Mentre l’aereo di Ryanair da Santiago ci sta riportando a casa, la signora vicina all’oblò, smesso di ammirare il panorama e di fare foto, ora si è appisolata; sull’altro sedile accanto a me un giovanotto è immerso nell’ascolto della sua personale playlist.
Cerco di fare il punto di questa esperienza ma i sentimenti e i pensieri sono ancora aggrovigliati. A ben pensarci, non saprei neppure dire perché ho accettato di intraprendere questo viaggio/pellegrinaggio…
E dire che ho detto “sì, eccomi…” alla prima chiamata. Forse aspettavo questa chiamata, qualcuno che mi invitasse ad alzarmi e seguire il cammino fino al compimento di un desiderio tuttora indefinibile.
Raggiungere la tomba dell’apostolo Giacomo? Sì, certo, la meta era concretamente “anche” questa, ma non solo… No, certamente non solo questa a ben pensarci.
Se ritorno a 10 giorni fa, con il volo dell’andata, ricordo una certa agitazione: ognuno di noi sei era più o meno mosso da un misto di preoccupazione e di eccitazione. Un conto è “intravedere” su una cartina le tappe, leggere il programma che da O’ Cebreiro – ai margini della Galizia – ci avrebbe portati a raggiungere Santiago in 8 tappe «fra le frescure delle montagne di Galizia».
“Il programma… ci avrebbe portati”? Accidenti! Noi stessi ci saremmo “con i nostri piedi” portati per quasi 180 km. Sono ormai diversamente giovane, soprappeso («senza alcun dubbio», secondo mia moglie), diabetico, fuori forma… e quant’altro. Ce l’avrei fatta? Ho caricato troppo lo zaino? Avrò dimenticato qualcosa? Aiuto…
Che immagini/sensazioni altre mi tornano in mente?
I primi chilometri da O’ Cebreiro e il primo dei cippi di pietra che ad ogni bivio ci guidano con la conchiglia e la freccia gialla di riferimento (impossibile perdere la via) e – non da meno – fanno la conta alla rovescia dei chilometri che ci separano da Santiago; il primo albergue dove trovammo ospitalità, Fillobal; la prima cena del pellegrino; la prima sistemazione nella camerata, con il “letto a castello”; prima notte…
Non ho ancora la lucidità per una “cronaca”. Si impongono nel cuore e nella mente in modo vivido alcuni elementi significativi, che hanno impresso un “segno” in questo giorni di cammino.
L’elemento più rilevante, a mio avviso, non è stata la rinuncia agli agi e alle comodità della vita, quanto piuttosto nell’intraprendere un percorso di tot chilometri a piedi, l’essere entrati in un’altra dimensione e vivere un’esperienza che ha sovvertito i riferimenti coi quali nella vita di ogni giorno ci rapportiamo.
Sul Cammino, tempo e distanze acquistano altri valori, risultano dilatati dalla lentezza del procedere. Venti, trenta chilometri al giorno non significano nulla nella nostra vita “normale”, quando vengono agevolmente superati in pochi minuti dai veicoli dei quali disponiamo. Ma, per il pellegrino sul Cammino, venti-trenta chilometri rappresentano l’impegno e la fatica di un giorno intero. Tutto è più lento. Il suono dei passi sui sassi o sull’asfalto, il respiro reso più o meno affannoso dalla pendenza del sentiero, la cadenza di una canzone o di una preghiera sussurrata a mezza voce o che rimane nel cuore, diventano i ritmi che scandiscono lo scorrere lento del tempo. (Incommensurabile pregio).
Tuttavia, se vi diranno che sul Cammino tutto è meraviglioso, che sembra di vivere in un mondo magico e fuori dal tempo… beh, non è propriamente così: non sempre facile trovare il “meraviglioso” fuori o dentro di te: talvolta è necessario essere pazienti, e può essere che il paesaggio, la natura in genere presenti davvero “meraviglie” fuori dall’ordinario nostro: panorami aperti, colori di prati e fiori, canti di uccelli.
Tante altre volte la routine del passo dopo passo può essere noiosa. Specie con il cielo bigio e la pioggia gelida.
Sempre che non si sappia cogliere la “perla preziosa” quotidiana, non solo nelle opere artistiche (cruceiros ai crocicchi o cappelle e chiese medioevali…) o nelle architetture feriali lungo la via (fattorie con horreos secolari); ma ancor più (e soprattutto) il bello e il buono che ci si offre nel silenzio, “lo spazio disponibile” per sé stessi, e ci si offre nelle relazioni con chi marcia al nostro fianco.
