Celebrare e pregare in tempo di epidemia

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Sarebbe opportuno che i cristiani, privati delle celebrazioni liturgiche, fossero formati a vivere delle “liturgie domestiche”. Alcune proposte.

Il tempo che stiamo vivendo, proprio per il suo carattere di novità e di criticità, sta producendo pensieri e riflessioni – e azioni – in tante persone e in tanti ambienti. Anche a livello ecclesiale si stanno tentando vie inedite o, quantomeno, poco battute, per portare avanti la cura pastorale.

In questa scia, anche la Conferenza episcopale italiana si è data da fare e ha prodotto, attraverso l’Ufficio liturgico, un sussidio per accompagnare la preghiera nelle case.

Anche a partire dalle righe che introducono il fascicolo, vorrei provare a condividere alcuni pensieri ad alta voce. Sono pensieri, appunto, quindi né organici né completi, che nascono dal desiderio di provare a fare di questo tempo un tempo di grazia, ovvero un’occasione per rinnovare la nostra fede e la nostra esperienza di Chiesa.

Ecco l’introduzione al fascicolo CEI: «L’inedita impossibilità di celebrare in contesto assembleare l’eucaristia – fonte e culmine della vita cristiana (cf. SC 10) –, non coincide con l’impossibilità di entrare in comunione con il Signore e il suo mistero di salvezza. Egli infatti imbandisce per il suo popolo la mensa del Pane di vita, ma anche quella della Parola, perché Cristo «è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura» (SC 7). Assumendo la natura umana, egli ha unito a sé tutta l’umanità e l’ha associata nell’elevare al Padre quell’inno di lode perenne cantato nelle dimore celesti. La preghiera, in particolare quella della Liturgia delle ore, è infatti autentico esercizio del sacerdozio di Cristo, nella lode e nell’intercessione per il mondo intero (cf. SC 83)» (Celebrare e pregare in tempo di epidemia, Ufficio liturgico nazionale della CEI, 2020)

Il tenore di fondo di questi pensieri viene dalla prima affermazione: «l’impossibilità di celebrare in contesto assembleare l’eucaristia […] non coincide con l’impossibilità di entrare in comunione con il Signore e il suo mistero di salvezza». Quindi: niente panico! La grazia non smette di giungere a noi e il Signore è sempre presente. Non lasciamoci prendere dallo sconforto e non cerchiamo soluzioni rigide o affrettate.

Proviamo, piuttosto, ad avere uno sguardo teologico sulla storia, su questa storia che stiamo vivendo, impegnandoci a mettere in discussione le consuetudini, col desiderio di vivere più autenticamente il nostro rapporto col Signore e, magari, di poter anche testimoniare in modo inedito la sua Parola.

Pensare a una liturgia domestica

Il primo spunto viene dalla citazione della Sacrosanctum concilium (n. 10) attraverso cui il documento afferma che l’eucaristia è «fonte e culmine della vita cristiana». In realtà, il testo del Concilio non si riferisce nello specifico all’eucaristia, ma alla «sacra liturgia», di cui l’eucaristia è un aspetto particolare (se vogliamo, apicale).

A cosa si riferisce il Concilio parlando di «sacra liturgia»? Si riferisce ai sacramenti, alla proclamazione della Parola, alla preghiera della Chiesa. Ecco, in questo tempo non possiamo celebrare i sacramenti in modo comunitario, ma possiamo continuare a celebrare la «sacra liturgia» della parola e della preghiera della Chiesa. Non viene così a mancare né la fonte né il culmine della vita cristiana. Certo, è incompleto, ma non assente. Semmai – e questo è l’aspetto che mi sembra più critico – ciò che manca è la capacità delle persone di praticare autonomamente queste forme liturgiche. Dove “autonomo” non significa “autoreferenziale”, ma significa con le proprie forze, sentendosi capace, efficace.

Questo tempo, che ci priva delle celebrazioni comunitarie, credo metta anche in luce che la capacità di “gestire” una propria pratica liturgica, fatta di sacra Scrittura e di preghiera (in particolare la Liturgia delle ore), non si improvvisa.

Andare a messa è un’azione che ci vede, nella stragrande maggioranza dei casi, spettatori di un’azione altrui. I discorsi sul fatto che siamo tutti celebranti e che il prete è solamente il presidente dell’assemblea sono, a mio avviso, un po’ retorici, perché nei fatti le persone vanno ancora ad ascoltare la messa.

