Irritante – con questo giudizio lapidario un breve articolo di Birgit Aschmann pubblicato sul sito della Chiesa cattolica tedesca katholisch.de sembra chiudere le porte a ogni ulteriore riflessione e discussione sulla decisione del vescovo di Berlino, H. Koch, di consacrare la diocesi al Cuore di Gesù e a quello di Maria in occasione del 90° anniversario della sua fondazione – che cade in un momento di crisi diffusa e difficile da governare sia a livello personale sia a quello di vita pubblica e politica a causa della pandemia da Covid-19.
In parte, però, irrita anche l’equazione storica addotta per rendere ragione dell’inopportunità della scelta berlinese: da Margherita Maria Alacoque, passando per i gesuiti, al Sacro Cuore come simbolo di battaglia (per una nuova cristianità cattolica?), fino all’epilogo ultramontano durante il pontificato di Pio IX. La linearità è ineccepibile, il percorso storico che porta dalla devozione al culto è probabilmente più complesso di quanto si lascia intendere.
Il lato tragico del culto del Sacro Cuore
Nella Francia del XVII secolo la Chiesa cattolica ha già di fatto perso la sua battaglia contro lo Stato moderno (altrettanto cattolico): politicamente subalterna ed ecclesialmente dipendente. L’istituzionalizzazione della devozione in culto ecclesiale, che è il vero snodo della strategia spirituale portata avanti da Margherita Maria Alacoque (in una stagione in cui i confini fra spirituale e temporale erano sempre più porosi e indistinti, tanto nella Chiesa quanto nello Stato), è il tentativo di trovare una via per ribaltare gli equilibri stabiliti all’interno di una dialettica reciproca di carattere opposizionale: su entrambi i lati l’unica possibilità era quella di occupare spazi propri dell’altro polo in tensione.
La storia moderna europea ci dice l’esito finale di questo modo di istruire la dialettica fra religione e politica: con la vittoria definitiva dello Stato (assoluto) e il fallimento della Chiesa nell’opzione di condensare tutta la sua missione religiosa all’interno della forma politica di uno stato sovrano fra molti altri. Esito a cui la Chiesa cattolica ha contribuito in maniera rilevante per quanto concerne gli assi portanti dell’architettura costituzionale dello stato moderno europeo.
Di questa “fine” Pio IX, insieme alle implicazioni del suo pontificato (praticamente tutte interne all’istituzione ecclesiale, essendo la Chiesa divenuta oramai irrilevante sul piano politico e culturale del tempo), è il simbolo tragico. L’esaltazione ultramontana del Sacro Cuore è la cortina fumogena che la Chiesa cattolica getta davanti a se stessa per fare come se la storia non fosse finita come è di fatto terminata. L’esaltazione della potenza spirituale della liturgia come rimozione dell’ormai compiuta irrilevanza sul piano del potere politico europeo: senza progetto o visione alcuna per reinventarsi nel tramonto della modernità.
In questo, lungo tutta la parabola moderna del culto ecclesiale al Sacro Cuore, vi è una radice tragica che, a mio avviso, non è stata ancora debitamente studiata – né sul piano teologico né su quello storiografico. Tutti un po’ risucchiati nei clichés convenzionali sui quali entrambe le discipline sembrano essersi comodamente attestate.
Sacro Cuore: tra pratica devozionale e culto liturgico
Ed è all’interno di questa dimensione tragica che si potrebbero forse cogliere alcuni elementi per una lettura in controtendenza del destino a cui il culto del Sacro Cuore si è sostanzialmente votato fin dai suoi inizi. Perché in questo contesto si apre la possibilità di cogliere il passaggio epocale da devozione (personale) a culto (istituzionale): quello di essere stato il tentativo di creare un immaginario di opposizione alla pervasività del potere politico esercitato dallo Stato moderno su tutte le dimensioni del vivere umano, anche quella interiore dell’animo e della coscienza.
Intrusione che mirava al controllo e al disciplinamento dell’individuo per farne un suddito devoto della nuova religione della nazione e (poi) della patria. E qui sarebbe interessante approfondire in questo senso il ruolo giocato dal culto al Sacro Cuore nel corso del Kulturkampf tedesco – a cui l’autrice fa cenno.
