza, dell’autoreferenzialità che ci isola dagli altri e ci ripiega su noi stessi”[7].
A livello sociale-istituzionale in questo periodo di lotta contro il virus, giocoforza, abbiamo imparato che il coordinamento di tante piccole scelte individuali, sotto la guida di istituzioni attente al bene comune, è la chiave per la soluzione dei problemi”. Basti pensare al continuo invito da parte delle istituzioni al distanziamento fisico e al restare a casa per cui i comportamenti individuali, spinti dal senso civico ma anche da un sistema di norme e di sanzioni, sono stati quasi sempre conseguenti.
Sicuramente andrebbe consolidata questa capacità di coordinamento nel dopo-pandemia, mobilitando le energie secondo scelte civiche di sobrietà, stili di vita sostenibili, attenzione all’altro, soprattutto al più fragile[8] e con l’impegno di lavorare sempre “connessi”, gli uni accanto agli atri.
Restare uniti e connessi significa dialogare, incontrarsi e trasmettersi, reciprocamente, tutte quelle belle iniziative di carità che, come singoli o come gruppi e comunità, stiamo già realizzando in uno spirito di servizio umile e generoso, consapevoli che può servire “con amore solo chi comprende che tutto, nel suo esistere, è dono e che la sua stessa vita acquista senso solo nel donarla”[9].
Solo così ci sentiremo Chiesa sulla strada, affianco a chi soffre ed è solo, abbandonato e soprattutto avremo modo di scoprire insieme nuovi modi di vivere il Vangelo oltre il tempo della pandemia. Il lavoro reciproco di comunicazione delle opere belle che compiamo ci permetterà di aprire nuovi orizzonti su tante possibili nuove strategie di evangelizzazione che questo tempo apparentemente improduttivo sta dischiudendo, spesso a nostra insaputa.
Particolarmente in questo tempo di Quaresima, come credenti la prima testimonianza che possiamo dare è restare uniti nel nome di Gesù risorto. È un tempo favorevole questo, in cui anche la stessa liturgia ci orienta. Se ci pensiamo, anche la cenere che riceviamo sul capo può diventare desiderio di comunione oltre che segno di penitenza. Infatti l’antico atto liturgico, penitenziale, in se stesso, esprime unità, coinvolgendo e chiamando tutti a compiere un percorso di umiltà.
Perché è proprio nell’umiltà che si rende possibile l’accoglienza reciproca e ci si riconosce tutti bisognevoli di conversione. Come San Paolo a Damasco, anche noi dovremmo cadere a terra. Scendere dal cavallo per entrare in contatto con quell’ “humus”, quella terra con la quale il Signore ci ha creati e ci ha resi creature Sue, lavorate dalle Sue mani. Sarà dunque un’occasione per tornare a Lui e per vivere in Lui il desiderio dell’unità. E’ un impegno di tutti che va invocato dall’Alto, ma va anche vissuto dal basso.
Lo ha ricordato l’arcivescovo di Bari nel giorno del Suo insediamento quando ha chiesto a tutti i presenti di diventare “artigiani di comunione e costruttori di unità” perché la fede si manifesta “non solo come dono scaturito dall’incontro con il Risorto, ma anche come esperienza comunitaria, nella quale l’alterità diviene elemento imprescindibile per la maturazione del proprio cammino”. Gli atteggiamenti e lo stile di vita con cui si diviene artigiani di comunione e costruttori di unità sono proprio “umiltà, dolcezza, magnanimità, capacità di sopportare con amore gli uni i pesi degli altri”[10].
[1] A. M. M. Delbrêl, Invisibile amore, Piemme, Casale Monferrato 1994, 91.
[2] Francesco, Omelia S Messa solennità di Pentecoste, 31 maggio 2020.
[3] A. M. M. Delbrêl, o. c., 91.
[4] G. Satriano, Omelia al funerale del piccolo Pietro, 30 gennaio 2021.
[5] Cfr. Statuto del Movimento apostolico ciechi.
[6] Francesco, Fratelli tutti, n. 43.
[7] G. Satriano, Omelia in Basilica di S Nicola , Bari 7 febbraio 2021.
[8] Cf. C. Caporale- P. Alberto (Edd.), Pandemia e resilienza Persona, comunità e modelli di sviluppo dopo il Covid-19 Consulta Scientifca del Cortile dei Gentili, Cnr Edizioni, Roma 2020, 21.
[9] G. Satriano, Omelia in Basilica di S Nicola , Bari 7 febbraio 2021.
[10] G. Satriano, Omelia nel giorno dell’insediamento, Bari 24 gennaio 2021.