Il senso di vuoto lasciato dalla mancanza dell’eucaristia domenicale forse rivela il vuoto anche di altro: della capacità di prendere in mano la Bibbia e di pregare con la Parola, della lontananza dalla pratica (e forse dalla sensibilità) comune della Liturgia delle ore.

Pregare a casa

Forse un tema che varrebbe la pena affrontare nei prossimi anni è la vita spirituale dei laici e gli strumenti che questi possono/devono imparare ad usare (non solo tecnicamente ma sentendoli utili per la propria vita). Tanti passi sono stati fatti in tal direzione, ma probabilmente i frutti sono rimasti confinati in certi ambienti (associazionismo, movimenti) e non sono ancora diventati patrimonio comune, popolari.

La via per un laicato che si senta veramente attivo credo passi anche dal trasmettere una certa autonomia rispetto alla pratica liturgica: se in ciò che è «fonte e culmine» le persone sono sempre dipendenti dal clero, allora facilmente questa dipendenza permeerà anche il resto della loro vita e pratica cristiana.

Con una precisazione: certamente sono molte di più le persone che pregano spontaneamente di quelle pregano liturgicamente. Questo perché non tutti i modi di pregare sono liturgici: per definizione, la liturgia è una forma definita, non arbitraria. Mentre, la preghiera spontanea non ha delle regole, nasce naturalmente, dal cuore.

Il fatto che la preghiera liturgica abbia una sua strutturazione e non dipenda solamente dalla sensibilità personale ha una conseguenza importante, soprattutto in tempi come questo: porta in sé la forza dell’azione comunitaria, dell’appartenenza ecclesiale, anche se praticata individualmente. Detto più semplicemente: se ho consapevolezza di pregare come prega la Chiesa (che vuol dire: come pregano anche i miei fratelli, il mio vicino), questo rafforza il mio senso di appartenenza anche in mancanza della presenza fisica della comunità. Si rafforza il legame spirituale.

Non dico che nella preghiera spontanea questo sia assente, ma sicuramente è meno forte. Lo stiamo sperimentando in questi giorni in cui ci troviamo a vivere le stesse proposte, pur ognuno a casa propria.

Nella parrocchia che frequento, ad esempio, stiamo vivendo la settimana di deserto: anche se ascoltiamo le meditazioni da casa, sapere che tutti gli altri lo fanno ci fa sentire in comunione con loro, è comunque un’esperienza condivisa, non solo individuale.

Ecco, credo che trovare delle forme liturgiche (quindi in un qualche modo regolate, strutturate) praticabili e godibili per la gente di oggi (quindi con un linguaggio e una forma che riescano a intercettare il loro vissuto) aiuterebbe le persone a sentirsi parte della comunità. Ovviamente questo non è un processo automatico: ci sarebbe bisogno di sostenere e di incentivare la pratica, di formare le persone (cose, per altro, già affermate in SC). Ritengo, però, che tutto questo aiuterebbe a far crescere una coscienza più matura della dignità battesimale.

Anche i fratelli sono “corpo di Cristo”

Un secondo spunto di riflessione viene dal concetto di «corpo di Cristo». Anche nell’Introduzione emerge che il corpo di Cristo è più ampio dell’eucaristia: la sua parola è cibo da mangiare, noi siamo suo corpo (1Cor 12,27). Quest’ultimo aspetto mi sembra centrale, adesso.

Questa epidemia mette in risalto l’interdipendenza tra tutti noi. Come cristiani, abbiamo una ricchezza di riflessione in tal senso di cui forse non sempre siamo consapevoli! L’eucaristia ha un po’ fagocitato tutte le altre accezioni di «corpo di Cristo», in particolare quella che identifica le persone (in particolare i più fragili, secondo Mt 25,31-46) con Cristo stesso. Prendersi cura degli altri, in particolare dei più deboli, è prendersi cura del corpo di Cristo.

Anche le norme che ci tengono vincolati in questo tempo possono assumere un valore più profondo se pensiamo che servono a tutelare le membra più deboli del corpo del Signore. Perché, quando un membro soffre, tutti i membri soffrono con lui.