In un quadro composto da due ordinamenti opposti e speculari al tempo stesso, è inevitabile che l’unica forma possibile di declinazione di una resistenza alla pervasività totale del potere dello Stato fosse quella di un’occupazione dei territori dell’animo da parte di quello della Chiesa.
Il problema è che ci siamo concentrati esclusivamente sull’esito (scontato) dell’uso del culto ecclesiale al Sacro Cuore nel dualismo del potere fra Stato e Chiesa, dimenticando quasi completamente la ragione strutturante del suo sorgere: quella, appunto, di cercare di arginare l’intrusione onnicomprensiva del potere politico all’interno della sfera interiore dell’individuo – ossia trovare una sponda per non fare di esso unicamente un suddito supino dello Stato (ciò che poi, nel lento processo di democratizzazione del potere, approderà poi alla forma della cittadinanza), così devotamente abbandonato a esso da abdicare alla richiesta di ogni legittimazione delle sue sacre pretese.
Il sacro della coscienza e il potere
Date le dinamiche costituzionali generate da questo dualismo tra Stato e Chiesa, religione e politica, l’uso e l’esito di questa intuizione di resistenza dello spirituale davanti alle invadenze indebite del potere politico non poteva essere che speculare e omologo a ciò a cui essa voleva opporsi. Il passaggio dalla devozione al Sacro Cuore al culto liturgico del Sacro Cuore rappresenta, sul versante ecclesiale, un momento emblematico dell’istituzionalizzazione della coscienza che caratterizza questo tornante di una modernità che inizia a muovere i primi passi verso il suo esaurimento.
La storia dell’Europa ci ha mostrato che l’istituzionalizzazione della coscienza, fino alla sua completa giuridificazione, crea mostri ingovernabili e ferisce la dignità profonda dell’umano nel momento stesso in cui ne rivendica la sua massima esaltazione. Davanti a questo, ossia proprio nel tragico di questa vicenda complessiva, vi è però un aspetto ulteriore che si fa evidentemente fatica a cogliere – e il breve articolo da cui siamo partiti per queste riflessioni ne è, a mio avviso, un caso esemplare.
Detta in una battuta: il culto liturgico del Sacro Cuore non è riuscito ad assorbire completamente in sé la devozione al Sacro Cuore – e questo scarto ha continuato e continua tuttora a circolare allo stato brado nelle trame istituite della fede cattolica.
La resistenza alla pervasività invasiva del potere che vuole assoggettare a sé anche le ragioni dell’animo e il sentire della coscienza, fallita sull’asse pubblico del dualismo Stato-Chiesa, è rimasta invece una forza che, proprio mediante la devozione, ha continuato a circolare all’interno dell’istituzione ecclesiale cattolica.
Nella sua debolezza, quasi fino all’evanescenza contemporanea, la devozione al Sacro Cuore rappresenta all’interno della Chiesa cattolica quella pratica dell’animo credente che si oppone e resiste alla pretesa di istituzionalizzare la dimensione spirituale e le forme della coscienza individuale. In tutta la sua residualità e marginalità, che è oramai davanti agli occhi di tutti, la devozione al Sacro Cuore può mettere in atto ancora oggi la forza di questa resistenza proprio nel suo essersi generata, da un certo punto in avanti della storia, come scarto che permane davanti all’istituzione liturgica del culto del Sacro Cuore da parte del potere della Chiesa.
L’occasione persa dall’illuminismo cattolico
Che «l’illuminismo cattolico non sapesse cosa farsene del Cuore di Gesù», come afferma Aschmann nel suo articolo, quasi a legittimazione del rifiuto totale di mettere mano oggi in un qualche modo al culto del Sacro Cuore perché segno della «cattiva condizione di salute della capacità di futuro della Chiesa», rappresenta a mio avviso più l’indice di una sua certa ottusità che quello della sua valenza normativa come dato scontato per la fede cattolica oggi.
