Nel primo dei suoi Sermoni per l’Avvento, san Bernardo esplora un’altra immagine che lega il tema del Salvatore che viene a un’altra situazione che visualizza la malattia del mondo, quella del naufragio.
La similitudine del naufragio
È corrente, nella letteratura monastica medievale, l’idea della vita come di una traversata nel mare «vasto e immenso» (Aerledo di Rievaulx, Sermone 22 per la Natività di Maria, 1-6, in Una rugiada luminosa, p. 376-380), e in questa luce il rischio di sprofondare nell’abisso prende tutta la sua forza e il suo significato.
Il mare è già, nella mentalità espressa dalla Bibbia, un’icona madre della vita, soprattutto per la sua instabilità e per la mancanza di un fondamento solido su cui poggiare i piedi. La vittoria sulle acque, inaffidabili e patria di animali mostruosi, segnala la presenza di Dio, dal passaggio del Mar Rosso a Gesù che, nella tempesta, cammina sulle onde del lago.
L’immagine di un mondo sempre sull’orlo del naufragio appare già nel grande Pange Lingua della Settimana Santa (Venanzio Fortunato, c.530-c.610), dove la croce è salutata come «nocchiero che prepara/un porto al mondo naufrago» (…portum praeparare / nauta mundo naufrago): l’alternativa arca per nauta esprime, in fondo, lo stesso concetto.
Su questo sfondo, diventa cruciale proprio quanto Bernardo scrive nel primo paragrafo del suo primo Sermone per l’Avvento: «I poveri figli di Adamo… sono simili a uomini in grande pericolo di naufragare. E non c’è da stupirsi se li vedi aggrapparsi a chi li tiene, abbandonando qualsiasi cosa gli sia capitata prima tra le mani, anche se poi si tratta di cosa che non può dare alcun aiuto, come, per esempio, radici d’erba o cose simili. Se, infatti, qualcuno viene in loro soccorso, lo afferrano e lo trascinano con sé, così che non si salvano né loro né chi vuole soccorrerli» (Sermoni per l’Avvento I, 1).
È detto tutto: la situazione di naufragio, il bisogno di un appiglio, il rischio di trovarne uno sbagliato, che trascina nel disastro chi è aiutato e pure chi aiuta!
Nel percorso di analisi del tema della speranza che stiamo proponendo, una tappa cruciale chiede dunque di fare discernimento per non correre rischi. La speranza/desiderio, infatti, può rattrappirsi e morire in appigli illusori, o ingigantirsi e dilatarsi in ideali che mettono in moto le nostre migliori energie. Sono il tema delle due meditazioni che seguono.
Tra illusioni e ideali
Conviene, per cominciare, segnalare che tra illusioni e ideali – che forse potremmo congiungere in ciò che chiamiamo sogni – il confine è fluido, e non è certo quello che distingue il negativo dal positivo, almeno non nella loro origine. Ambedue possono avere un senso buono e uno perverso. Ambedue materializzano il nostro desiderio/speranza in ciò che istintivamente ci porta alla ricerca di qualcosa che è buono, ci appaga e ci realizza.
Nella versione buona, l’illusione ci aiuta a conoscere le nostre aspettative, l’ideale mette in azione le nostre energie per realizzare il sogno; nella versione perversa, l’illusione ci fa perdere tempo ed è fonte di pericolose frustrazioni, mentre l’ideale malinteso può funzionare come parametro di valutazione assoluto, diventare “ideologia” e produrre una sorta di spietatezza nei confronti di chi non ci arriva, di chi la pensa diversamente, e persino di noi stessi, incapaci di far pace con i nostri cocci e frammenti.
San Bernardo, nel brano che abbiamo citato, è più preoccupato di denunciare l’inganno che si nasconde in falsi appigli. In questo è raggiunto dal brano evangelico della 2a domenica (Lc 3,1-6), che ha appunto lo scopo di rettificare il desiderio, di guarire la speranza denunciando ciò che è illusorio. Tale denuncia è da sempre parte integrante della predicazione dei profeti, incluso Gesù, come introduzione all’annuncio della promessa che dà speranza. Nell’Avvento a fare tale parte è Giovanni Battista, figura centrale di questa stagione liturgica.
La prima illusione da distruggere, e da tenere sotto controllo, è in quell’appellativo «Razza di vipere» che apre, in Matteo e Luca, la predicazione di Giovanni. Noto che, mentre Matteo fa rivolgere questa arringa a «farisei e sadducei» (Mt 3,7), Luca lo allarga alla «folla» (Lc 3,7): ci siamo tutti! Pare un insulto: è piuttosto un invito a fare chiarezza su una delle nostre “radici” che genera i relativi desideri. È di fatto la stessa cosa che dice Gesù in Gv 8,44 quando, discutendo con alcuni «giudei», che si vantavano di essere «figli di Abramo», ricorda che i loro discorsi e il loro comportamento dimostra invece che «hanno per padre il diavolo», che sono «figli di Satana».
C’è un principio assoluto che deve regolare il discernimento richiesto da un corretto, spedito e fecondo cammino di speranza: la memoria della nostra duplice appartenenza, o duplice radice: da qui nascono i due mondi che si intersecano, come si è visto.