Ripenso alle centinaia di persone incontrate (la stragrande maggioranza mi superava) e reincontrate più volte nel corso delle tappe, e al saluto «Buen Camino» che veniva ogni volta ripetuto con maggiore o minor calore.
E l’“Ultreya” e “Suseya” di cui parlavano le “guide” e i blog dei “veri pellegrini”? Ma siamo stati “veri pellegrini”? Tre su sei dal 2°-3° giorno – per motivi di salute – ci siamo fatti portare lo zaino (la mocilla) all’albergue successivo dai furgoni dei mocilleros; andavamo “scialli” fermandoci anche a ristorarci con la “cerveza” di metà giornata; la cena era sempre caratterizzata da buon vino, dolce e caffè “all’italiana”, attenti più alle varianti del “menu gallego” che alle modulazioni di stile dei monumenti sul cammino; non siamo arrivati in riva al mare a bruciare gli abiti del pellegrinaggio… Per non parlare dei vari riti all’entrata della Cattedrale passando dal Portico della Gloria (a dire il vero dal Portico della Gloria manco si poteva passare).
Magari non rettamente motivati secondo i “puristi”, ma comunque pellegrini “certificati”, attenti a farci apporre il “sello” ad ogni pernottamento e lungo il cammino sulla “credencial”, il passaporto per Santiago, che ha consentito anche a noi la “Compostela”, il certificato del pellegrino.
Ripenso soprattutto ai miei 5 compagni di viaggio: nonostante i miei limiti personali, si sono stati stabiliti rapporti di solidarietà e di reciproco aiuto. Si è condivisa la fatica, il pane e la frutta secca, l’acqua della borraccia, fino alle emozioni e i pensieri più profondi.
Abbiamo condiviso cerotti e disinfettante, ago e filo per trattare le vesciche sopportare con leggerezza il dolore che non manca un passo – come probabilmente è di ogni vita di chi cammina su questa Terra.
Vesciche, ferite, distorsioni, finanche contusioni scendendo addormentati dal letto a castello: “segni” ben presenti nei giorni del cammino e che – è vero – lo hanno caratterizzato profondamente, rendendolo del tutto personale e profondamente coinvolgente: posto dolorosamente di fronte ai propri limiti, mi son reso conto di quanto costi accettarsi, di quanto sia importante “aspettare” l’altro e sapersi attesi dall’altro; dell’essere oggetto di cure e del prendersi cura, dell’essere accanto, nel silenzio… evidenti metafore del vivere quotidiano.
Può darsi non si sappia di preciso il perché si va a Santiago, ma è più importante il come e con chi, i compagni con cui si cammina, persone o letture che fanno germogliare buoni pensieri. E al riguardo sono stati preziosi i pensieri suscitati dalla riflessione serale e dagli scritti che erano stati preparati.
Mi ronzava ancora nel cuore la conclusione dell’inno che iniziava le nostre tappe (A caminar sin ti)[1]: «si incontreranno in un sol battito, viso a viso, il tuo amore e il mio peccato». Quella sospirata ultima meta.
La voce del personale di bordo che pubblicizza una lotteria istantanea mi riporta alla realtà.
È servita a qualcosa questa esperienza? In termini strettamente utilitaristici… mah… Mia moglie mi ha già fatto notare che non solo non son calato di peso ma ad occhio – il suo – dovrei aver aggiunto qualche etto.
Non posso dire al momento di aver sviluppato una qualche forma di “santiaghite”, tuttavia un rammarico mi rimane: nel nostro progredire sulla “Via delle Stelle”, la stessa che da Oriente ad Occidente percorre in cielo la Via Lattea, una sola sera l’assenza di nuvole e di inquinamento luminoso mi ha consentito di ammirare il cielo stellato. Al primo sguardo, appena uscito in giardino, tre aerei di passaggio… Noooo. Basta.
Sarà per una prossima volta?…. “Buon Cammino!”… ovunque sia il nostro cammino.
[1] A caminar sin ti, Señor, no atino;
tu palabra de fuego es mi sendero;
me encontraste cansado y prisionero
del desierto, del cardo y del espino.
Descansa aquí conmigo del camino,
que en Emaús hay trigo en el granero,
hay un poco de vino y un alero
que cobije tu sueño, Peregrino.
Yo contigo, Señor, herido y ciego;
tú conmigo, Señor, enfebrecido,
el aire quieto, el corazón en fuego.
Y en diálogo sediento y torturado
se encontrarán en un solo latido,
cara a cara, tu amor y mi pecado. Amén.