L’ultimo quadro che ci offre la liturgia di questo tempo è un gioioso incontro di due donne, Maria ed Elisabetta, che si trovano a celebrare una “venuta” che insieme sconvolge e appaga le loro attese.
Non è la conclusione di un percorso, perché il bimbo inaspettato che portano in grembo è pur sempre ancora una promessa, l’embrione di un’esistenza che è ancora tutta da scoprire. Però gli annunci e le promesse ora hanno la materialità della carne, e questo fa la loro gioia proprio perché la speranza, per essere creduta, non può fluttuare nel vuoto, ma ha bisogno di qualche segno concreto della sua possibilità necessario per aiutare a credere al suo fondamento e alla sua presenza. In questo caso è l’apparizione di un “frutto del grembo” che attende solo di venire alla luce, ma che c’è e si sente.
L’incontro di due donne
La scena proposta nell’ultima domenica, a ridosso del Natale, risponde un po’ anche ai temi che abbiamo trattato nelle tre tappe precedenti. Forse qui la partenza non è proprio fatta di “macerie”, ma si tratta pur sempre di situazioni “chiuse”: la sterilità di Elisabetta, e la verginità di Maria, cui risponde una straordinaria e inattesa “fecondità” che colma di felicità e di stupore le due donne, che si esaltano a vicenda e cantano: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo – esclama la prima –, L’anima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore – risponde in eco la seconda –.
Il Lezionario riporta solo la benedizione di Elisabetta, ma non sarebbe male riprendere anche lo splendido contrappunto con cui le fa eco Maria. Non è un caso che il Magnificat chiuda ogni giorno la preghiera del Vespro: è un invito a rileggere la giornata alla luce delle grandi gesta di Dio, le cui tracce possiamo sempre ritrovare, e celebrare, nelle nostre piccole storie quotidiane.
Si è detto che il nostro compito, davanti a un mondo malato, e considerando i nostri cocci e le nostre malattie, è quello di “seminare” segni di speranza, ma è altrettanto importante “vedere” tali segni, “raccontarli” e celebrarli, da soli e in comunità. Perché, nella lotta per tenere viva la speranza del mondo, e insieme la nostra personale, ha un grande peso il procedere comunitariamente, diciamo anche come Chiesa, e non solo come liturgia, ma anche come comunicazione nello scambio di fede.
Rileggendo oggi il racconto di Luca 1,39-56, mi ha colpito l’ultima frase: Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua. Dopo la conclusione del Magnificat, che proclama come la misericordia di Dio si estenda ininterrottamente su Abramo e la sua discendenza per sempre, il versetto che chiude il racconto assomiglia a un “tonfo” retorico che in certo senso “abbassa” uno scenario cosmico, vastissimo e aperto nel tempo e nello spazio, alle dimensioni della quotidianità più ordinaria. L’iconografia di tale incontro, folta di varie realizzazioni, si concentra per lo più sull’abbraccio tra le due donne, che si riconoscono così oggetto della medesima grazia.
Entrare nel racconto
Aelredo di Rievaulx, nelle sue splendide meditazioni sulle scene evangeliche, in cui esorta ad entrare con l’immaginazione e con tutti i sensi nelle narrazioni (vedi Regola delle recluse, III. 29-31, p. 173-194, sezione entrata per intero nella grande Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia, letta da Ignazio di Loyola che ne trasse ispirazione per i suoi Esercizi Spirituali) si concentra proprio sull’abbraccio. Rivolto alla sorella, monaca reclusa, scrive:
«Ora, insieme alla tua dolcissima Signora, sali in montagna e guarda come la sterile e la vergine si abbracciano con tenerezza, e considera il saluto, nel quale, ancora chiuso nelle viscere della sua anziana madre, il servo riconosce il Signore, l’araldo il Giudice, la voce il Verbo, e con un gaudio indicibile lo saluta. Beati gli uteri nei quali spunta la salvezza di tutto il mondo e, respinte le tenebre della tristezza, viene profetizzata una letizia sempiterna. Che fai, o vergine? Corri, ti prego, corri, e unisciti a gioie così grandi, prostrati ai piedi di tutte e due, e in un ventre abbraccia il tuo sposo, e venera nell’altro l’amico dello sposo» (p. 175-176).
Immaginazione e poesia, teologia e suo riverbero nelle emozioni più comuni e condivisibili: lo leggiamo così il vangelo?
Ma quello che mi ha colpito nella frase conclusiva del racconto, in quello stare di Maria con la cugina per tre mesi, ha fatto nascere una domanda: cosa si saranno dette le due donne in quei tre mesi? Mi pare naturale pensare che si saranno scambiate sì gioia e felicità per quello che era capitato ad ambedue, ma anche paure, perplessità, interrogativi suscitati, in loro e nella gente, da due nascite così fuori dall’ordinario.