In una prospettiva futura, potrebbe essere positivo riscoprire il fondamento cristologico (per noi cristiani) dell’attenzione al prossimo, dell’ecologia, del bene comune. C’è una grande ricchezza, ad esempio nella Dottrina sociale della Chiesa, che ha molto da dire (nel senso che dice cose attuali e belle) a noi uomini e donne del terzo millennio. Approfondire che il pane dell’eucaristia, il pane della Parola e il pane dei fratelli (in particolare dei poveri) fanno parte di un’unica mensa, potrebbe aiutarci a evitare schizofrenie farisaiche e attivismo inaridito.

Come fare senza messa?

Una terza e ultima riflessione riguarda la messa. Noi siamo abituati ad un’abbondanza di celebrazioni, addirittura ad un eccesso (il Diritto canonico, can. 905, indica, di norma, una sola celebrazione al giorno, e fino a tre – per necessità – nei giorni festivi; ma quanti preti celebrano normalmente tre o addirittura più messe? Quello che dovrebbe essere il caso eccezionale è diventato la consuetudine).

 In tante zone del mondo le comunità non hanno la celebrazione quotidiana, settimanale o mensile. In alcune comunità si celebra una volta l’anno.

Se, prima di tutto, possiamo far crescere la nostra comprensione e comunione con queste comunità, possiamo – credo che dovremmo – anche interrogarci sul ruolo e il significato che ha la messa per noi. Poiché è la pratica più identificativa della cattolicità, è diventato il bollino che appicchiamo su qualsiasi esperienza dobbiamo etichettare come cristiana: giornata degli studenti? Messa. Giornata dello sport? Messa. Festa del grest? Messa. Festa degli alpini? Messa. Possibile che sia l’unica proposta che possiamo fare in situazioni così differenti? Parafrasando Mt 4,4: Non di solo pane vivrà l’uomo!

Credo sia innegabile che la messa abbia un fortissimo carattere identitario per noi cattolici. Tanto che, ad esempio, la nozione di praticante (in opposizione a credente) è legata principalmente alla partecipazione alla messa. Probabilmente la maggioranza dei cattolici praticanti passa da una messa domenicale all’altra senza, nel mezzo, vivere altre pratiche della fede.

In più, nella partecipazione alla messa, c’è un forte aspetto sociale, comunitario. Condividere con tanti altri una stessa esperienza, sentirsi parte di un gruppo, con tutto ciò che ne deriva in termini di senso di appartenenza, di protezione, di sicurezza, di integrazione, incide fortemente sulla nostra identità. È ovvio, quindi, che il venir meno di tale pratica non tocca solamente la dimensione sacramentale (non posso fare la comunione) ma le nostre sicurezze e le nostre relazioni sociali.

Ma, anche per questo, il rischio che la messa diventi altro rispetto alla celebrazione di un sacramento è forte e sempre presente. O, quantomeno, è sempre presente il rischio che aspetti secondari diventino principali.

Non voglio sminuire l’importanza della celebrazione eucaristica, ma sottolineare che, come tutte le realtà, anche questa si presta ad essere snaturata, ad una visione parziale e ideologica, all’idolatria.

L’attaccamento ad una pratica (espresso dal senso di mancanza e di smarrimento che accompagna la sua mancanza) non è di per sé segno che questa stessa pratica sia vissuta nel suo significato più autentico.

Spero che, quando torneremo a celebrare insieme l’eucaristia, si possa non tornare esattamente a quello che facevamo prima, ma si possa provare a mettere a tema – come piccola comunità e come grande Chiesa – il posto che occupa la messa nella vita dei cristiani.

A tal proposito, mi accompagna sempre un fatto della vita del beato Charles de Foucauld. Lui, che era così innamorato dell’eucaristia da praticare un’ora di adorazione silenziosa ogni giorno, per circa due anni si trova ad essere l’unico cristiano nel deserto algerino, impossibilitato a celebrare l’eucaristia perché le norme dell’epoca richiedevano che si fosse almeno in due. Ebbene, fratel Charles sceglie, pur con tutto il rammarico di non poter celebrare, che è più importante rimanere lì coi suoi fratelli tuareg, dove sente che il Signore lo chiama ad essere, piuttosto che tornare in luoghi più cristiani per poter celebrare l’eucaristia.

Non so quale insegnamento potremmo trarne noi oggi, ma il pungolo che il fine del cristianesimo non sia celebrare la messa, ma amare i fratelli, lo sento forte nella carne!


Emergenza socio-sanitaria e forme di vita cristiana
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