Infatti, l’illuminismo cattolico avrebbe potuto cogliere nel carattere di resistenza a un potere (anche quello della Chiesa) che vuole assoggettare a sé la coscienza individuale e le sue mozioni, e che la devozione al Sacro Cuore teneva e tiene viva nel suo scarto rispetto al culto ecclesiale, una consonanza e un’affinità sorprendente rispetto al suo stesso progetto di rinnovamento ecclesiale del cattolicesimo europeo.
Che questa occasione non sia stata colta dall’illuminismo cattolico non è probabilmente solo questione di scarsa sensibilità, o di afasia dei codici linguistici, ma ha anche a che fare più ampiamente con la forma dello stesso illuminismo nel suo complesso: per il quale non si tratta tanto di resistere al potere, o di salvaguardare sfere dell’individualità che a esso possono opporsi legittimamente, quanto piuttosto di conquistarlo (certo per esercitarlo poi in modo diverso).
Del Cuore di Gesù l’illuminismo cattolico non sa che farsene proprio perché, nello scarto devozionale rispetto al culto, esso tiene ferma una logica della fede come critica e messa in questione costante del potere stesso (a prescindere dalle forme del suo esercizio) – scacco questo che tocca direttamente anche le pretese del cosiddetto illuminismo cattolico.
Lo scarto che storicamente si è prodotto fra devozione e culto per riferimento al Sacro Cuore, ossia il fallimento del potere della Chiesa nella sua volontà di assorbire completamente le disposizioni dell’animo legate a questo immaginario spirituale nell’istituto liturgico della sua celebrazione, mi sembra particolarmente intrigante proprio per ciò che concerne gli assetti costituzionali della Chiesa nel contemporaneo – in particolare per l’occasione di una loro ricalibrazione che è rappresentata dal pontificato di Francesco.
Riattivare una devozione
Più precisamente, nel dualismo di devozione al Sacro Cuore e di culto del Sacro Cuore mi sembra che si apra lo spazio per la configurazione di istanze critiche di controllo e bilanciamento del potere (della e nella Chiesa) che sono e rimangono esterne a esso e al suo esercizio. Questo scarto dal potere come funzione critica del potere, ossia l’individuazione di sfere e ambiti che non sono legittimamente accessibili al potere ma che non si ritraggono da un confronto con esso, anzi ne inducono un certo modo di declinazione pratica, mi sembra essere una reale novità e un compito a cui si deve mettere mano nel quadro delle istituzioni del nostro tempo.
Per questo starei un po’ più attento a prendere congedo definitivo dal culto ecclesiale del Sacro Cuore, pensando questo movimento di abbandono come la punta più avanzata per rendere il cattolicesimo capace del contemporaneo e all’altezza del futuro. Formalmente, poi, il culto liturgico non è mai stato sospeso – rimane una festa nel calendario liturgico della Chiesa cattolica. Certo, questa mera permanenza non significa da sé che il culto abbia (ancora) senso per la fede oggi.
Ma a questo punto bisogna chiedersi che cosa vuol dire “riattivare il culto del Sacro Cuore”, come fa Aschmann nel suo intervento, ritenendola cosa deplorevole e dannosa. Come celebrazione liturgica formale, appunto, questo culto non è mai stato disattivato; come significato per il vissuto della fede nella contemporaneità europea può essere che non abbia più senso. Ma la domanda rimane: che cosa viene effettivamente riattivato dalla diocesi di Berlino nel gesto di consacrazione della Chiesa locale al Cuore di Gesù e a quello di Maria?
La riattivazione non è un meccanismo inerte, non è nemmeno ripetizione o ripresa. La riattivazione è piuttosto una forza, indipendente dal dispositivo istituzionale e dall’apparato liturgico in cui si declina il potere della Chiesa. La mera scelta di un vescovo, magari raccogliendo anche l’invito «ripetuto da parte dei credenti» (come scrive l’arcivescovo di Berlino nel suo messaggio alla diocesi per l’occasione), non riattiva nulla – e non lo fa neanche una celebrazione liturgica pontificale in un duomo che ha esaurito tutta la sua capienza (pur se limitata a causa delle misure di sicurezza sanitaria legate alla pandemia).
Quindi possiamo stare tranquilli, se questo è ciò di cui ne va non cambierà nulla – al limite se ne può valutare la sua opportunità o meno, a seconda dei gusti e del modo di leggere la storia.