Sono andato a rileggermi una bella poesia di Elizabeth Jennings, già nominata – La Visitazione –, che riporto:
«Non aveva trattenuto abbastanza il suo segreto / da ingolosirsene, ma voleva condividerlo come se / il dirlo avrebbe addomesticato il momento terrificante / quando lei, calmissima nel suo meriggio, / sentì l’angelo intrepido, udì / il suo battito d’ali, e la voce di lui nella sua preghiera. // Questa era la cosa che aveva bisogno di trasmettere, / il momento inquieto, la strana interruzione, / l’angelo che portava pena mascherata di gioia, / ma frammisto a ciò c’era qualcosa che poteva condividere / e non lasciare, semplicemente che / un bambino era spuntato in lei come il primo dei semi. // E nella quiete di quell’altro giorno / il meriggio svelò il suo vuoto, / ombre alla deriva nella luce, la lunga strada che girava / in un’arida sequenza del sole. E lei / non sembrava una figura ansiosa, ma un silenzio che si muoveva nella campagna. // E tutto il suo viaggiare era un accarezzare / entro la sua mente segreti che dovevano essere detti. Il semplice fatto della nascita presto mise in ombra / l’ombra dell’angelo. Quando giunse / vicino alla casa della cugina ella mantenne / solo il messaggio della sua felicità. // E quelle due donne nel loro rapido abbraccio / si fissavano l’una l’altra con sguardi non disturbati / da uomini o miracoli. Fu il bambino a / proiettare la sua ombra sul loro pomeriggio / con il suo muoversi improvviso, riportando / i vasti echi di quel battere d’ali» (“La danza nel cuore delle cose”, p. 51).
Più che di commenti, una poesia ha bisogno di essere letta e riletta fino a che pian piano libera le sue luci e le sue intuizioni. Splendido, per esempio, il verso che descrive Maria come «un silenzio che si muoveva nella campagna», o «l’angelo che portava pena mascherata di gioia», come anche il bisogno di Maria di confidare il suo segreto, e forse nella conversazione con la cugina provare a far risuonare e a comprendere «i vasti echi di quel battere d’ali», esile e decisiva memoria dell’Annunciazione, risvegliata dall’esultanza del bambino nel ventre di Elisabetta, gioia che risponde a gioia. E, ultimo paradosso, in contrappunto con l’angelo, questa volta a dare l’annuncio con il suo sussulto nel grembo è un bambino, peraltro neanche ancora nato!
Celebrare la gioia
L’Avvento conosce un’intera domenica, la terza – Gaudete –, dedicata alla gioia. Ma non sarebbe male riprendere il tema anche alle soglie del Natale. In proposito, vorrei consigliare di riprendere in mano uno dei più bei commenti al Magnificat, quello di Martin Lutero, scaricabile anche da Internet.
La celebrazione della gioia della fede resta in primis affidata alla liturgia, quella eucaristica anzitutto che, nella sua essenza e natura, è soprattutto un “rendimento di grazie”. Non posso nascondere la mia delusione nel partecipare a messe che di gioioso hanno ben poco. Prevale, purtroppo, la concentrazione dell’attenzione, nel presidente e nei fedeli, sull’omelia, con tutti i rischi del caso.
Mi è capitato spesso di notare come negli Atti la predicazione degli apostoli, prima e più che “insegnare”, era un “esortare” e “glorificare”: dove sono finite oggi queste attenzioni? Perché le “acclamazioni”, sono recitate in modo spiccio e sciatto che non dice più niente? Certo, ci sono le festose celebrazioni delle GMG, ma perché non avere a cuore questa cura della gioia nelle eucaristie più ordinarie, almeno in quelle festive? Con il canto, certo, ma anche con la serietà e la gravità che si richiede per affermazioni (la messa ne è piena, a partire dall’Amen!) che esprimono la fede, la nutrono e la rafforzano.
Ma, a parte il momento specificamente celebrativo, il cammino disegnato sin qui porta alla necessità di “nutrire” la speranza sempre, dovunque e comunque.
E qui torna a proposito un suggerimento che mi viene da quanto mi capitò di leggere tempo fa: «Anche se la storia di come soffriamo, di come gioiamo e di come possiamo trionfare non è mai nuova, deve sempre essere ascoltata. Non c’è altra storia da raccontare; è l’unica luce che abbiamo in tutta questa oscurità». L’affermazione è di James Baldwin, un grande scrittore americano del secolo scorso (1924-1987).
Cosa c’entra con quanto ho scritto fin qui? C’entra, perché è un invito a sostenere insieme l’attesa e la speranza di guarire, pur vivendo in un mondo malato.
Prima di, e oltre a, essere uno scrittore famoso, Baldwin ha conosciuto molto bene cos’è la marginalità, una delle più dolorose malattie dell’umanità. Nipote di uno schiavo, figlio illegittimo, nato e cresciuto in estrema povertà, nero e omosessuale, sapeva cosa significava sopravvivere in un mondo a lui ostile, gli Stati Uniti di metà Novecento. Quello che ha imparato ce lo consegna nelle parole con cui ci consiglia di “raccontarci” come viviamo sofferenze, gioie ed eventuali successi, che è poi il tracciato uscito da questa esplorazione della speranza che cresce nell’attesa di una venuta.
Tenendoci per mano
Importa capire che, nel fragile vaso di creta, è nascosto un tesoro (cf. 2Cor 4,7), che le nostre ferite guariscono guarendo le ferite degli altri (cf. Is 53,5), e che la debolezza, inclusa la tribolazione, può generare una forza (cf. 2Cor 12,10). Capita a tutti nella vita di attraversare momenti di nebbia e di confusione. Ma se la nebbia rimane, e può rimanere a lungo impedendoci di vedere il sole, non ci resta che camminarci in mezzo tenendoci per mano. Lo scambio d’anime sincero, fiducioso e aperto, con un amico o anche in piccoli gruppi, è un aiuto potente per vincere solitudine e smarrimento.
E, per finire, teniamo fisso lo sguardo su una splendida, velocissima sintesi del senso di ciò che celebreremo a Natale: la venuta dell’Emanuele, il Dio con noi, che «ha preso la nostra polvere, e le ha insegnato a benedire»! (E. Jennings). È una gioia e un compito: la gioia viene da Dio, ma è nelle nostre mani.