C’è una sorta di conflitto permanente in noi, che va decifrato e riconosciuto. E qui torna il discorso sull’appiglio che noi, nella nostra condizione, costitutivamente a rischio di naufragio, non possiamo fare a meno di cercare.
San Bernardo è chiaro: non qualsiasi cosa che ci capita tra le mani può andar bene, perché una cosa, o una persona, che pensiamo possa garantire la nostra sicurezza e felicità, e alla quale ci attacchiamo disperatamente, può rivelarsi un “ciuffo d’erba”, o una nuvoletta di vapore. Lo sappiamo bene.
Se c’è una cosa che non ha bisogno di eccessive illustrazioni, è la spaventosa fragilità relazionale che pare caratterizzi il nostro tempo, quello che va sotto il nome di «amore liquido». Ma potremmo anche includere quella “passione per gli acquisti” che in certi casi diventa una vera e propria malattia, o quella per il “gioco”, per esempio, che tanti danni produce, e che è una forma di quella incredibile illusione che il “possedere” una quantità di cose, e di persone, possa garantirci felicità e sicurezza.
La letteratura monastica e spirituale in genere – e Bernardo non fa eccezione – ha sistemato in una classica triade le più potenti fonti di benessere illusorio: piaceri, onori, ricchezze. Non c’è da riderci sopra, o da catalogare questa dottrina come “roba da medioevo” da buttare nella spazzatura. E però, anche su questo, niente di nuovo: la radice di tutti i mali è la cupidigia, scrive la 1Tm 6,10, e Aelredo di Rievaulx glossa il detto con un altro che gli si contrappone in toto: la radice di tutti i beni è la carità (Specchio della carità 2,3, p. 190).
E, in proposito, sempre nella stessa opera, Aelredo ci offre una metafora splendida e chiarissima in un’antropologia chiara ed essenziale. L’uomo – dice –, come ogni creatura, «è fatta dal niente, ed è fatta mutevole, e, spinta da questa mutabilità che fa parte della sua natura, continua a volgersi a ciò da cui è stata tratta, il niente». L’unica vera uscita da questa situazione drammatica, l’unica salvezza, o l’unica medicina, è prendere e mantenere come «appiglio» sicuro il contatto con l’Immutabile. E dunque, «per evitare che questa mutabilità della creatura la porti alla deriva verso ciò che le è inferiore, per contenere questa sua mutabilità entro ciò che è l’essere stesso, per portarla a innalzarsi con uno slancio più favorevole verso le cose superiori, sempre la creatura ha bisogno della grazia di colui che con la sua potenza l’ha creata» (Specchio 1,40, p. 123-24).
È evidente l’implicita immagine della vita come fiume, che ha bisogno della sorgente che lo mantenga, delle rive che ne governino il percorso, e di una foce come punto d’arrivo, tragitto ben sintetizzato da Dante: «E ‘n la sua voluntade è nostra pace: /ell’è quel gran mare al qual tutto si move / ciò ch’ella cria o che natura face» (Paradiso III, 85-87).
Il desiderio del possesso
C’è un’ultima precisazione da fare. Il desiderio più pericoloso è quello del “possedere”, che, in fondo, non fa altro che dirci quanto siamo radicalmente poveri e indigenti, il che ne spiega a volte la stessa violenza con cui si manifesta. Quando tale desiderio si proietta sulle cose, illudendoci che più si possiede e più si sta bene, è relativamente facile smascherarlo, anche se resta difficile dominarlo.
Più complicato è il desiderio di “possedere” le persone, che ha mille manifestazioni, e che può mascherarsi spesso sotto motivazioni all’apparenza nobilissime, tipo quando si giustificano certe scelte imposte con un “lo faccio per il tuo bene”. Non sto a fare esempi: ognuno può imparare dai fallimenti propri e altrui, per non dire dalle tragedie di relazioni che si rompono fragorosamente e arrivano all’illusione di possedere l’altro/a con la sua uccisione. Il quotidiano è di solito più banale, ma è sempre causa di sofferenza e di sfiducia. Il dramma è nella stessa creazione, quando, secondo la Bibbia, la donna è creata come «aiuto simile all’uomo» (Gen 2,18)!
E però questa stessa “similitudine” nasconde un pericolo: come può essere di aiuto uno/a che ha bisogno pure lui/lei di essere aiutato/a? Come se ne esce? In questo caso, non vedo altre ragionevoli soluzioni se non nel riferimento a un terzo, Dio, che è l’unico che possa davvero essere un Aiuto totalmente gratuito. In pratica, la fede in lui ci aiuta a non “divinizzare” nessuno/a, e dunque il nostro aiuto non può che essere reciproco, partendo da una situazione di indigenza radicale che tutti ci accomuna. Ciascuno è chiamato ad aiutare, a portare con la sua fragilità la fragilità degli altri, a sostenere con la sua compassione la speranza di chi fatica a camminare. Solo così si guarisce l’illusione che diventa pretenziosa, e si impedisce all’ideale di funzionare in modo perverso.
Torniamo all’insegnamento che viene dal vivere in pace con i nostri frammenti, che, facendoci umili e compassionevoli, ci aiutano a capire e a sopportare quelli degli altri. Ma di questo, che è la parte costruttiva della predicazione del Battista, parleremo nella prossima meditazione.