Allo stesso modo si potrebbero intendere le ragioni che hanno spinto un vescovo verso questa scelta a nome di tutta una Chiesa locale. È vero, come scrive Aschmann, che la «storia del culto va molto più indietro rispetto alla tradizione berlinese di una consacrazione della diocesi al Cuore di Gesù» formatasi negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso.
Ma forse bisognerebbe dare un po’ di credito storico in più ai motivi che hanno suggerito oggi un riaggancio a questa tradizione: «Il 1930 era un tempo fra le crisi: la Prima guerra mondiale era terminata da dodici anni; ci si era lasciati alle spalle la pandemia dell’influenza spagnola da una decina di anni; e la crisi economica mondiale era esplosa solo un anno prima (…). Nel 1944 ci si trovava immersi nelle conseguenze disastrose del dopo guerra, e nel 1948 abbiamo il blocco di Berlino» (H. Koch) come prima evidente conseguenza dell’inizio della Guerra fredda.
Riattivazione e profezia
Vi è quindi una storia recente che lega la Chiesa cattolica di Berlino, in condizioni di grave crisi che incidono profondamente sui vissuti della gente, con il Cuore di Gesù; un nesso tra momento storico e consacrazione al Sacro Cuore che nei vent’anni che vanno dal 1930 al 1948 assume dei tratti specifici, propri alla condizione effettiva di questa Chiesa locale – e che marcano già anche una certa rottura con l’uso del culto che si era fatto fino ad allora a livello di cattolicesimo globale.
Una storia locale del culto che andrebbe probabilmente indagata più a fondo; e forse così facendo potrebbe emergere qualche elemento di pertinenza nel voler riagganciarsi a essa in questo nostro tempo che ha visto sconvolti tutti i suoi assetti abituali e consolidati a causa della pandemia da Covid-19.
Certo, una possibile pertinenza storica non significa ancora una riattivazione; ma potrebbe rappresentarne l’occasione, l’innesco per intercettare la forza istituente che circola nello scarto fra devozione al Sacro Cuore e culto del Sacro Cuore. Il tutto potrebbe rimanere un’occasione mancata, come fu dell’illuminismo cattolico – che nel tramonto della modernità del Cuore di Gesù proprio non seppe cosa farsene.
Ma la situazione effettiva del vivere umano e della fede non è irrilevante rispetto alla possibilità di aprire un orizzonte di riattivazione: è così che nella dinamica della tradizione cattolica si genera il nuovo e l’inedito. Cambiando le condizioni concrete del vivere umano anche la fissità delle formule e dei gesti si modifica e assume significati e funzioni diverse rispetto a quelli che aveva in precedenza.
Chissà che la profezia nella Chiesa non si riattivi proprio in una metropoli cosmopolita della vecchia Europa, che è stata il cuore dello spirito prussiano nella sua massima espansione moderna di potere sul mondo intero: dove il cattolicesimo è oggi una quantité négligeable del tutto marginale.
Finché si resta nella cultura intellettualista attuale poi al massimo si aggiungono buoni intenti, pure in parte interessanti ma variamente artefatti e omologati. Non per nulla con scarso seguito. In questa direzione sembrano muoversi certe proposte in campo economico, come il voto col portafoglio, ossia scegliendo per esempio i prodotti di certe aziende più umanizzanti (a detta di chi?) o certe forme di considerazione più allargata degli aspetti in gioco e dei valori economici ma non economicistici (per esempio l’aria non inquinata).
Senza salto di qualità il tecnicismo della ragione astratta sta conducendo verso il crollo. Eppure pare che non pochi responsabili non si interroghino più di tanto sulle cause di ciò. Né tantomeno siano assetati di ascoltare proposte altrui. Un salto di qualità mi pare possa ricercarsi nel favorire, nei modi e nei tempi adeguati fin dalla scuola, la libera formazione nella identità ricercata e nello scambio con le altre. Da qui potranno svilupparsi stimoli a vissuti sguardi a tutto campo, non riduttivamente e distortamente vivisezionati, ad una più libera e autentica partecipazione. Il mondo non può andare avanti in eterno se si cerca di ridurre le persone ad automi spogliati di tutto.